Prof. Stanislaw Grygiel

L'ANTROPOLOGIA DI GIOVANNI PAOLO II

Tutte e tre le encicliche di Giovanni Paolo II sono dedicate all'uomo. Parlano di lui nel suo rapportarsi a Dio, il quale in Cristo Salvatore (1) si è rivelato all'uomo come Misericordia (2). Grazie all'Incarnazione l'essere umano è stato elevato ad una dignità che trascende l'uomo. Questa dignità rappresenta la Trascendenza dell'uomo; noi la chiamiamo umanità, e l'umanità è data e insieme assegnata come compito dell'uomo. In quanto Trascendenza l'umanità non potrà essere raggiunta senza la Grazia, la quale è "potenza d'Amore" ossia la Misericordia del Padre incarnata nel Figlio. D'altro canto però l'umanità, anche come Trascendenza, esige dall'uomo un lavoro (3).

Al lavoro, che è collaborazione con la Grazia, s'accompagna, ed è essenziale, un atteggiamento di stupore di fronte al valore e di fronte alla dignità della persona umana. Infatti il valore e la dignità dell'uomo non stanno nel lavoro in sé; stanno piuttosto nella Grazia. Questo "stupore di fronte al valore e alla dignità dell'uomo" che - mi sia permesso aggiungere alle parole di Giovanni Paolo II - è insito nel lavoro umano, "si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo" (4).

Di conseguenza la visione cristiana dell'uomo viene formata da un pensiero particolare. Questo pensiero poggia da una parte sull'esperienza di cui sono intessute la nostra vita quotidiana e la nostra cosiddetta saggezza di vita, dall'altra sull'Incarnazione. L'incarnazione, intesa come il Rivelarsi dell'Amore di Dio nel Figlio dal Suo Concepimento nel grembo umano di Maria fino alla Croce e all'Alba della Risurrezione, ci porta fino al punto dal quale è possibile vedere chiaramente l'atto stesso della creazione dell'uomo nel mondo. Grazie a questo il pensiero sull'uomo, ridestato nell'esperienza quotidiana della realtà umana, diventa come un anamnesi di ciò da cui essa nasce. E nasce da ciò che è in principio, en arché.

Pertanto il pensiero che l'uomo ha di sé non è costituito da una serie di atti della sola coscienza: non è un pensiero che pensa l'oggetto e che al tempo stesso lo crea. Esso è infatti costituito dagli atti della persona, dagli atti di tutto l'uomo. La conoscenza che di essi è propria non genera tanto un sapere sull'uomo, quanto piuttosto una autocoscienza dell'uomo, e di questo parla, se ho bene inteso, il card. Karol Wojtyla nella sua opera "Persona e atto". In una autocoscienza di questo tipo l'essere umano non subisce alcuna reificazione. Infatti l'autocoscienza risiede piuttosto nella comunione con l'altro e nel tipo di conoscenza che è proprio di questa comunione, e non in un sapere erudito come quello che si ha delle cose, anzi non tanto delle cose quanto del loro funzionamento.

Il pensiero che genera l'autocoscienza dell'uomo si realizza sempre in una concreta situazione spirituale-materiale, in un determinato mondo spazio-temporale. Sono molti i fattori che hanno concorso a dar forma alla situazione nella quale oggi ci è toccato di rapportarci alle "cose ultime", cioè di filosofare, ma qui manca lo spazio per enumerarli tutti. Ne ricorso solo uno fra i tanti, quello che a me pare l'elemento fondamentale, allusioni al quale troviamo nelle encicliche, soprattutto nella "Redemptor hominis". Mi riferisco alla ragione, che nel suo operare si è fermata al piano tecnico-scientifico e ha cessato sostanzialmente di operare, sebbene funzioni benissimo, aiutata com'è da strumenti sempre più raffinati. Costruisce senza posa un mondo nuovo e in esso anche un... uomo nuovo. Ma questo è tutto ciò di cui è capace.

Costruendo oggetti sempre più nuovi e perfetti essa facilita la vita all'uomo, contemporaneamente però costituisce una grave minaccia per lui: infatti non fa nulla per far crescere l'uomo nell'uomo.

Che cosa significa che la ragione - contrariamente ad ogni apparenza - ha subito un arresto nel suo operare?

L'uomo, ridotto ad atti di coscienza rivolti esclusivamente verso gli oggetti, si è trasformato in un meccanismo impersonale che non pensa su di sé o, se lo fa, pensa su di sé come su qualcosa di estraneo. Così ridotto, l'uomo ha perduto la capacità di abbracciare la propria verità e la capacità di lasciarsi abbracciare da essa. Ha cessato di essere ragione sottomessa alla verità ed è diventato ragione che costruisce "nuove verità" dipendenti dalla matematica e dalla materia che ad essa è soggetta. In questo tipo di ragione non sottomessa molti ravvisano la vera libertà e dignità dell'uomo.

Però costoro non riflettono fino in fondo sul problema. Ricordiamo quel celebre detto di Pascal: "L'ateismo è segno di forza di spirito, ma solo fino a un certo punto" (5). Parafrasando, possiamo dire che la ragione non sottomessa contraddistingue l'uomo libero, ma solo fino a un certo punto. Quando quel punto viene raggiunto la ragione non sottomessa si dimostra solo una maschera che copre una mancanza di libertà.

La ragione, fermatasi al livello della costruzione di "nuove verità", riduce tutte le cose all'essere oggetto. In questo modo riduce anche l'uomo; riduce i suoi desideri a bisogni che gli oggetti dovranno soddisfare. I bisogni si moltiplicano di giorno in giorno. Mano a mano che la ragione costruisce nuovi oggetti, nell'uomo si manifestano corrispondentemente nuovi bisogni. Avviene sempre di più che ormai non siamo i bisogni a decidere degli oggetti, ma gli oggetti a determinare i bisogni dell'uomo. La ragione indipendente costruisce i bisogni nell'uomo facendo di lui un concentrato di bisogni. Come sarà questo "uomo nuovo"? La caratteristica principale è che nella sua coscienza scompare il desiderio che viene soddisfatto dall'"essere" e non dal "possedere". La distinzione che Gabriel Marcel fa tra "essere e "avere" ha un'importanza fondamentale nel pensiero di Giovanni Paolo II. Del resto ha un'importanza fondamentale anche nel pensiero del Concilio Vaticano II.

L'uomo costituito dai bisogni e dagli oggetti che li soddisfano, l'uomo costituito dunque dall'"avere" e non dall'"essere", trae la propria identità dalle cose che possiede. La sua coscienza è piena di possesso, mentre invece c'è in essa poca coscienza dell'essere. Essa è a tal punto coscienza delle cose che si trovano fuori di lei da dimenticarsi di sé, da diventare estranea a se stessa (alienazione).

In una civiltà creata da questo tipo di coscienza tutto è governato dal principio del primato della cosa sulla persona, come ben sottolinea Giovanni Paolo II. Di conseguenza, in rapporto alle circostanze, viene assunto come bene capitale un dato bene utile. Non vi sono altri beni al di fuori di quelli utili. Perfino Dio qui viene ridotto a un bene tra i tanti in quanto viene a soddisfare determinati bisogni dell'uomo e della società. Questo genere di riduzione di Dio era stata operata già nel secondo XVIII. Il secolo XIX le inventò una legittimazione integrando l'Assoluto nella civiltà del possesso. In essa Dio è stato "costretto" a occupare un posto remoto perché i bisogni privati ed egoistici manifestantisi in maniera sempre crescente resero intollerabile persino il bisogno di un Dio ridotto a cosa. E là dove Egli era la proiezione utopistica dei desideri umani, i "maestri del sospetto" (come li chiama Paul Ricoeur) fecero presto a sbarazzarsi di questa illusione che schiavizzava l'uomo.

Quando si riflette sull'uomo alla luce soltanto dei bisogni e degli oggetti che soddisfano quei bisogni, la riflessione su di lui avviene senza testimone. A questo pensiero nessuno rende testimonianza. L'unica "testimonianza" è quella data dagli oggetti, ma questi dipendono totalmente da quel pensiero: essi si riferiscono ai bisogni, i quali a loro volta sono in rapporto agli oggetti e così via, e in questo modo il circolo si chiude in un'immanenza artificiosa il concetto di verità è interscambiabile col concetto di utile immediato, col concetto di efficienza e col pluralismo dell'indifferenza. Il contenuto del concetto di verità è stato quindi alterato.

Un uomo che pensa senza testimone è un uomo solo. La sua solitudine nasce dall'avere egli ridotto gli uomini e le cose a oggetti, consiste dunque nel fatto di un pensiero staccato dall'essere con qualcuno e per qualcuno e legato al possesso di qualcosa. Un uomo così solo crea attorno a se quella che io chiamerei una civiltà senza testimone, una civiltà della solitudine. In essa nessuno rende testimonianza a nessuno, perché nessuno è fedele a nessuno; la fedeltà diventa un concetto superfluo, infatti in tale civiltà non v'è posto per l'agire disinteressato. Agire disinteressatamente diventa qualcosa di inconcepibile, così come inconcepibile diventa un lavoro che nasca da un entusiasmo per la bellezza dell'uomo e che venga compiuto per questa bellezza. Nella civiltà della solitudine scompare quello stupore di fronte al valore e alla dignità dell'uomo del quale parla Giovanni Paolo II. Chi può stupire infatti oggi un meccanismo di bisogni e di oggetti che funzionano bene? Come ogni meccanismo che siamo noi a creare anche questo ci è perfettamente noto in ogni suo minimo particolare. Se così stanno le cose, allora anche la fiducia che un uomo può offrire all'altro non sarà molto diversa dalla fiducia che abbiamo negli oggetti e nelle ditte che li producono. E questo tipo di fiducia cessa quando gli oggetti funzionano male. Con gli oggetti non si ha un rapporto di grazia-carità; la carità infatti tutto comprende, è paziente...

Viviamo in una civiltà nella quale non c'è posto per la grazia. Viviamo in quel mondo del quale si lamentava il Marmeladov di "Delitto e castigo" di Dostoevskij: sentiamo il bisogno di andare da qualcuno, da qualcuno che ci compianga, che abbia compassione di noi e che ci conduca verso la dignità e verso un valore. Ma non sappiamo dove andare, perché dappertutto ci sono soltanto gli oggetti e il loro funzionamento meccanico secondo il principio del do ut des; come se ciò non bastasse, addirittura chiamiamo giustizia questo funzionamento.

Dare priorità alle cose e far dipendere da esse la persona produce una serie di effetti diversi. Tutti insieme essi concorrono a costituire l'attuale civiltà. Di uno di essi Giovanni Paolo II parla nella "Laborem exercens": è il primato attribuito al capitale, inteso come insieme dei mezzi del lavoro, sul lavoro stesso. Per effetto di questa attribuzione anche il lavoro dell'uomo viene a trarre la propria identità dagli strumenti, dagli oggetti. Nella loro grandezza sta la grandezza del lavoro: questa non risiede più all'interno della persona che è il soggetto del lavoro. Il lavoro stesso diventa uno strumento tra i tanti, venduto in cambio di altri strumenti, eventualmente in cambio del loro equivalente in denaro. Infatti il lavoro ha cessato di essere un actus personae: è stato separato dalla persona. La sua dignità non risiede nella dignità della persona stessa, perché questa dignità non esiste. Risiede invece nell'oggetto che esso stesso produce. Il lavoro cessa dunque di essere un atto di disinteresse; è un calcolo continuo dell'oggetto, del possesso o non possesso di esso. Si trasforma in produzione. Ma questa non può rivelare la persona come amore, perché la produzione. Ma questa non può rivelare la persona come amore, perché la produzione non è un atto di amore; fa invece apparire l'uomo come un groviglio insaziabile di bisogni, che dipende totalmente dalla quantità di oggetti che riesce a raccogliere.

Una civiltà che si regge sul principio del primato della cosa sulla persona, del capitale (gli strumenti) sul lavoro, non ha più bisogno di avere come supporti delle strutture laicizzate di pensiero religioso; esse cessano di essere necessarie. Infatti ci si è accorti che il bisogno ideale e un oggetto ideale che gli corrisponda sono utopia. Ma se così è, allora a che pro fare arzigogoli circa l'una o l'altra versione laicizzata di quelle realtà a cui nel cristianesimo rimandano termini quali trasfigurazione, redenzione, divinizzazione?

Una coscienza ridotta a coscienza dei bisogni non tende quindi verso una unità, ma si disgrega quasi parallelamente al moltiplicarsi degli oggetti prodotti. Una coscienza frantumata non è in grado di stupirsi di sé, riflette unicamente tutto ciò che le balena davanti. Il suo "Dio" è tutto e nulla. Incapace di stupore di fronte a se stessa, essa non si crea nemmeno più un "Dio" a propria immagine e somiglianza, ma Lo vede ormai nel primo oggetto che le capita davanti. Questo è ciò che significa la tesi secondo cui la cosa viene prima della persona; una tesi del genere cancella l'autocoscienza dell'uomo.

Il principio del primato della cosa sulla persona, del capitale sul lavoro, introduce il caos nei rapporti tra gli uomini. Il caos in questione non è però un fenomeno di natura meccanica che fa inceppare il funzionamento meccanico della società. Infatti una società può funzionare bene e con efficienza in superficie, mentre nella sua anima regnerà il caos. Questo caos si manifesta nell'uomo stesso, nella sua personalità. Solo successivamente il caos si manifesta nella vita sociale come conseguenza di atti d'"amore" caotici. Ma la conseguenza degli atti d'"amore" caotici compiuti dall'uomo è una diminuzione della dignità dell'uomo, e in questo propriamente risiede l'essenza dell'ingiustizia (6).

L'ingiustizia si identifica col caos che nasce dalla menzogna che l'uomo fa quando viola i limiti della dignità della persona umana. La persona ha i suoi fines che la de-finiscono e ne definiscono il senso e il valore. La civiltà degli oggetti e del capitale ha perso la sensibilità di questi limiti che definiscono la persona e le cose, di conseguenza ha perduto la sensibilità per il loro senso e il loro valore. Colpendo la dea della misura e dell'ordine, Nemesi, ha attirato su di sé le Erinni. I limiti violati della natura, i limiti violati delle persone e delle cose "si vendicano" oggi sulla società e sugli individui.

La giustizia della civiltà delle cose e del capitale si riduce alla giustizia del cosa per cosa, capitale per capitale. Qui non si fa parola della persona umana. A questa giustizia è estranea la sensibilità al valore, e pertanto essa si conclude con una forma o un'altra di lotta, per esempio con la lotta di classe, che è una delle varianti della giustizia del "dente per dente", dell'"occhio per occhio", del do ut des. Platone ha presagito gli effetti catastrofici di questo genere di giustizia e li ha espressi in tre grandi miti (7). Ma al tempo stesso egli non perde la speranza nella possibilità di un mondo diverso. Non l'ha perduta forse a motivo dell'amicizia che lo legava a Socrate, col quale restava in comunione. E a parlato perciò della luce, del Sole verso il quale l'uomo deve andare se vuole un mondo migliore.

Viviamo in una civiltà delle cose, del capitale e della giustizia senza carità, viviamo in una civiltà che è estranea all'uomo. Viviamo in un mondo disumano. Il Papa nelle sue encicliche ne traccia un profilo sintetico ed espressivo. Noi stessi abbiamo costruito questo mondo con l'aiuto dei nostri padri del XVII e del XIX secolo; lo abbiamo allora meritato. È un mondo che resta alla portata delle nostre mani. A causa della febbrile impazienza abbiamo ridotto l'escatologia prima a una serie di utopie, ciascuna delle quali è un demone potente. A questi demoni, che rispecchiano le nostre brame, i nostri risentimenti e le nostre rivendicazioni nei confronti degli altri, a queste proiezioni irreali, ma di fatto funzionanti, noi abbiamo chiesto una divinizzazione dell'uomo, abbiamo preteso da esse l'"uomo nuovo". E questo ha condiviso la sorte delle utopie stesse. Invece dell'"uomo nuovo" è apparsa una creatura artificiale, come l'"Homunculus" del "Faust" di Goethe; costui è apparso nella provetta della civiltà tecnico-scientifica, e ha chiesto automaticamente per sé uno spazio sempre più chiuso, laddove l'uomo vero chiedeva un di più di vita. L'Homunculus goethiano ha una superiorità nei confronti dell'Homunculus della civiltà di oggi: sapeva che tutto ciò che è artificiale ha bisogno di uno spazio chiuso. "Das ist die Eigenschaft der Dinge: / Natürlichem genügt das Weltall kaum, / Was künstlich ist, verlangt geschlossnen Raum". Vengono in mente le parole di ammonimento del Siradice: "Guai a voi che avete perduto la pazienza: che farete quanto il Signore verrà a visitarvi"? (8)

Le encicliche di Giovanni Paolo II si rivolgono, è chiaro, non all'Homunculus di oggi, ma ad un uomo al quale non basta ormai neppure l'universo. Per questo l'Homunculus dichiara guerra alle encicliche, tenta di colpire il loro Autore. Le encicliche cercano di risvegliare l'uomo che dorme nell'uomo, cercano di provocarlo a una anamnesi di se stesso, affinché possa uscire dalla caverna della provetta e inoltrarsi nello spazio della luce, della verità e della libertà. Le encicliche si rivolgono all'umanità dell'uomo, e così lo orientano ad Christum Redemptorem.

Già la prima frase dell'enciclica Redemptor hominis - "Il Redentore dell'uomo, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia" - spalanca le porte del piccolo mondo della nostra civiltà. Le apre senza paura, coraggiosamente, riponendo la speranza nella verità di Cristo, così come l'Autore dell'enciclica chiese a tutti di fare, nell'omelia pronunciata il giorno della sua intronizzazione sulla cattedra di Pietro.

Il "centro" - questo è il concetto usato dal Papa e acquisito alla filosofia da Mircea Eliade - riorganizza in una totalità ciò che è disperso; introduce l'ordine nel mondo, rendendolo kosmos. Il "centro" è sempre una Trascendenza in rapporto a ciò che organizza; non può identificarsi con uno degli elementi dispersi che attendono di venire ordinati. Deve essere altro da loro. Già in se stesso deve essere ordine-kosmos.

Se il mondo nel quale viviamo non è un mondo di ordine e di libertà, ma un mondo di caos e di assenza di libertà, è segno, che è un mondo staccato dalla Trascendenza. Vale a dire: è un mondo ridotto. Nell'appiattimento di questo mondo non si può scorgere né il sacro né il profano, e ciò che viene chiamato progresso non consiste nell'elevazione dell'uomo a una dignità sacrale, ma nell'identificarlo ora con un oggetto, ora con un altro. La moda di quel determinato oggetto, che dà agli uomini una identità in un certo periodo, costituisce qui tutto il contenuto del concetto di progresso. La riduzione della Trascendenza ad un oggetto o all'altro ha provocato la riduzione del progresso stesso, perché quale è la Trascendenza dell'uomo, tale è anche il suo progresso.

Ad un mondo senza "centro" Giovanni Paolo II ricorda che il "centro" della storia, il "centro" dell'uomo e del mondo si trova in Cristo. In altre parole, il Papa non accetta di dialogare col mondo sul tema dell'uomo su quella piattaforma di dialogo che il mondo vuole imporre a tutti. Contrariamente a quanto fa il mondo, Giovanni Paolo II cerca la definizione dell'uomo non là dove si discute se l'uomo debba essere definito da questo o da quell'oggetto, magari più raffinato, ma nella sfera del "principio" - arché. Da principio non era così. Giovanni Paolo II vuol vedere l'uomo così come esso è visto en arché, così come esso è pensato nell'atto stesso in cui viene creato da Dio (9).

Il pensiero del Papa non possiede dunque quella "accelerazione" che caratterizza il pensiero proprio del mondo della civiltà degli oggetti e del capitale. Il suo pensiero è tranquillo e così naturale che ad esso "genügt das Weltall kaum".

Guardando l'uomo che emerge dal nulla nell'atto con cui Dio lo crea, lo si vede in Gesù Cristo, perché in Lui, nel Figlio, che il Padre crea tutto ciò che crea (10). Perciò tutta l'antropologia di Giovanni Paolo II è orientata ad Christum Redemptorem.

Solo se è aperta ad una tale e così grande Trascendenza - il cui essere possiede la dimensione della Trinità - la creatura umana non subisce alcuna riduzione. Infatti, operando la propria auto-definizione attraverso il Dio-Uomo, essa dilata all'infinito la possibilità del proprio compimento. Con ciò stesso essa diventa una creatura veramente e pienamente libera.

Questo ritorno ad Christum Redemptorem costituisce come una anamnesi dell'umanità presente nell'uomo. È un continuo convertirsi (metanoia) (11): convertirsi dallo stato della riduzione di sé all'essere di più, ad un essere di più grazie ad un'altra persona, ultimamente grazie al Dio Incarnato. L'uomo si converte da uno stato di solitudine, nel quale è restato solo, a tu per tu con gli oggetti e il capitale, ad uno stato di comunione, nella quale sta di fronte ad un'altra persona e compie atti degni di lei. Ogni riduzione dell'uomo conduce alla fine ad un vicolo cieco, l'uscita dal quale deve essere cercata non nel vicolo stesso, ma da qualche altra parte. Proprio per questo Giovanni Paolo II non accetta di dialogare sull'uomo sul piano che il mondo sceglie. È in questo che consiste la conversione dell'uomo.

Una volta convertito, l'uomo incomincia a pensare nello stesso modo in cui pensano i figli della libertà. La sua libertà è a misura della persona nella quale egli scorge la propria Trascendenza; on la quale entra in comunione. È proprio questo il pensiero che ho chiamato pensiero in presenza di un testimone. L'uomo dunque si converte dallo stato del pensiero pensato nella solitudine allo stato del pensiero che avviene in una comunione. La misura della verità alla quale l'uomo si lega e che egli stesso diventa è la misura della sua libertà. Il pensiero nella solitudine, il pensiero che avviene secondo una riduzione dell'essenza dell'uomo si identifica con quello ce, in accordo con la Scrittura, chiamiamo: pensare secondo la logica di questo mondo, un pensare cioè che elimina ogni sforzo. E già il sacrificio della vita - la Croce - sarà per esso necessariamente uno scandalo. In misura più o meno grande tutti noi pensiamo nella solitudine, tutti in qualche modo evitiamo il testimone perché, chiaramente, vogliamo tener nascoste certe cose. Perfino Pietro voleva ridurre Cristo e renderLo solo dissuadendoLo dalla Croce e con ciò stesso dalla Risurrezione (12). Gli consigliò un pensiero e un'azione che dovevano essere compiuti da Lui in forma di fuga dal Padre, e cioè un pensiero e un'azione senza testimone. Il consiglio di Pietro colpiva la figliolanza del Figlio e la paternità del Padre.

Alla libertà e all'amore dell'uomo dà forma e dimensione definitiva l'Incarnazione (13), l'atto della massima fiducia nell'umanità presente nell'uomo. Quando un uomo decide di dare questa forma e questa dimensione al proprio essere, egli decide per l'eroismo del pensiero e per l'eroismo dell'esistenza. Pensare ed esistere alla presenza di un testimone, ultimamente di quel testimone che è Cristo, significa rinnegare se stessi e confidare totalmente nell'altro, significa caricarsi la propria croce sulle spalle nella fede che soltanto perdendo la propria vita la si ritroverà più grande e più bella, vissuta a misura del testimone per il quale la si perde (14).

L'altro uomo è Trascendenza in quanto è grazia. La Trascendenza assoluta si manifesta come Grazia assoluta. Pensando dunque ed esistendo alla presenza di un testimone, io penso ed esisto alla presenza della grazia: da essa io traggo il mio "io". Convertendosi ad essa, il mio pensiero e il mio esistere cessano ormai di essere soltanto il mio pensiero e il mio esistere: diventano il nostro pensiero e il nostro esistere.

Nell'enciclica "Redemptor hominis" Giovanni Paolo II ha ricordato che l'elevazione dell'uomo - la sua dignità e libertà - dipende da quella Trascendenza che per la persona umana è la Persona di Cristo. Invece nell'enciclica "Dives in misericordia" egli parla dei contenuti di questa Trascendenza. Il contenuto della Trascendenza divina è formato dalla "potenza dell'amore", ossia dalla Misericordia. Già nella "Redemptor hominis" avevamo letto che Dio è entrato nella storia dell'uomo e lo ha definito "secondo il suo eterno Amore e la sua Misericordia, con tutta la divina libertà". Nella "Dives in misericordia" l'Autore si volge ad Divinam Misericordiam mostrando come soltanto nella Sua luce l'uomo - che è persona dotata di dignità e di libertà - diviene comprensibile e in genere possibile. Perciò io chiamerei l'antropologia di Giovanni Paolo II un'antropologia della Grazia, della Misericordia.

Che il contenuto della Trascendenza sia la Misericordia lo dice la bella interpretazione della parabola del Figlio prodigo che Giovanni Paolo II dà nella "Dives in misericordia". La Trascendenza-Misericordia costituisce la casa dell'uomo, ne costituisce l'ethos nel significato eracliteo del termine (secondo Eraclito l'ethos dell'uomo è la sua Divinità). Essendo uscito da questa casa, avendola abbandonata, in altri termini: avendo operato una riduzione di sé, l'uomo, figlio della Trascendenza, perde la sua dignità e vuole nutrirsi delle cose di cui, come dice il vangelo, si nutrono i porci. Ma anche queste cose alla fine gli vengono tolte. Il mondo senza grazia, quel "paese lontano" di cui, parla la parabola evangelica, in definitiva distrugge l'uomo. In esso non c'è misericordia, non c'è fedeltà né alla paternità né alla figliolanza. Sia il pensiero sia l'esistere nel "paese lontano" cessano di essere eroici. Separati dalla grazia che dà la libertà, essi si consegnano alla mercé degli oggetti.

La Grazia-Misericordia eleva a dignità l'essere umano, difendendone in questo modo i diritti. La grazia è la difesa fondamentale dei cosiddetti diritti dell'uomo. È essa che ricostruisce l'organismo del pensiero eroico e dell'esistere eroico ormai distrutto. È essa che versa nell'uomo una fede che non è un puro gioco intellettuale, ma un atto dello spirito umano. E senza una fede dove può mai andare l'uomo? Fa rabbrividire la domanda che Marmeladov rivolge a Raskolnikov: ""Scusate, giovanotto, vi è mai capitato... ehm... anche solo di chiedere soldi in prestito senza speranza? (...) Cioè, del tutto senza speranza, sapendo già prima che non se ne caverà niente. Nessuno mi farà un prestito, perché tutti sanno che non lo restituirò. Perché dunque dovrebbero dare? Forse per compassione? Ma (...) oggigiorno la compassione è persino proibita dalla scienza e così si sta facendo in Inghilterra, dove c'è l'economia politica. (...) Ebbene, sapendo già prima che non vi darà nulla, voi nondimeno vi mettete in cammino e...". "Ma perché andarci?" interruppe Raskolnikov. "Perché non c'è nessun altro dal quale andare! Bisogna pure che ogni uomo abbia qualche posto dove andare. Poiché ci sono momenti in cui assolutamente bisogna andare da qualche parte!""(15).

L'uomo convertito alla Misericordia di Dio Padre, alla Misericordia incarnata nel suo Figlio (16), diventa libero così come solo la Misericordia è libera. Il figlio della Grazia è libero della libertà della Grazia. Il Siracide esortava: "Gettiamoci nelle braccia del Signore e non nelle braccia degli uomini; poiché, quale è la sua grandezza, tale è anche la sua misericordia" (17). La creatura umana senza la Grazia non conserva la sua dignità, poiché infatti la misericordia "si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria" (18).

Sperimentando la misericordia - sia da parte dell'altro uomo sia da parte di Dio - l'uomo stesso diventa capace di dimostrarla a sua volta e in tal modo si rende prossimo all'altro e perfino a Dio stesso. Diventa iustus, il giusto. Il fatto di essere prossimo giustifica il suo esistere, così come fu giustificato l'esistere del buon Samaritano.

La giustificazione dell'uomo si compie dunque nel suo convertirsi alla Trascendenza - alla persona dell'altro - che si rivela nella grazia-misericordia. Ci riveliamo l'uno all'altro e quindi ci giustifichiamo anche vicendevolmente. L'uomo che si converte esiste come grazia per la persona alla quale si converte. Operando la misericordia, la scopre: "la conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia, cioè quell'amore (...) a cui Dio (...) è fedele fino alle estreme conseguenze..." (19). In tal modo la Trascendenza della Grazia-Misericordia crea il contenuto della relazione tra l'uomo e l'uomo, tra l'uomo e Dio (20).

La relazione tra persona e persona nella grazia-misericordia costituisce l'essenza del lavoro. Ed è proprio al lavoro che Giovanni Paolo II ha dedicato la sua terza enciclica, la "Laborem exercens", la quale sviluppa il pensiero delle prime due. Anch'essa parla dell'uomo. Ne parla sotto l'aspetto di quell'actus personae che è il lavoro.

Nella civiltà del primato dell'oggetto sulla persona, del primato del capitale sul lavoro, scompare tanto la persona quanto il lavoro. Il lavoro lascia il posto alla produzione, nella quale viene in luce il fatto della riduzione a oggetto dell'uomo, il quale viene venduto così come si vende cosa in cambio di cosa. Mentre nel lavoro si esprimono la cultura e la sensibilità morale dell'uomo, nella produzione si esprime il suo sapere o la sua abilità tecnica. Nel lavoro l'uomo è soggetto, nella produzione è oggetto. Nel lavoro quello che importava era l'uomo, nella produzione non più.

L'uomo cessa di lavorare quando perde la dignità e quando incomincia a cercarla fuori di sé, negli oggetti. Cessa allora di creare, perché cessa di amare. Non amando, non si rivela. Del resto non c'è nulla da rivelare, dal momento che tutta la sua dignità si trova in questo o in quell'oggetto. Allora gli basta far mostra di oggetti luccicanti, nella triste convinzione che la loro "grandezza" è anche la grandezza della sua persona. La produzione di questo genere di oggetti e non il lavoro è ciò che costituisce la dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo che si trova lontano da se stesso (21).

Nel lavoro, concepito come dimensione fondamentale dell'esistenza umana, si svela la Trascendenza dell'uomo. Contemporaneamente il lavoro rende l'uomo più umano. Il primato del lavoro sugli strumenti e sul capitale è concomitante al primato della persona sugli oggetti. Direi che il lavoro rivela il primato della persona.

Esso infatti è creazione. Nell'atto del creare si esprime la soggettività di colui che lavora, il suo riflettere su se stesso. La prima persona del lavoro è Dio stesso. "Pater meus semper laborat (22). Nella meditazione su di sé crea l'uomo nel mondo. Perciò non solo la persona umana, ma anche il lavoro porta in sé la somiglianza con Dio. Il lavoro di Dio si identifica totalmente con la Grazia, con la Misericordia. L'atto della creazione dell'uomo e del mondo esprime l'amore più puro e assolutamente disinteressato; perciò non troveremo nel mondo creato due cose, e a maggior ragione due persone, totalmente uguale. Dio, infatti, non produce, ma lavora. In ogni uomo e in ogni cosa c'è qualcosa di unico e di irripetibile, poiché in ogni cosa e in ogni uomo Dio vuole esprimersi in modo nuovo, come non si è espresso ancora in nessuna delle cose e delle persone che ha creato finora.

Il lavoro del Padre si è incarnato nel Figlio. In Lui si è incarnata la Grazia-Misericordia. Per questo Giovanni Paolo II definisce Cristo un "uomo del lavoro". Il lavoro dell'uomo - se è lavoro - è anche grazia, creazione disinteressata del mondo, e perciò di un mondo migliore.

Una civiltà senza grazia-misericordia subisce necessariamente uno shock quando sente parlare di "amore misericordioso"; quando sente dire che l'amore misericordioso è amore e che, quindi, solo là dove esso ha luogo gli uomini lavorano. Ne avranno uno shock l'ingegnere, l'operaio, lo scienziato, in una parola tutti coloro che proclamano che la salvezza dell'uomo-persona sta nella crescita della produzione, nell'aumento degli oggetti posseduti vuoi dai singoli, vuoi dalla società, e nella loro ripetizione derivante non dall'actus personae - cioè dall'amore - ma da un calcolo matematico condotto secondo il principio del do ut des, che per loro è la giustizia. Nella civiltà dell'oggetto e del capitale il concetto di giustizia non si armonizza con il concetto di misericordia-grazia, ossia con la "potenza dell'amore". "In ogni stato - ha scritto Platone - la giustizia consiste in questa sola e unica cosa: nell'interesse del potere costituito. Il potere infatti ha la forza" (23). Il principio del do ut des favorisce i forti e coloro che hanno. Beatus qui tenet! Nella giustizia basata su quel principio il debole e il povero avranno sempre di meno e alla fine non avranno nulla. L'uomo interiormente giustificato, l'uomo del lavoro rappresenta qualcosa di estremamente scomodo per un mondo siffatto. Gli uomini che lo abitano dicono tra loro "sragionando". "La nostra forza sia regola della giustizia perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta (...). È diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade". (25)

Così ragionano anche coloro che, applicando il principio della cosiddetta giustizia storica, cercano di correggere le ingiustizie con le altre ingiustizie e con ciò non fanno altro che aumentare il caos di questo mondo. (26)

La grazia-misericordia, ossia il lavoro della persona, costituisce il vero rapporto con l'uomo. La grazia, infatti, si rivolge alla sua umanità, dimenticata e calpestata, la vivifica. La giustizia della grazia introduce l'ordine innanzitutto all'interno dell'uomo, restituendolo alla sua vera essenza e rendendolo in tal modo giusto, facendone uno iustus. Solo un uomo così giusto è capace di lavorare, perché lui soltanto è capace di donare disinteressatamente il suo "essere" e il suo "avere". Dall'ordine interiore dell'uomo nasce l'ordine tra gli uomini, e nasce appunto grazie a quel lavoro che è la grazia-misericordia, che è l'amore.

Nel lavoro che trae origine dal lavoro di Dio stesso si rivela la verità dell'uomo. È significativo che i Greci nella Giustizia (Diche) vedessero una delle figlie di Zeus; le sue sorelle erano il Buon Governo (Eunomia) e la Pace (Eirene). Significative sono anche le parole che Eschilo nelle "Coefore" dice della Giustizia: "La figlia di Zeus che i mortali chiamano Verità, cogliendo nel segno" (27).

L'uomo giusto esiste nella comunione con l'altro, esiste nell'Ecclesia, nella Chiesa. L'uomo giusto non è solo. La giustizia è contraria alla solitudine e viceversa: la solitudine si oppone alla giustizia. La comunione-ecclesia giustifica l'uomo e contemporaneamente lo rivela. Leggiamo nella "Gaudium et spes": "La Chiesa (...) è (...) il segno e la garanzia del carattere trascendente della persona umana" (28). Giovanni Paolo II cita questo passo nella "Redemptor hominis".

L'uomo giusto è partecipe di una umanità che è comune agli altri uomini. Questo si esprime nell'atteggiamento della solidarietà. Questa parola ricorre un paio di volte nella "Redemptor hominis". Però soprattutto oggi che questa parola ha fatto carriera nel mondo è il caso di ricordare che il card. Karol Wojtyla nella sua opera "Persona e atto" ha fatto una bella analisi del concetto di lavoro per il bene comune. L'"essere con qualcuno" - cioè il partecipare della stessa umanità - trova la sua espressione in un atteggiamento di solidarietà e in un atteggiamento di opposizione. L'uomo è solidale lavorando per il bene comune ed è ugualmente solidale quando si oppone alla dimenticanza di questo bene. L'opposizione fa emergere in modo particolare una solidarietà. A questi due atteggiamenti l'Autore contrappone gli atteggiamenti del conformismo e della fuga i quali distruggono la comunione tra gli uomini.

Il messaggio di Giovanni Paolo II, che parla del rapporto corretto con l'uomo - della grazia-misericordia, del lavoro, si rivolge a tutti gli uomini additando loro il "principio"-arché della cultura, ossia il criterio della coltivazione dell'uomo. Per poter creare quel particolare modo di essere dell'uomo nel mondo che è la cultura, occorre vedere la persona umana nella sua Trascendenza. Ogni riduzione della persona riduce la cultura all'uno o all'altro modo di possedere. Nella cultura l'uomo è il "fatto primo, primario, fondamentale", ha detto Giovanni Paolo II all'UNESCO; nella civiltà, aggiungiamo noi, ossia in un certo modo di possedere, l'uomo è un fatto secondaria. L'uomo e la nazione vivono della cultura. Grazie ad essa conservano la propria soggettività. Nella cultura si esprime "la sovranità fondamentale delle società", ha detto ancora il Papa, la quale permette loro di superare le sconfitte e i crolli. Nella cultura si esprime la sovranità fondamentale della persona umana. Nella cultura quindi si rivela la Trascendenza della persona incarnantesi nell'uomo: la Grazia e la Misericordia. Contemporaneamente però la cultura nasce dal lavoro. Legando alla cultura cristiana la verità sull'uomo, Giovanni Paolo II supera i limiti formali della confessionalità svelando la dimensione cristiana di ogni persona umana.

NOTE:

1) "Redemptor hominis", 1979.

2) "Dives in misericordia", 1980.

3) "Laborem exercens", 1981.

4) "Redemptor hominis", 10.

5) "Pensieri", 225.

6) Cfr. "Redemptor hominis", 16.

7) Cfr. Stanislaw Grygiel, "L'uscita dalla caverna e la salita al monte Moria", in "L'uomo visto dalla Vistola", CSEO biblioteca, Bologna 1978, p. 96 ss.

8) Sir 2,14.

9) Cfr. "L'amore umano nel piano divino", Libreria Editrice Vaticana, Roma 1980.

10) Cfr. Gv 1,1-3.

11) Cfr. "Redemptor hominis", 18.

12) Cfr. Mt 16, 21-23.

13) Cfr. "Redemptor hominis, 1.

14) Cfr. Mt 16, 24-27.

15) F. Dostoevskij, "Delitto e castigo", Milano 1969.

16) Cfr. "Dives in misericordia", 2.

17) Sir 2, 18.

18) "Dives in misericordia", 6.

19) Ibidem, 13.

20) Cfr. Ibidem, 4.

21) Cfr. "Laborem exercens", 7.

22) Gv 5, 17.

23) Platone, "Repubblica, I, 339.

24) Sap 2, 1.

25) Sap 2, 11-15.

26) Cfr. "Dives in misericordia", 12.

27) Eschilo, "Le coefore", vv. 970-972.

28) "Gaudium et spes", 91.

29) "Osoba i czyn" (Persona e atto), Krakòw 1969, pp. 310-319.