S.E. Mons. Giuliano Agresti

RILEVAZIONE DEI PUNTI PIÙ DECISIVI DELL'ENCICLICA "DIVES IN MISERICORDIA"

Cercare i punti più decisivi di questa originale, tipica e tempestiva enciclica è cercarne la struttura portante, in definitiva la misura di base per intendere tutto il suo dettato. Non sarebbe opera facile se la stessa enciclica non ci venisse incontro con le sue sottolineature e il Papa non vi avesse delle espressioni che, apparentemente di passaggio, sono invece rivelative della sua più fonda intenzione nello stendere il documento. La memoria poi degli altri suoi documenti e discorsi può ancor meglio illuminarci nel nostro proposito. A me pare che l'impalcatura della "Dives in misericordia" possa delinearsi nel seguente modo: a) il punto costante di riferimento più immediato e diretto è sempre l'uomo, l'uomo storico, ogni singolo uomo nella storia "come creatura costituita in dignità naturale e soprannaturale, grazie alla convergente azione di Dio Creatore e del Figlio Redentore", evidenziato però nella enciclica nel suo stato concreto di sofferente e di peccatore; b) all'uomo della prova, della miseria morale e della "grande paura" l'enciclica svela ancora la medicina di Cristo, punto nodale dell'insegnamento di Giovanni Paolo II, questa volta messo in luce come "via, la strada maestra" che è rivelazione viva e massima dell'amore del Padre e al Padre delle misericordie conduce; c) il riferimento più fondo e definitivo della "Dives in misericordia" è il Padre dell'amore misericordioso che l'Antico Testamento evidenzia e il Nuovo rivela pienamente, il Padre necessario più di ogni altra cosa alla umanità contemporanea "orfana" e in grave difficoltà; d) nel segno del Padre e nella manifestazione di Cristo la misericordia "costituisce il midollo dell'ethos evangelico" ed è l'unica strada da invocare in quest'ora della storia per l'umanità", la misericordia che, unica, può far sperare anche un mondo più umano; e) una ecclesiologia della misericordia, ricevuta, annunziata e offerta è l'interesse concreto della enciclica perché la Chiesa di Cristo, dono di Lui e "gloria" del Padre, instauri, con la sua autentica esemplarità e missione nel mondo, il Regno della misericordia voluto dal Padre e realizzato dal Cristo, con il cuore rivolto al segno della Madre del Signore.

Sono questi i caposaldi che sostengono l'appassionato e originale dettato della "Dives in misericordia". Su di essi s'imposta la relazione.

1 - L'uomo inquieto, minacciato e peccatore

Dicevamo che l'uomo è la presenza più immediata, scottante e sofferta in tutta l'enciclica. L'uomo concreto, nella storia concreta, ogni uomo e "tutto ciò che è umano" come ama dire Giovanni Paolo II, affascinato dalla dignità umana secondo il mistero della Creazione e della Redenzione. Il Papa stesso spiegò questo fascino stabile dicendo, in occasione di un congresso degli insegnanti cattolici nel 1979: "È per me un "habitus mentale" che ho voluto da sempre, ma che ha acquistato più lucida determinazione dopo le esperienze della mia giovinezza e dopo la chiamata alla vita sacerdotale e pastorale" (1). Però nella "Redemptor hominis" parlò dell'uomo come "via della Chiesa", ha ripreso questa espressione come da portare avanti nella "Laborem exercens" e l'uomo gli sta sempre dinanzi nella "Dives in misericordia". Ma accentuatamente in quest'ultima enciclica è presente al Sommo Pontefice l'uomo in quanto minacciato e peccatore, nel dramma del male fisico e morale. "Rivelata pienamente in Cristo la verità intorno a Dio "Padre delle misericordie" ci consente di vederlo, particolarmente vicino all'uomo, soprattutto quanto questo soffre, quando viene minacciato nel nucleo stesso della sua esistenza e della sua dignità" e che perciò si rivolge "quasi spontaneamente alla misericordia di Dio" e indirizza per la stessa ragione "quasi un singolare appello alla Chiesa" (2). Il Papa scrive formalmente: "Nella presente enciclica desidero accogliere questo appello". Siamo dunque nel pensiero genuino del Papa. Egli non tanto si appella alla misericordia in senso generale e stabile delle prime tre beatitudini secondo Matteo, che, come nota il Dupont (3), non si devono interpretare anzitutto in senso antropologico, quasi che vi sia esaltato il privilegio dei poveri, degli afflitti e degli affamati, ma principalmente in senso teologico e cristologico, per cui il privilegio di questo genere di persone è il fatto del rivolgersi proprio a loro del Regno dell'amore misericordioso che predilige gli "ultimi" anche perché sono più disponibili a Dio. È vero, pure a una misericordia valida per sempre in ordine alle categorie in diversi modi sempre presenti nel mondo e indicate dalle tre Beatitudini si indirizza il Papa e ne fa esplicita menzione nel secondo capitolo dell'enciclica (4). Ma ciò che particolarmente gli importa è l'attualità della molteplice "minaccia" sull'uomo preso nella sua storicità e esistenzialità, per cui afferma di "implorare in quest'ora storica la misericordia di Dio per l'umanità" (5). La "Dives in misericordia" ha dunque presente l'uomo in quanto minacciato e in quanto minacciato ora, nella contingenza storica in cui viviamo.

Questo intanto indica la forza di un superamento delle astrazioni nell'annunciare la Parola, superamento di cui è intessuta tutta l'enciclica, quando è certo che la verità rivelata si fa ancora "avvenimento" vivo e presente e deve cogliere l'uomo nella sua situazione esistenziale per indicargli in concreto il cammino di liberazione.

In secondo luogo spiega perché, cogliendo la intuizione storica e profetica del Magnificat, il Papa, nella parte centrale dell'enciclica, indugia sull'immagine della nostra generazione... "consapevole dell'approssimarsi del terzo millennio e che sente profondamente la svolta che si sta verificando nella storia" (6). Non si tratta di una estrapolazione del discorso biblico-teologico sulla misericordia, ma propria della sua necessaria applicazione all'esistenziale contemporaneo secondo la giusta visione storico-salvifica della misericordia divina e dell'uomo reale cui è diretta. Il dettato della "Dives in misericordia" non mantiene il divorzio fra Vangelo e cultura, "dramma della nostra epoca, come lo fu anche d'altre" denunziato da Papa Paolo VI (7), ma assume la "condizione umana" dell'uomo contemporaneo per motivare l'invocazione della misericordia. Così si addentra nella descrizione delle "inquietudini e impotenze" dell'uomo d'oggi, sul quale "il nostro mondo aumenta il senso di minaccia". Minaccia di guerra, di sopruso, di soggiogamento "pacifico" degli individui e degli ambiti di vita, "minaccia biologica" e di ciò che più è essenzialmente umano, "la dignità della persona, con il suo diritto alla verità e alla libertà... sullo sfondo del gigantesco rimorso per l'aumento della fame nel mondo e dello stato di disuguaglianza tra uomini e popoli" (8).

Questa situazione dell'uomo "minacciato" e inquieto per la sua impotenza a vincere con i mezzi provvisori il dramma del presente proiettato sull'avvenire, e per il quale non è risolvente nemmeno "il risveglio su vasta scala" della giustizia, richiama l'urgenza della misericordia.

Ma una ragione più fonda e interiore dell'uomo-minacciato preme soprattutto ricordare al Papa e cioè il suo essere peccatore, la sua condizione di peccatore.

L'annunzio e la storia divino-umana della misericordia ha, nella Rivelazione, il corrispettivo del peccato che appunto chiama la misericordia. Due temi di fondo attraversano tutta la Sacra Scrittura: la rivelazione all'uomo del suo peccato e la rivelazione dell'Amore misericordioso che salva. Perciò nella "Dives in misericordia" Giovanni Paolo II non poteva non rivolgersi all'uomo in quanto peccatore, anche perché più lo esigeva la situazione contemporanea. Essa ha fatto emergere il cosiddetto "uomo adulto", autoconvinto illuministicamente dell'"assoluto della ragione" e della "volontà di potenza" a poter risolvere da sé, specie dopo i progressi della scienza e della tecnica, il dramma del mondo. Da più di due secoli, per scongiurare opposizioni a questa "autonomia dello sviluppo", si è fatto di tutto per eliminare il senso del peccato e dichiararlo una patologia, un mito e un anti-umanesimo. L'effetto rovesciato di questa utopia è appunto la grande crisi contemporanea. Ed è appunto notevole che la "Dives in misericordia" ricorsi l'uomo peccatore, perché solo da questo riconoscimento si cesserà di vedere "la mutabilità contemporanea.... opporsi al Dio di misericordia" e "emarginare dalla vita e distogliere dal cuore umano l'idea stessa di misericordia" (9). D'altra parte soltanto "il cuore contrito e umiliato" (10), secondo la Rivelazione, ottiene la misericordia di Dio.

Rimane dunque sempre vero che l'annunzio della misericordia ha come corrispettivo l'uomo minacciato e peccatore, perché sempre, come per l'antico Israele, si apre al tema della misericordia di Dio l'uomo "nelle disgrazie come nella presa di coscienza del suo peccato". Il Papa lo ha formalmente detto in conseguenza della sua scelta antropologica circoscritta (11).

2 - La medicina di Cristo

In tutto il suo insegnamento sull'uomo, e particolarmente nella "Redemptor hominis", Giovanni Paolo II è cristocentrico, perché "la verità intorno all'uomo.... nella sua pienezza e profondità... ci viene rivelata in Cristo" (12). Ma nella "Dives in misericordia" la ragione precisa sotto cui il Papa si appella a Gesù Cristo è il Suo essere la manifestazione massima e piena della misericordia del Padre e insieme, per questo, "via" al Padre delle misericordie. Siamo, con ciò, nel cuore del mistero di Cristo e dell'opera della Redenzione, se "il render presente il Padre come amore e misericordia è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale verifica della sua missione di Messia" (13). Siamo anche, come dicevamo già, nel "midollo dell'ethos evangelico". Questa forte e consolante notazione di Giovanni Paolo II va presa in tutta la sua stupenda estensione non primariamente antropologica ma teologica e cristologica. Il Papa stesso ce lo suggerisce. Citando infatti il discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth (14), nel quale il Maestro fa riferimento al capo sessantuno di Isaia, mette in avanti l'avvenimento profetico che il Regno messianico avrà il "privilegio" della manifestazione dell'amore gratuito e misericordioso di Dio particolarmente indirizzata ai poveri, agli afflitti, agli affamati "quando Dio li consolerà dalle loro afflizioni e sazierà la loro fame". Il Cristo stesso, identificando "la sua missione con quella del messaggero di buona novella di cui parla il libro di Isaia" afferma con ciò che già il Regno dell'amore e della misericordia è nel mondo e allorché pronunzierà il discorso della montagna con le prime tre beatitudini confermerà la "maniera con cui Dio intende esercitare il Suo potere regale a vantaggio dei deboli e dei diseredati" più capaci di avere "le disposizioni di spirito che meritino a loro la benevolenza divina" (15). Ed è questa divina condotta a far scaturire la conseguenza antropologica del "midollo dell'ethos evangelico nella beatitudine: "Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia". Fra il "Dio della fede" e l'umanità che ne riceve la Rivelazione, Cristo si pone logicamente come la manifestazione somma della corrente di misericordia fra Dio e l'uomo. La "Dives in misericordia" dà questa chiave di lettura del mistero di Cristo e del Suo Vangelo, fermandosi diffusamente sul "mistero pasquale" che esprime "sino in fondo la verità sulla misericordia" (16). Ma anche qui, sull'assunto cristico della misericordia pienamente svelata, l'enciclica ha una sua rimarcabile notazione rilevando quello svelamento pieno non solo sulla Croce ma anche nella Risurrezione. Interessava infatti al Papa della "Redemptor hominis" seguitare ad insistere, oltre che sulla liberazione "dei sofferenti, degli infelici e dei peccatori" (17), operata dalla "dimensione divina della redenzione", sulla "dignità" dell'uomo secondo il disegno di Dio esprimendo "una particolare concentrazione sulla dignità umana" (18). Insomma l'enciclica configura pienamente il tema della misericordia divina come "liberazione da" e "liberazione per". Il che è la traduzione completa del dettato biblico in ordine ad essa. Perciò dopo aver lungamente esposto il tema della morte di Cristo e della croce, dove emerge il massimo dell'amore misericordioso salvante e dove si scopre come non mai la fedeltà di Dio a tale amore, piegato "sulle ferite più dolorose della esistenza terrena" secondo il "programma messianico che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazareth" (19), la "Dives in misericordia" esprime il massimo della potenza rigeneratrice e risolutrice della misericordia. Esso è appunto nel fatto e nel mistero della Resurrezione di Cristo che costituisce il sigillo dell'amore più potente della morte, più potente del peccato e ripropone già in atto la "nuova dignità" dell'uomo per un mondo non solo liberato ma liberante sull'onda dei "cieli nuovi e terre nuove". Così se "il mistero pasquale è il vertice" della "rivelazione e attuazione della misericordia" (20) lo è perché "nella Sua resurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'Amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla resurrezione" (21).

È questo un punto nodale dell'Enciclica che incentra la nostra fede e la nostra speranza nel Risorto e si fa, contemporaneamente risposta formidabile ai detrattori della misericordia quasi sia un ripiegamento imbelle e perfino dannoso contro il moto di giustizia del mondo moderno o un rifugio patologico su una non vitale e spenta "mistica della croce". I "maestri del sospetto", Nietzsche, Marx e Freud, come l'illuminismo dell'"assoluto della ragione" lo hanno ripetuto dalle loro cattedre e il mondo moderno ne è stato in buona parte convinto. La "Dives in misericordia" è una risposta sapiente e intelligente su quanto possa per la vivace "dignita" dell'uomo la misericordia del Risorto.

3 - Il Padre dell'amore misericordioso

Ma il punto culmine cui l'enciclica si rivolge nel suo dettato è la rivelazione del "Padre delle misericordie" al Quale Cristo è "via". Una rivelazione non solo dottrinalmente necessaria ed esatta, ma anche profondamente medicinale e decisiva per il mondo contemporaneo. Si tratta, secondo questa duplice dimensione, del caposaldo definitivamente fondamentale di tutto il documento.

Giovanni Paolo II perciò lo fa attraversare in continuità, più o meno espressa, dalla memoria del Padre, perché "in Gesù Cristo ogni cammino verso l'uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi è simultaneamente un andare incontro al Padre e al Suo amore... Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull'uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre" (22).

Direi che in queste righe è l'assunto principale di questa sintesi della "Dives in misericordia", dimostrativo dell'originale timbro cristiano con cui la misericordia può essere considerata. Se essa si è rivelata visibilmente in Cristo, per mezzo di Cristo si sono spalancate, nel loro "significato definitivo", le porte del cuore del "Padre delle misericordie". Intanto come scrive il Papa, "Cristo conferisce a tutta la tradizione veterotestamentaria della misericordia divina un significato definitivo" (23) e se nel capitolo terzo dell'enciclica Giovanni Paolo II espone, con la rivelazione del concetto della misericordia di Dio verso il Suo popolo, i fatti del Dio amante e misericordioso e la "peculiare esperienza della misericordia di Dio" da parte d'Israele, ciò gli serve a dire che spetta pienamente al Cristo "rendere presente il Padre come amore e misericordia". È Lui infatti l'autore del disegno di salvezza, del "mistero nascosto da secoli e generazioni, ma ora manifestato ai Suoi santi" (24), è per il volere di Lui che "mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito" (25), è la misericordia di Lui predicata e testimoniata "con tutto il suo agire" dal Cristo stesso (26), il Quale quella propria misericordia ha svelato sommamente nel mistero pasquale di morte e resurrezione. Con la predicazione, con la vita, con le fatiche e le sofferenze e specie con la propria immolazione d'amore l'Uomo-Figlio "parla e non cessa mai di parlare - si legge nell'enciclica - di Dio-Padre che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo" (27) e che questa fedeltà fa risultare "più potente della morte, più potente del peccato" nella Resurrezione del Cristo perché l'uomo ne sia definitivamente risolto, affascinato e conquiso.

E siamo in verità nel punto più fascinoso dell'enciclica, "perché - come in essa si legge - il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico salvifico ed insieme escatologico" (28). L'inserimento della Resurrezione di Cristo nel tema della misericordia permette al Papa di dire appunto che "il Figlio di Dio nella Sua resurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte" e che Egli stesso si "deve perennemente confermarsi più potente del peccato". Con ciò rimarcando il motivo salvifico della Resurrezione, secondo l'espressione paolina "il Signore... è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (29), Giovanni Paolo II può insistere sul motivo positivo tanto a Lui caro dell'umanesimo cristiano, suscitato dall'amore del Padre specie nel mistero del Risorto, della "dignità" dell'uomo già "nella sua umanità perché" se le nostre statistiche umane, le nostre categorie umane, i nostri sistemi politici, economici e sociali umani, le nostre sole capacità umane, non riescono ad assicurare all'uomo la possibilità di nascere, di esistere e di agire come essere unico e assolutamente singolare, tutto ciò gli è assicurato da Dio" (30). Così la "Dives in misericordia", in nome della "novità cristiana" dichiarata dal Risorto può collegare misericordia e dignità della persona umana e diritti umani alla giustizia vera, alla libertà e alla pace, il che dà al tema della misericordia il suo aspetto più positivo e concreto per l'uomo contemporaneo, senza equivoci e riduzioni.

Non può far dunque difficoltà nemmeno all'uomo del nostro tempo accettare Dio-Padre che ha rivelato il Suo amore trasformante nel fatto e nel mistero del Cristo Risorto e che, soprattutto con ciò, esorcizza le tesi della cultura moderna e delle ideologie sul "Padre-padrone" o sul "Padre-padrino" da cui è stata richiamata l'ulteriore tesi della "morte di Dio". La Rivelazione cristiana, che la "Dives in misericordia" ripropone esprime tutt'altro da tali devianti pensieri e fa trovare, col contenuto sopra esposto, il "cuore" autentico del Padre. Di Esso c'è, oggi, un particolare bisogno, dopo che, per le aberranti concezioni della stravolta paternità divina, siamo stati dichiarati, con hördesliniana memoria, "tutti orfani" in balia di poveri "angeli viola" segno di una immane tristezza. Certo, quando manca il Padre, non può essere che così. Ma c'è tristemente di più e cioè che senza padre non esistono fratelli e il dirsi tali nel mondo a prescindere dal punto fermo di un Padre universale è una finzione e un assurdo, come mostra gran parte del mondo contemporaneo conflittuale e violento. I "maestri del sospetto" hanno cercato di distruggere il Padre e siamo di conseguenza inceppati nella "grande paura" per le nostre inimicizie e, in una "pace armata" che non è affatto pace. Reputo perciò notevole, anche per quest'ultima, concreta ragione, il dettato della "Dives misericordia" tutto definitivamente orientato al "Padre delle misericordie".

4 - Lo spazio della misericordia

Un quarto caposaldo dell'Enciclica è il discorso diretto, fatto a più riprese, sulla misericordia, non solo ad indicarne il significato biblico, ma soprattutto, a dichiararne, con sensibilità contemporanea e concreta, lo spazio operativo nel mondo di oggi particolarmente bisognoso di questo "midollo dell'ethos evangelico". Il significato preciso della misericordia in Dio e di conseguenza nella nostra condotta cristiana vi viene espresso per due ragioni, una umana ed una divina. La prima vuol dissipare le opposizioni attuali al Dio di misericordia che tendono perfino "a distogliere dal cuore umano l'idea stessa di misericordia". Queste opposizioni sono indicate da Giovanni Paolo II nel disagio che l'uomo moderno sembra portare davanti alla parola e al concetto di misericordia perché "grazie all'enorme sviluppo della scienza e della tecnica" si è sentito tanto padrone e dominatore della terra da non dover lasciare spazio nemmeno a quella parola e a quel concetto (31); nella falsa concezione che la misericordia trascuri "la precisa norma della giustizia" il cui senso "nel mondo contemporaneo si è risvegliato su larga scala" (32); nel pregiudizio per cui, avvertendo "nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che offre e colui che riceve", se ne deduce che "essa diffama chi la riceve, che offende la dignità dell'uomo" (33).

La conoscenza che il Papa ha della mentalità e della cultura dell'uomo contemporaneo non conforme al Vangelo lo fa attento in questa acuta disanima dell'anti-misericordia. Di fronte ad essa ricorda nella enciclica in primo luogo, come già dicevamo, che l'uomo è limitato, minacciato, sofferente e peccatore, sicché non può presumere di sé, neppure nei tempi del grande sviluppo, ma ha bisogno di amore redentivo e di misericordia salvante. Se infatti la misericordia di Dio ha significato e decisività e se chiede a noi di condurci secondo il cuore di Dio è proprio perché l'uomo grida in concreto dalla sua "dignità perduta" e rivela la sua impotenza e la sua realtà di essere "minacciato", accentuata nel tempo presente. Quanto al problema della giustizia in se stessa considerata la "Dives in misericordia" afferma evidentemente che "la misericordia differisce dalla giustizia, però non contrasta con essa (34) presupponendola e superandola come "una speciale potenza dell'amore di Dio che, già nell'Antico Testamento, prevale sul peccato e sulla infedeltà del popolo eletto" e nel Nuovo Testamento esce nella fiumana dell'amore redentivo di Cristo, nella sua stessa persona misericordia pienamente svelata del Padre" (35). Essa dunque - si legge ancora nell'Enciclica - è oltre la giustizia, avendo "la forma interiore dell'amore che nel Nuovo Testamento è chiamato agápe" (36). Nessuno ha da temere offesa per la giustizia da parte della misericordia che, nella sua dimensione autenticamente cristiana, il Papa chiama "in certo senso la più perfetta incarnazione dell'"eguaglianza" tra gli uomini e, quindi, anche l'incarnazione più perfetta della giustizia" (37).

Tanto più ciò vale se la giustizia si considera non più in se stessa ma nella condizione umana dell'uomo storico su cui può ancora il peccato. L'enciclica di Giovanni Paolo II insiste molto su questo e, se "condivide con gli uomini del nostro tempo" il "profondo e ardente desiderio di una vita giusta sotto ogni aspetto", tuttavia mette il mondo contemporaneo di fronte alla insufficienza e alla deviazione della "giustizia umana". I programmi dell'uomo "che prendono avvio dall'idea di giustizia... in pratica subiscono deformazioni" e l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà". Quanto in concreto "l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa" lo dice quella "presunta giustizia" in nome della quale "talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani" (38). Lo dice la crisi morale, culturale e umana in cui si trova il mondo contemporaneo. Per questo si legge nella "Dives in misericordia" "che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni" (39).

La parabola del figliol prodigo serve, nel dettato pontificio, a precisare "il rapporto della giustizia con l'amore, che si manifesta come misericordia" (40). Questa infine non diffama l'uomo né offende la sua dignità, perché non cerca "un rapporto di disuguaglianza", ma "si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria" (41). Del resto l'amore misericordioso e un "dono" sull'altrui miseria e necessità e solo l'orgoglio può reputarlo un'offesa. Il mondo contemporaneo che ha perso la "categoria del dono", come scriveva Adorno, può conseguentemente essere caduto in tale errore, ma "il dono" della misericordia è senza offesa, "quando, attuandola, siamo profondamente convinti che, al tempo stesso, noi la sperimentiamo da parte di coloro che la accettano da noi" essendo tutti bisognosi di misericordia. Tale è la relazione di misericordia fra gli uomini secondo la Rivelazione e "se manca questa bilateralità, questa reciprocità, le nostre azioni non sono ancora autentici atti di misericordia" (42).

Ancor più essa non può considerarsi umiliante e offensiva quando ci viene dal "Padre delle misericordie". Il Papa lo motiva, nella enciclica, ancora con la parabola del figliol prodigo nell'eco degli argomenti di S. Tommaso sulla misericordia alla questione trentesima della "secunda-secondae" della Somma. Dopo averci creati per amore Dio Padre ci reputa suoi e, vista la nostra "dignità perduta", mentre non può aver misericordia delle nostre colpe come tali, perché sono volontarie, ne ha compassione in quanto hanno connessa qualche cosa che è contro-volontà, ci guarda nella nostra "miseria" perché appunto "la misericordia è la compassione della miseria altrui" (43). L'amore del Padre gli fa scoprire, nel nostro cammino di "perduta dignità" una dignità che permane nella natura dell'uomo, ferita ma non distrutta dal peccato, e tale amore, che scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in certo senso il padre ad aver sollecitudine della dignità del figlio" (44). Quella dignità si trova defigurata, ma la "miseria" del "prodigio" richiama la compassione paterna tanto più che nel drammatico itinerario della defigurazione propria egli ha "maturato il senso della dignità perduta ed è con tale decisione che si mette per strada" verso la casa del Padre. Esso può svelare così tutta la sua misericordia "fedele alla sua paternità" fedele al suo immenso amore (45). Lui "è l'amore" e massimamente gli conviene la misericordia che "massimamente manifesta la sua onnipotenza" (46). Ecco la stupenda bellezza di questo midollo dell'ethos evangelico"!

La "Dives in misericordia" ci insegna a viverlo, con contemporanea sensibilità, nello spazio ampio delle miserie antiche e nuove, con i "nuovi poveri" che sono le nostre società umane, deviate da nuovi mezzi di disumanizzazione, da nuovi problemi di angoscia e di minaccia. Annunciando soprattutto la conversione dai peccati, la misericordia richiamata da Giovanni Paolo II scende a tutto l'umano indigente e minacciato del mondo contemporaneo. E mentre annunzia il Regno dell'amore si piega sui nuovi poveri, sui nuovi afflitti, sui nuovi affamati a fare sperare, come le prime tre beatitudini del Vangelo secondo Matteo, che il privilegio di un Dio che regna con misericordia per i peccatori e per gli "ultimi" è davvero giunto anche in ordine a "un mondo più umano".

5 - Una comunità perdonata e perdonante

La "Dives in misericordia" non poteva non chiudersi sul discorso ecclesiale, ultimo caposaldo del suo assunto, perché Cristo, rivelatore del mistero del Padre, del Suo amore e della Sua misericordia, ha affidato alla Chiesa il dovere di "professare e proclamare la misericordia divina in tutta la verità". La Chiesa è nel mondo a cantare le misericordie di Dio e "vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia". La Parola di Dio. il Sacramento della Penitenza, l'Eucarestia sono i punti nodali per questo, ma l'enciclica insiste particolarmente sulla conseguente esemplarità della Chiesa nell'esperienza e nella proclamazione esistenziale della misericordia. Ci presenta perciò una comunità ecclesiale perdonata e perdonante in dovere di continua conversione. È ciò che più piace a Dio e più serve all'uomo, specialmente all'uomo di oggi. È ciò che di più concretamente notevole la "Dives in misericordia" ci dona per la vita e la missione della Chiesa stessa, con una schematica ma fascinosa "ecclesiologia della misericordia" che non può essere più trascurata. La Chiesa nei suoi deve per prima credere intensamente che "Dio ha tanto amato... da dare il Suo Figlio unigenito" (47), che Dio "è amore" (48) e "non può rivelarsi altrimenti se non come misericordia" con "infinite la potenza e la forza del perdono" (49) E questo Dio deve annunziare, libera dall'angoscia e dalla paura. Mentre ne dà il consolante annunzio essa, ancora per prima, deve provare la gioia di sentirsi perdonata da Dio e dai fratelli, nei suoi membri, senza timore di sperimentare l'agostiniana "tristezza secondo Dio" che è, nei membri della Chiesa, la coscienza del proprio essere peccatori. I santi parlavano paradossalmente della "gioia di esser peccatori" e accompagnavano la penitenza alla lode, come chi "si felicita della potenza del medico quanto più aveva avuto disperazione per il malato" (50). E non era che una risposta al dettato biblico. La "Dives in misericordia" a questo richiama la Chiesa per la perenne conversione dei credenti, la quale non si attua senza scoprire la misericordia di Dio e riceverla. Il richiamo serve inoltre per quella "reciprocità" a ricevere e a dare misericordia tra uomini, di cui abbiamo parlato e senza la quale in noi non si è ancora compiuta pienamente la conversione né si fa accettare la nostra misericordia (51).

È così che una Chiesa perdonata, come avverte il "Pater noster", si fa perdonante dilatando gli spazi dell'amore misericordioso. Una Chiesa degli umili e dei poveri domanda dunque l'enciclica. Gli umili e i poveri, pronti a lodare solo "il Padre delle misericordie" e perciò capaci "della costante scoperta e della perseverante attuazione dell'amore come forza unificante ed insieme elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale; si tratta infatti di un amore misericordioso che, per sua essenza, è amore creatore" (52). E ciò il Papa chiama, nella sua enciclica, "caratteristica essenziale e continua della vocazione cristiana" (53).

Siamo nel segno più amabile e consolante della missione della Chiesa per il mondo contemporaneo. Di più esso può riscoprire "la più perfetta incarnazione della "eguaglianza" tra gli uomini e quindi anche l'incarnazione più perfetta della giustizia" (54); può trovare "tenerezza e sensibilità" contro le sue ferite, può sentire dalla Chiesa la parola che egli è necessaria contro tutte le minacce sperimentate. Soprattutto può ritrovare la gioia del "momento del perdono, così essenziale al Vangelo e così necessario, senza annullare "le oggettive esigenze della giustizia", per essere "più umano". Tanto feconda anche per l'umano dell'uomo appare, nel dettato dell'enciclica, la missione di misericordia della Chiesa.

Giovanni Paolo II chiede, a compimento degli esposti caposaldi della "Dives in misericordia" che tutto quanto vi ha detto "si trasformi in un'ardente preghiera" perché l'Amore misericordioso lo renda efficace in noi e nel mondo, mentre la Madre di Dio, "colei che conosce più a fondo il mistero della misericordia divina" può condurci facilmente ad avvertirne e a tradurne esemplarmente il dono.

Lo stesso Santo Padre felicemente venuti qui, a Collevalenza, luogo privilegiato dell'Amore misericordioso, nel primo anniversario dell'Enciclica, qui ripeteva: "Oh di quanta potenza d'Amore hanno bisogno l'uomo e il mondo! Di quanta potenza dell'Amore misericordioso. E insisteva sul dovere di rivelare all'uomo di oggi il mistero del Padre e del Suo amore, come a riproporci insistentemente di attuare con impegno la "Dives in misericordia".

NOTE:

1) Osservatore Romano, 29,30 Ottobre 1979.
2) Dives in misericordia, I, n. 2.
3) J. Dupont, Le Beatitudini, E.P. I 1973, pp. 714-19.
4) D. in M. II, n. 3.
5) D. in M. VII, n. 15.
6) D. in M. VI, n. 10.
7) Ev. N. n.20.
8) D. in M. VI, n. II.
9) D. in M. I, n. 2.
10) Sal. 50, 19.
11) D. in M. III, n. 4.
12) D. in M. I, n. 1.
13) D. in M. II, n. 3.
14) LC. 4,18 ss.
15) J. Dupont, op. cit. pp. 716-17.
16) D. in M. V., n. 7.
17) D. in M. V, n. 7.
18) D. in M. IV, n. 6.
19) D. in M. V, n. 8.
20) D. in M. V, n. 7.
21) D. in M. V, n. 8.
22) D. in M. I, n. 1.
23) D. in M. I, n. 1.
24) Col. I, 26.
25) Rom. 5,6.
26) D. in M. V, n. 7.
27) D. in M. II, n. 7.
28) D. in M. V, n. 8.
29) Rom. 4,25.
30) D.C. 21/1/1979, p. 57.
31) D. in M. 1, n. 2.
32) d. in M. IV, n. 5; VI, n. 12; VII, n. 14.
33) D. in M. IV, n. 6; VII, n. 14.
34) D. in M. III, n. 4.
35) D. in M. III, n. 4; I, n. 2.
36) D. in M. IV, n. 6.
37) D. in M. VII, n. 14.
38) D. in M. VI, n. 12.
39) D. in M. VI, n. 12.
40) D. in M. IV, n. 5.
41) D. in M. IV, n. 6.
42) D. in M. VII, n. 14.
43) S. Th.II - II ae, q. 30, a I, ad I et 2.
44) D. in M. IV, n. 6.
45) D. in M. IV, n. 6.
46) S. Th. II-IIae, q. 30, a 4.
47) Giov. 3,16.
48) I Giov. 4,8.
49) D. in M. VII, n. 13.
50) S. Agostino: in Ps., XCIV, 4; cc. 39, 1333.
51) D. in M. VII, n. 14.
52) D. in M. VII, n. 14.
53) D. in M. VII, n. 14.
54) D. in M. VII, n. 14.