alla «cattedra» del Siscar

Per prepararci alla beatificazione di Madre Speranza desideriamo partire dalla sua vita, da ciò che il Signore ha compiuto in lei e attraverso di lei. In particolare, in questo primo incontro, partiremo dal suo paese natale, Santomera, per percorrere con la Madre il lungo cammino verso la santità. Per alcuni, forse, sono «strade» già conosciute, ma vogliamo ripercorrerle alla luce del tempo di grazia che ci è dato di vivere e nella novità del cuore, per ritrovare quelle pietre miliari che possano segnare ed orientare anche il nostro cammino verso la pienezza dell’amore. Chiediamo alla Madre di accompagnarci, fin da adesso, lungo queste vie e di farci partecipi dei suoi stessi sentimenti. Che ciascuno possa sperimentare la «meraviglia» di appartenere ad un Dio che si inserisce nella povera e semplice storia di ogni uomo, in quella della Madre, come in quella di ciascuno di noi.

Il contesto sociale e religioso in cui nacque la Madre

Al tempo che la Madre Speranza nacque e visse, la vita in Santomera, suo paese natale, era solo di stile rurale e con raccolti molto scarsi, data la permanente siccità del clima e la mancanza di laghi che dessero la possibilità di irrigare.

Sotto l'oppressione di questa triste situazione economica, molte famiglie si videro obbligate ad emigrare, dirigendosi con preferenza verso Barcellona. Appare molto raro e inspiegabile come della famiglia della Madre nessuno abbia emigrato per lavoro. I pochi che restarono vivevano nella povertà più estrema; i più senza una casa propria e senza un lavoro fisso. Da una presa di coscienza di questa povertà e miseria, nella quale tanta povera gente era costretta a vivere in quelle zone negli anni alla fine dell'ottocento, emerge con evidenza che ci furono una profonda religiosità e una sentita carità a sostenere la loro vita.

Parrocchia - Soltanto nel 1785 Santomera fu costituita parrocchia; prima dipendeva dalla parrocchia di Beniel, un paese non molto distante. Si terminò di costruire la chiesa parrocchiale attuale nel 1876 (diciassette anni prima che nascesse la Madre).

Dal 29 novembre 1874 era stata istituita in Santomera la «Asociación de la Caridad» (Associazione della Carità), per iniziativa di don José Puig Valera. L'Associazione è tuttora fiorente. Dal 1723 era stata istituita la Confraternita del rosario. Anche la comunità parrocchiale di Santomera, dal 26 gennaio 1921, usufruì della concessione, data dalla S. Congregazione dei Riti a tutte le diocesi di Spagna, di poter celebrare il 31 maggio, con ufficio e messa propria, la festa della SS. Vergine «Medianera de todas las gracias» (Mediatrice di tutte le grazie).

Al tempo della Madre reggeva la parrocchia il sacerdote don Manuel Aliaga Hernández. Vivevano con lui, nella casa parrocchiale, due sorelle, Inés e María. Don Manuel morì il 4 maggio 1922, all'età di 84 anni. La Madre ha sempre ricordato con affetto e riconoscenza sia il parroco che le sorelle. Don Manuel aveva fama di uomo colto, generoso e di spirito aperto, e la Madre aveva con lui un rapporto filiale.

 

La famiglia della Madre

Nacque in una famiglia poverissima, ridotta quasi alla miseria.

Il padre, José Antonio Alhama Palma, nato a Santomera il 15.1.1862, fu battezzato il giorno dopo la sua nascita. La madre, María del Carmen Valera Buitrago, nata a Matanza (frazione di Santomera) il 9.10.1873, fu battezzata nello stesso giorno. Si sposarono il 28 luglio 1892 nella chiesa parrocchiale di Santomera.

Il padre era operaio agricolo avventizio; in quel tempo c'erano pochissime possibilità di lavoro, perché tutta la zona era molto povera; c'era molto terreno ma poca possibilità di irrigare, per cui per la maggior parte dell'anno non c'era lavoro.

Questa famiglia non aveva mezzi neanche per avere una casetta propria o almeno una «barraca». Vissero nella località chiamata "Paraje de la Acequia de Zaraiche". Questo canale li divideva dal gruppetto di case del Siscar. Tra questo canale e una presa di acqua chiamata il "Merancho" (che serviva per muovere il mulino di grano e cereali), una piccola strada campestre, "vereda del Molino", formava un triangolino di terra di non più di 15 m di lato, dividendo così un terreno di circa 500 m, proprietà del Sig. Manuel Campillo González e di sua moglie Doña María Murcia Reballato e che era stato dato in affitto a un certo Sig. Antón El Morga.

Su questo terreno c'era una «barraca» (baracca) nella quale era vissuto per qualche tempo il Sig. Antón El Morga, il quale la cedette al Sig. José Antonio Alhama; fu qui che nacque la Madre.

Un altro signore, certo Manuel Sevilla, donò alla famiglia una modestissima casetta in località Siscar dove ripararono il babbo della Madre con la sua sposa e i suoi figli.

Dal matrimonio nacquero 9 figli:

- María Josefa (la Madre) nata il 29.9.1893;

- Juan nato il 14.2.1896;

- Antonio nato il 2.7.1898;

- María Remedios nata il 23.5.1901;

- Francisco nato il 26.6.1903;

- María (M. Ascensione) nata il 30.3.1906;

- Jesús María nato il 30.3.1906;

- María del Carmen nata il 28.11.1908;

- Manuel nato il 22.5.1917.

Quattro di questi fratelli (María Remedios, Francisco, Jesús María e Manuel), morirono da bambini, como afferma la stessa Madre in una deposizione del 1927, rilasciata al Tribunale Ecclesiastico di Madrid in occasione del processo per la presunta guarigione per intercessione del Padre Claret:

«... i miei genitori sono vivi e sono dediti ai lavori campestri; ho due sorelle e due fratelli; questi attendono ai lavori campestri e di quelle una é religiosa della stessa Congregazione e l'altra sta a casa presso i miei genitori. Stanno tutti bene in salute e non hanno avuto altre malattie all'infuori del vaiolo sofferto dal secondo dei miei fratelli. Morirono quattro miei fratellini, il maggiore dei quali non aveva ancora due anni e questo morì di difterite».

Sono tuttora viventi numerosi nipoti della Madre.

Per quanto riguarda la condotta morale dei genitori e la loro pratica religiosa, abbiamo la testimonianza di un abitante del luogo, che li conosceva bene:

«La condotta morale e religiosa dei genitori di M. Speranza era normale, senza bisogno di dire che erano molto praticanti; perché a quel tempo e in quell’ambiente non c’era quasi possibilità di condurre una vita cristiana di pratica giornaliera e continuata degli uffici liturgici. L’ambiente della famiglia era molto povero economicamente e culturalmente. Il carattere del padre era sveglio, nervoso, deciso, potendo dire che era un uomo di forte temperamento. Il carattere della madre era un po’ ritirato, quasi timido, parca nelle parole e dava l’impressione come se fosse assente. Era una donna educata, rispettosa e umile, senza mischiarsi in chiacchiere e conversazioni che non la riguardavano. Il Padre di M. Speranza, durante l’inverno lavorava il campo del nonno della mia prima moglie».

Riguardo la pratica religiosa dei genitori, abbiamo anche la testimonianza della sorella Carmen:

«I miei genitori erano molto buoni e religiosi, andavano a Messa tutte le domeniche e nelle feste e, fin da piccoli, ci facevano andare anche a noi. Eravamo molto poveri, però ci volevamo tutti molto bene e andavamo d’accordo. Mio padre aveva un temperamento forte, però solo apparentemente; mia madre era più paziente di mio padre».

Una nipote riferisce dei tratti molto significativi del carattere della mamma della Madre:

«Nelle ore libere la nonna aveva sempre la corona in mano. Ma andava anche a lavorare in campagna con i miei genitori e faceva l'erba per i conigli. Passando insieme per i sentieri di campagna, ricordo che la nonna toglieva di mezzo i sassi o qualche ramo d'albero che vi si fosse trovato. Io le domandai una volta, perché lo facesse e lei mi rispose che di notte potevano passare per quei sentieri delle persone in bicicletta o anche a piedi e ci potevano cadere. Ricordo anche che la nonna per fare questo doveva deporre il fascio d'erba che aveva sulle spalle e poi caricarselo di nuovo con notevole sforzo».

Ed ancora ricorda:

«La nonna era molto caritatevole e premurosa verso gli altri, e anche se lei era povera, non mandava mai via nessuno a mani vuote. Ricordo che un giorno venne un povero a chiedere l'elemosina ed allora io andai alla credenza e, spostando la tendina, vidi che c'era solo un pezzo di pane e mi fermai, perché non glielo volevo dare. Dissi alla nonna: "C'è solo un pezzo di pane per te!". Ma poiché io rimanevo ancora ferma, lei con tono quasi di rimprovero, mi disse: "Prendilo e daglielo!". Io andai a mangiare dai miei genitori e lei non so come abbia fatto».

Il padre della Madre morì il 6.11.1932, nella casetta del Siscar, vittima di una polmonite. Alla madre, vedova, rimasta ormai sola e priva di qualsiasi risorsa, le fu assegnato uno dei «cuarticos», mini-appartamenti, che la famiglia Campillo aveva costruito per i poveri. Qui vi visse ritirata, dedita alla preghiera, non mancando, per quel che poteva, di esercitare la carità, come d'altra parte aveva sempre fatto in tutta la sua vita. Morì il 24.7.1954 di un attacco cardiaco.

 

L'infanzia della Madre

I primi anni della sua vita li passò nella «barraca», dove abitavano i genitori e conobbe e condivise la povertà estrema della famiglia.

Era una bambina sveglia, piena di simpatia e dotata di una intelligenza fuori del comune. Abbiamo sentito raccontare:

«Madre Ascensión, sorella di Madre Speranza era riservatissima, non ci raccontava quasi nulla della sua famiglia. [...] Ci disse una volta che in paese Josefa era ritenuta "una niña muy traviesa (vivace) de mucho cuidado (da tener d'occhio)", perchè capace di fare le cose più impensate. La gente diceva che, nascendo Josefa si era preso tutto lei, come ingegno ed intelligenza, non lasciando nulla ai fratelli e sorelle nati dopo di lei. Era una bambina imprevedibile: "Lo que a ella se le ocurría no se le ocurre a nadie!"».

Anche della sua infanzia, come avviene comunemente per ogni bambino, si ricordano piccoli e simpatici aneddoti, espressioni di quella grande vivacità che la contraddistinse:

«[...] Ci disse [Madre Ascensión] di aver sentito raccontare dalla mamma il fatto del fratellino che Josefa aveva messo nel buco di un albero per potersi liberamente divertire. Il piccolo muovendosi nel terriccio dell'albero secco, sprofondò e dovettero segare il tronco per estrarlo vivo, ma pieno di formiche. La mamma era stata tutto il tempo a piangere e a pregare mentre le tiravano fuori il figlio.
A Josefa non piacevano le fave ed allora un giorno tolse tutti i fiori di queste pianticelle perchè così non sarebbero nate le fave. Nell'uno e nell'altro caso Josefa ci prese un sacco di botte dalla mamma [...]».

Presso il parroco - A quanto si racconta, un signore di nome Pepe Ireno, che aveva un podere vicino alla «barraca» dove viveva la famiglia della Madre, impressionato dalla sveltezza e dall'intelligenza della bambina, pensò che era una pena lasciarla in tanta povertà, abbandono e miseria; convinse i genitori ad affidarla al parroco di Santomera, don Manuel Aliaga, che viveva con due sorelle; questi fu contento di portarla a casa sua dove, oltre a ricevere una buona educazione, avrebbe potuto imparare anche altre cose che, più tardi, le sarebbero state utili. Non si sa con esattezza quando la bambina si trasferì nella casa del parroco. Avrebbe dovuto avere 6 o 7 anni.

Scuola ed istruzione - In cambio di piccoli servizi, le due sorelle del parroco, Inés e María, aiutate dalla Sig.ra María De Las Maravillas Fernández Serna e da una sua sorella religiosa, Carmen, si incaricarono di dare alla bambina un po' di istruzione e di cultura, oltre che di insegnarle i lavori domestici. Non frequentò mai la scuola e tutta la sua cultura la acquisì a casa del parroco, dove rimase fino al 15 ottobre 1914, giorno in cui partì per farsi religiosa.

Prima Comunione - Non è possibile sapere quando la Madre fu ammessa ufficialmente alla comunione, perché i registri andarono distrutti durante la guerra. E' da supporre che si accostò ufficialmente per la prima volta alla comunione all'età di dodici anni, come era prassi in quell'epoca. Abbiamo parlato della prima comunione ufficiale perché la bambina, all'età di otto anni, usando uno stratagemma, riuscì, come ella stessa direbbe, a «rubare» Gesù. Infatti, una mattina, essendo assente il parroco, era venuto a celebrare un sacerdote che non la conosceva; si tenne pronta e, al momento della comunione si portò alla balaustra e fece la sua prima comunione, dopo aver preso una tazza di caffè-latte con cioccolato! Fu tale la gioia di questo incontro con il «buen Jesús» che, da quel giorno, non osava nemmeno saltare alla corda per il timore di disturbarlo. Questo fatto, nella sua ingenuità, dimostra l'amore che la Madre, fin da bambina, aveva per Gesù, tanto che fin da allora lo invitò a rimanere con lei, preoccupandosi di fargli costantemente compagnia, di non lasciarlo mai solo e di non dimenticarlo mai durante la giornata.

 

L'alba della vocazione

Sulla vita che la Madre condusse da giovane si conoscono pochissime cose; si sa, tra l'altro, che qualche volta faceva visita ai genitori, aiutando la mamma nelle faccende e che era stimata per la sua simpatia e per la sua bontà.

Si sa di certo che la Madre non ha mai pensato a formarsi una famiglia perchè aveva intenzione di consacrarsi a Dio; probabilmente ebbe qualche pretendente, che ella però rifiutò:

«Trascorse l’adolescenza e la giovinezza in casa del Parroco ed aveva buone relazioni con noi e con i miei genitori, infatti veniva a trovarci spesso. Aveva buone amiche con le quali si comportava bene. Non conosco quali fossero i suoi divertimenti , comunque non andava a ballare né alle feste. Parlava di cose che si riferivano alla Chiesa. L’ambiente nel quale viveva mia sorella, la Serva di Dio, era di pietà e molto religioso, perché anche le sorelle del Parroco lo erano... rifiutava qualsiasi ragazzo che volesse avvicinarla. Mai pensò di sposarsi».

Non sappiamo quando nacque nella Madre questo proposito, né se poté realizzare subito questo suo desiderio:

«Ho sentito dire da mia cognata, Madre Mª Fernanda Meseguer, che è religiosa di Gesù e Maria, che una delle volte che lei, in Italia, parlò con la Serva di Dio, questa le disse che doveva la sua vocazione allo zio della Madre Fernanda, Santiago Fernández Serna, che era stato sacerdote, parroco de Roldán (Torre Pacheco) - Murcia».

Nel desiderio di rispondere alla chiamata del Signore, la Madre fece la sua prima esperienza di vita religiosa presso una comunità di suore dedite all'assistenza dei malati. Di questa esperienza della Madre si conosce quanto ella stessa ha raccontato ai suoi figli e alle sue figlie:

«Passando con la Suora incaricata per una corsia, avevo notato un povero uomo in fin di vita, ormai quasi con il rantolo e che soffriva tanto... Lo indicai alla Suora pensando che ella non se ne fosse accorta... La Suora si avvicinò al letto del moribondo e con il lenzuolo gli coprì la faccia... e partì. Io ne restai tanto scossa e provavo tanta pena per quell'uomo che soffriva; la Suora se ne accorse e mi disse: "Vedrai che anche a te con il tempo ti si farà il cuore duro!" E la Madre: "Mi basta questo: prima che mi si faccia il cuore duro, io me ne vado"».

Questa esperienza non poteva certamente appagare quella sete d'amore e di bene che la Madre sentiva nel suo cuore, non poteva neanche conciliarsi con quella radicalità di donazione che, più tardi, dimostrerà con la sua scelta.

 

domande per la riflessione e il dialogo

  1. Che lezione impariamo alla «cattedra» del Siscar sullo stile di Dio e sulle sue scelte?
    Quali sono, invece, i criteri proposti dalla nostra cultura?
    Quali i miei criteri personali?

  2. Alla luce delle origini della Madre, come leggo e quali sentimenti provo di fronte alla mia storia personale, all'ambiente familiare e sociale che ha visto nascere in me l’amore a Gesù?

  3. Qual’è, oggi, la chiamata di Dio per la mia vita?
    Dove riconosco la "voce di Dio" sulla mia vita?
    C’è qualcosa che ne disturba l’ascolto? Come superare gli eventuali ostacoli?
    Cosa può favorire una risposta all’"Amore che chiama" nei diversi stati di vita?

  4. Il «gran deseo», il grande desiderio, della Madre nel «rubare» Gesù cosa dice al mio amore per l'Eucaristia?
    Il Corpo di Cristo che si dona a me, diventa appello al mio modo di vivere la corporeità e al dono di me all’altro?

 

traccia per la riflessione personale e la condivisione

In questo momento di riflessione e di condivisione, ci disponiamo, in atteggiamento filiale, ad esprimere la nostra gratitudine per il grande dono di una donna come Madre Speranza, una segno per i nostri tempi, anche grazie alla Chiesa che la innalza agli onori degli altari con la Beatificazione.

Chiediamo al Signore di guidarci, perché non solo la sua Famiglia religiosa ma anche ognuno di noi si senta stimolato a riscoprire le origini di una storia che Dio stesso ha scelto di far passare attraverso la vita della Madre e si senta interpellato ad assimilarne l'esempio così ricco, che l'ha condotta sulla via della santità.

 

Lettura 1Cor 1, 26-29

«Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio»

 

Papa Francesco, Assisi 4.10.2013

Sono contento che la prima domanda sia stata da una giovane coppia. Una bella testimonianza! Due giovani che hanno scelto, hanno deciso, con gioia e con coraggio di formare una famiglia. Sì, perché è proprio vero, ci vuole coraggio per formare una famiglia! Ci vuole coraggio! E la domanda di voi, giovani sposi, si collega a quella sulla vocazione. Che cos’è il matrimonio? E’ una vera e propria vocazione, come lo sono il sacerdozio e la vita religiosa. Due cristiani che si sposano hanno riconosciuto nella loro storia di amore la chiamata del Signore, la vocazione a formare di due, maschio e femmina, una sola carne, una sola vita. E il Sacramento del matrimonio avvolge questo amore con la grazia di Dio, lo radica in Dio stesso. Con questo dono, con la certezza di questa chiamata, si può partire sicuri, non si ha paura di nulla, si può affrontare tutto, insieme!

Pensiamo ai nostri genitori, ai nostri nonni o bisnonni: si sono sposati in condizioni molto più povere delle nostre, alcuni in tempo di guerra, o di dopoguerra; alcuni sono emigrati, come i miei genitori. Dove trovavano la forza? La trovavano nella certezza che il Signore era con loro, che la famiglia è benedetta da Dio col Sacramento del matrimonio, e che benedetta è la missione di mettere al mondo i figli e di educarli. Con queste certezze hanno superato anche le prove più dure. Erano certezze semplici, ma vere, formavano delle colonne che sostenevano il loro amore. Non è stata facile, la vita loro; c’erano problemi, tanti problemi. Ma queste certezze semplici li aiutavano ad andare avanti. E sono riusciti a fare una bella famiglia, a dare vita, a fare crescere i figli.

Cari amici, ci vuole questa base morale e spirituale per costruire bene, in modo solido! Oggi, questa base non è più garantita dalle famiglie e dalla tradizione sociale. Anzi, la società in cui voi siete nati privilegia i diritti individuali piuttosto che la famiglia - questi diritti individuali -, privilegia le relazioni che durano finché non sorgono difficoltà, e per questo a volte parla di rapporto di coppia, di famiglia e di matrimonio in modo superficiale ed equivoco. Basterebbe guardare certi programmi televisivi e si vedono questi valori! Quante volte i parroci – anch’io, alcune volte l’ho sentito – sentono una coppia che viene a sposarsi: "Ma voi sapete che il matrimonio è per tutta la vita?". "Ah, noi ci amiamo tanto, ma… rimarremo insieme finché dura l’amore. Quando finisce, uno da una parte e l’altro dall’altra". E’ l’egoismo: quando io non sento, taglio il matrimonio e mi dimentico di quell’"una sola carne", che non può dividersi. E’ rischioso sposarsi: è rischioso! E’ quell’egoismo che ci minaccia, perché dentro di noi tutti abbiamo la possibilità di una doppia personalità: quella che dice: "Io, libero, io voglio questo…", e l’altra che dice: "Io, me, mi, con me, per me …". L’egoismo sempre, che torna e non sa aprirsi agli altri. L’altra difficoltà è questa cultura del provvisorio: sembra che niente sia definitivo. Tutto è provvisorio. Come ho detto prima: mah, l’amore, finché dura. Una volta ho sentito un seminarista – bravo – che diceva: "Io voglio diventare prete, ma per dieci anni. Dopo ci ripenso". E’ la cultura del provvisorio, e Gesù non ci ha salvato provvisoriamente: ci ha salvati definitivamente!

Ma lo Spirito Santo suscita sempre risposte nuove alle nuove esigenze! E così si sono moltiplicati nella Chiesa i cammini per fidanzati, i corsi di preparazione al Matrimonio, i gruppi di giovani coppie nelle parrocchie, i movimenti familiari… Sono una ricchezza immensa! Sono punti di riferimento per tutti: giovani in ricerca, coppie in crisi, genitori in difficoltà con i figli e viceversa. Ci aiutano tutti! E poi ci sono le diverse forme di accoglienza: l’affido, l’adozione, le case-famiglia di vari tipi… La fantasia – mi permetto la parola – la fantasia dello Spirito Santo è infinita, ma è anche molto concreta! Allora vorrei dirvi di non avere paura di fare passi definitivi: non avere paura di farli. Quante volte ho sentito mamme che mi dicono: "Ma, Padre, io ho un figlio di 30 anni e non si sposa: non so cosa fare! Ha una bella fidanzata, ma non si decide". Ma, signora, non gli stiri più le camicie! E’ così! Non avere paura di fare passi definitivi, come quello del matrimonio: approfondite il vostro amore, rispettandone i tempi e le espressioni, pregate, preparatevi bene, ma poi abbiate fiducia che il Signore non vi lascia soli! Fatelo entrare nella vostra casa come uno di famiglia, Lui vi sosterrà sempre.

La famiglia è la vocazione che Dio ha scritto nella natura dell’uomo e della donna, ma c’è un’altra vocazione complementare al matrimonio: la chiamata al celibato e alla verginità per il Regno dei cieli. E’ la vocazione che Gesù stesso ha vissuto. Come riconoscerla? Come seguirla? E’ la terza domanda che mi avete fatto. Ma qualcuno di voi può pensare: ma questo vescovo, che bravo! Abbiamo fatto la domanda e ha le risposte tutte pronte, scritte! Io ho ricevuto le domande alcuni giorni fa. Per questo le conosco. E vi rispondo con due elementi essenziali su come riconoscere questa vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata. Pregare e camminare nella Chiesa. Queste due cose vanno insieme, sono intrecciate. All’origine di ogni vocazione alla vita consacrata c’è sempre un’esperienza forte di Dio, un’esperienza che non si dimentica, la si ricorda per tutta la vita! E’ quella che ha avuto Francesco. E questo noi non lo possiamo calcolare o programmare. Dio ci sorprende sempre! E’ Dio che chiama; però è importante avere un rapporto quotidiano con Lui, ascoltarlo in silenzio davanti al Tabernacolo e nell’intimo di noi stessi, parlargli, accostarsi ai Sacramenti. Avere questo rapporto familiare con il Signore è come tenere aperta la finestra della nostra vita perché Lui ci faccia sentire la sua voce, che cosa vuole da noi. Sarebbe bello sentire voi, sentire qui i preti presenti, le suore… Sarebbe bellissimo, perché ogni storia è unica, ma tutte partono da un incontro che illumina nel profondo, che tocca il cuore e coinvolge tutta la persona: affetto, intelletto, sensi, tutto. Il rapporto con Dio non riguarda solo una parte di noi stessi, riguarda tutto. E’ un amore così grande, così bello, così vero, che merita tutto e merita tutta la nostra fiducia. E una cosa vorrei dirla con forza, specialmente oggi: la verginità per il Regno di Dio non è un "no", è un "sì"! Certo, comporta la rinuncia a un legame coniugale e ad una propria famiglia, ma alla base c’è il "sì", come risposta al "sì" totale di Cristo verso di noi, e questo "sì" rende fecondi.

 

Lettura «Esortazioni» di nostra Madre (24.7.1964)

«Che dirò alle mie figlie che il Signore ha chiamato per formare una famiglia religiosa, per vivere una vita di intimità con Lui? Che dirò a queste figlie che il Signore ha chiamato di diversa educazione, così differenti da non poterlo essere di più?
Non ha guardato né all’educazione né alla cultura…, non ha guardato nulla, ha fissato gli occhi in quella pastorella, in una povera, in una che non ha studi. Però Lui l’ha chiamata così, povera come e senza nessuna cultura, per formare una famiglia religiosa, per vivere del suo amore e, in questo modo, per potersi ricreare con questa anima.
(…) Gesù è qui; Lui che ti ha accolto e ti ha preso come sua sposa, quando non avevi nulla, (…) allora Gesù ti chiamò e ti scelse come sua sposa, che pazzia! Io Gli dico: Gesù tu sei pazzo – scusami che te lo dica – però Tu sei pazzo quando fai una cosa così.
Cosa diremmo di un re o di un principe che andasse su una montagna o in un villaggio e cercasse la giovane più povera, più misera e la scegliesse come sposa? Il minimo che potremmo dire è "questo principe è un pazzo".

E se questa giovane, dopo essersi sposata con questo re o principe, se ne andasse col cuoco o con lo scopino… cosa diremmo? se dicesse: Ah! Come mi piace questo cuoco, mi ha guardato in un modo! come mi ha sorriso!…cosa penseremmo di questa giovane, che il principe ha reso nobile prendendola come sposa? (…)

Diciamolo chiaramente: Cosa abbiamo lasciato nel mondo? Quattro mura se erano di nostra proprietà o se le avevamo in affitto. Cosa abbiamo lasciato? Niente, niente! E siamo diventati parte di una grande famiglia (...) Eravamo povere, non avevamo niente, non ci manca niente e Gesù ci viene dietro come un mendicante (…)
Voi sapete che Gesù per fare cose grandi sceglie sempre strumenti piccoli e insignificanti. E’ Lui che lo dice: "Io per fare le cose più grandi scelgo la persona peggiore" ed in questo caso l’ha saputo fare bene, secondo i suoi gusti; per due Congregazioni cresciute come alberi giganti, che sono nate dal nulla. (…)
Qui sta il re dei cieli e della terra, qui sta Lui, che desidera che le due Congregazioni siano grandi, siano alberi giganteschi, i cui rami si estendono in tutto il mondo, per accogliere in esse le anime e insegnare loro ad amare, far loro comprendere che hanno un Dio che li aspetta, come un Padre, no come un giudice; che li aspetta un Padre che si chiama Amor Misericordioso, ma non amore e misericordia di un uomo, Amore e Misericordia di Dio. (…)
Che Gesù non si allontani dalle mie figlie! Chiedeteglielo: "Gesù, non allontanarti mai da me, anche se io mi allontanassi da Te, ti dimenticassi e non pensassi in te; da ora, voglio che il mio cuore e la mia mente siano fissi in Te. Voglio soffrire, lavorare e morire amandoti, però rimani con me, Signore"; e Lui non se ne andrà».

 

Preghiera della Madre:

«Gesù mio, aiutami ad osservare fedelmente tutti i miei doveri in unione con te e solo per farti contento: fa,’ Gesù mio, che acquisti la vera umiltà, basata come dici sulla tua grandezza e santità e sulla mia povertà e miseria; queste disposizioni mi spoglino del mio egoismo, della superbia e della presunzione, poiché è proprio nel vuoto di me stessa dove può realizzarsi l’unione con Dio e così, Gesù mio, tu potrai prendere la mia anima e diventarne il padrone assoluto. Gesù mio, fammi sentire la mia pochezza e debolezza, per desiderare continuamente solo te che sei l’unico che può fortificarmi e riempire il vuoto del mio cuore affranto» (29 maggio 1942).

 

Recita del Magnificat