OMELIA
di
S.E. Mons. Egidio Caporello

 

"Prossimità ed estraneità": è il tema del III Convengo Internazionale sull'Enciclica "Dives in misericordia", di Giovanni Paolo II. Convegni opportunamente promossi presso questo Santuario dell'Amore Misericordioso, non solo ad arricchimento della vita cristiana e dell'impegno ecclesiale dei partecipanti, ma anche per fare un discreto fraterno servizio alla Chiesa in Italia e alle prospettive del paese, come (senza alcuna pretesa, nell'umiltà) a tutta la Chiesa.

Il Convegno inizia con la celebrazione eucaristica. Non per dargli semplice apertura (anche questo); né per illustrare il tema di studio, perché ciò sarà fatto, con una specifica articolazione di lavoro, da persone esperte e in momenti propri.

Apriamo il Convegno con la celebrazione eucaristica, innanzi tutto per confessare la misericordia infinita e onnipotente del Padre, che qui ci convoca dalle nostre "distanze" umane, di limiti, di distrazioni, di ricorrente orgoglio, di pretese, anche di peccato, e si fa nostro prossimo, per la forza dello Spirito, in Cristo Figlio suo, che è offerta a Lui gradita; vita gettata per noi e tutti, perché noi pure, in Cristo, possiamo essere offerta a Lui gradita e vita gettata per la salvezza e la fraternità di tutti.

"Guarda con amore e riconosci, nell'offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del Corpo e Sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo Corpo e un solo Spirito". (Preghiera eucaristica III).

C'è dunque, in questa celebrazione eucaristica, la rivelazione efficace di Dio che ama per primo; la rivelazione di Dio che si comunica con paterna condiscendenza nella storia della salvezza e nella storia di tutti i giorni, di tutti gli uomini; della sua misericordia, prima nascosta nei secoli e, nella pienezza dei tempi, incarnata nel Figlio suo fino alla croce gloriosa ("in finem dilexit eos", cfr.Gv 13,1). C'è la rivelazione dell'opera dello Spirito del Padre, che associa l'umanità a Cristo fino a fare la Chiesa, perché sia a sua volta in Cristo segno efficace dell'amore misericordioso, di generazione in generazione.

E c'è, anche in questa celebrazione eucaristica, l'invocazione della Chiesa del nostro tempo alla misericordia divina; c'è l'appello di questo nostro mondo - a volte espresso a volte soffocato in tanti drammatici avvenimenti di ordine spirituale e morale o di ordine culturale e socio-politico - alla misericordia, alla fraternità e alla pace.

C'è infine, in questa Eucarestia, il giudizio, il discernimento, il fondamento, il centro, il culmine, la forma (oggi ci esprimiamo con la ricchezza di questo vocabolario), che plasma la nostra esistenza cristiana - intelligenza, volontà, mentalità, capacità di servizio, genialità, azione - in modo che non l'Eucaristia si pieghi al nostro essere e al nostro progettare, ma noi siamo obbedienza generosa all'Eucaristia, nell'Eucaristia noi pure fatti verità e carità col dono di tutta la vita, e lode di Dio, per la pace di ogni uomo.

In questo primato dell'azione eucaristica, leggeremo più efficacemente la "Dives in misericordia", che a sua volta, per l'autorevolezza dell'alto magistero da cui deriva, rimanda appunto al primato di Cristo, dell'Eucaristia e di tutta l'ottica di Dio.

I termini: "Prossimità ed estraneità" acquistano così, nel contesto eucaristico, la loro luce più profonda e si caratterizzano non solo per i loro significati sociologici, o psicopedagogici, o politici, o pastorali, ma in riferimento all'azione di Dio.

Non esistono, perciò, estranei; e non sono gli altri che si fanno nostro prossimo. Esiste l'amore che si espande su tutti; ed esiste la forza dell'amore, che rende prossimi agli altri.

Non esiste la comunità dei salvati contrapposta alla comunità dei maledetti e dei disperati. Esiste la comunità salvata, che è segno efficace offerto al mondo perché creda di essere salvato.

Soprattutto, non esistono molti "samaritani". Esiste un solo "samaritano", come un solo maestro e un solo Cristo. E noi saremo "samaritani" (la parabola ci riguarda fino a giudicare la nostra più intima volontà di fermarci, di pagare di persona, di tornare indietro per regolare i conti) solo perché associati a Cristo, capaci di vedere come lui, giudicare come lui, amare e perseverare come lui, sperare come insegna lui.

Esiste invece il dramma: c'è il segno di contraddizione, o il segno a cui si contraddice, fino alla lacerazione più dura. E non è venuto a portare la pace, ma la guerra, il fuoco, e come vorrebbe che tutto si incendiasse; guerra tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra suocera e nuora, tra amici. Il Vangelo di Luca registra questa dura rivelazione di Cristo che cammina verso Gerusalemme con il pensiero alla croce e con l'animo umanamente gonfio per l'incomprensione dei discepoli; ma sia pure con questo linguaggio carico di passione e di paradossi, Luca rivela la complessa realtà degli uomini di tutti i tempi di fronte all'amore misericordioso di Dio.

L'immanentismo delle nostre culture e dei nostri comportamenti, le esteriorità del nostro vivere di consumo e di benessere, le inquietudini gravi per la convivenza e la giustizia sociale, le progettazioni di equilibri di pace fondati su strumenti di morte possono essere aggrediti, in effetti, solo con tali forti parole di Cristo, perché si comprenda che essere amati da Dio significa anche essere salvi.

Qui, nella consapevolezza e nella interpretazione di questo dramma, è la missione della Chiesa, qui la nostra passione: rivelare e comunicare misericordia, accogliere e donare misericordia; essere in Cristo misericordia del Padre, predicatori e operatori dell'opera di misericordia.

Non è un privilegio che ci è concesso: sotto molti aspetti, i cristiani non sono i figli privilegiati di Dio; la Chiesa non è la comunità privilegiata di Dio. Cristiani e Chiesa sono i figli che abitano quotidianamente nella Casa del Padre; ma, semmai, l'attenzione privilegiata del Padre è per i figli lontani, che cercano la strada del ritorno. Noi stessi siamo sempre anche sulla strada del ritorno, e Dio predilige in noi questa consapevolezza. Di noi e della Chiesa Egli fa il dono di Cristo all'umanità, perché in Cristo e nel suo Spirito sia offerto come lievito, come germe, come luce, così che tutti accendano la loro luce.

Non a caso la "Dives in misericordia" insiste abbondantemente proprio sulla parabola del figliolo prodigo, e in quella figura non vede solo o primariamente i lontani, ma vede tutti noi, piantati dentro l'umanità e da essa sempre associati, sia pure con i nostri doni.

Non celebreremmo il vero significato della pagina della Genesi che abbiamo proclamata (Gen 18, 16-33), se ci radicassimo nella salvezza di Abramo e della sua gente dalla paurosa distruzione di Sodoma, coltivando inutili atteggiamenti di compassione o di terrore per un mondo che va in rovina.

Di Abramo dobbiamo accogliere - perché è rivelazione qui per noi oggi - la capacità di giudicare l'immoralità di Sodoma, e ad un tempo, e più ancora, la fede nella misericordia di Dio, la supplica umile, fine, insistente, fiduciosa; dobbiamo comprendere anche il credito che Abramo fa a Sodoma, dove spera che almeno qualche giusto si possa trovare. E, ancora, dobbiamo aprirci alla convinzione che Dio non annulla la sua creazione, ma la corregge come fa il Padre con i figli, e la ricrea, e chiede a noi di avere consapevolezza della vocazione con la quale ci manda, anche quando gli avvenimenti, apparentemente, ci significassero che non c'è niente da fare, che forse bisogna arrendersi. Dopo Sodoma, Abramo riprende con fedeltà la strada di Dio (cf. Gen 19,29).

Non è qui il momento per considerare più concretamente le applicazioni della pagina della Genesi a noi. Ma almeno possiamo fare risuonare qualche domanda:

- abbiamo coscienza delle grandi miserie e della paura del mondo?

- invochiamo la distruzione di Sodoma, giudicando il mondo come realtà da buttare a mare, a cui contrapporci, su cui riversare la nostra condanna, o facciamo credito che forse c'è qualche giusto che opera fuori di noi: nella cultura, nelle strutture sociali, nella famiglia, nella scuola, nella politica; o qualche angolo di giustizia dentro il cuore di chiunque non la pensi come noi?

- sappiamo supplicare Dio? Non tanto "per gli altri", ma come se gli altri fossero la nostra stessa carne?

- e se gli avvenimenti sembrano abbattersi su di noi o sulla realtà sociale come una maledizione (penso alla immoralità dilagante, a una società inquinata di pornografia e di droga, di guerra, di terrorismo, di ingiustizie, di fragilità...), sappiamo andare oltre con la stessa passione di prima, arricchiti anzi della correzione di Dio, con la sensibilità di chi sa di essere dentro quegli avvenimenti, pur avendo i doni di Dio che gli consentono di trascenderla?

"Prossimità ed estraneità": la seconda lettura di questa liturgia della parola (cf. Gv 19,25-27), illumina questo tema con il gesto di Gesù che dalla croce congiunge la Madre Santissima e Giovanni, Maria e la Chiesa, e, in Maria, la Chiesa e l'umanità.

E un quadro da lasciare alla nostra contemplazione del pensiero e dell'azione di Dio, che nella concretezza di questo gesto martoriato e tenero del Figlio suo raggiunge ogni piega del nostro essere e dei rapporti di prossimità di Lui con noi, di noi con Lui, di noi con l'umanità intera. In Maria, è un segno singolarmente efficace della sua misericordia. Per questo la invochiamo come Madre della misericordia, e come Giovanni la prendiamo con noi. Noi stessi, come Chiesa, ci sappiamo raffigurati in Lei; discepoli della misericordia, come Lei, in quanto Chiesa e in quanto cristiani, siamo chiamati ad essere segno e strumento in Cristo di prossimità e di misericordia.

Tutto, in questi mesi, diviene più evidente, se pensiamo agli avvenimenti nei quali, come Chiesa, siamo immersi: l'Anno Giubilare della Redenzione, il prossimo Sinodo dei Vescovi sulla Riconciliazione e la Penitenza, il progetto di una fede e di una azione pastorale e missionaria centrata sull'Eucaristia, fonte e forma della comunione della nostra comunità cristiana.

Di noi dovrebbe avvenire qualcosa di simile a quanto il gesto di Cristo compie tra la Madre e Giovanni: anche noi, come Chiesa, consegnati all'umanità, perché l'umanità si ritrovi, senza più paura dei passi di Dio, nella prossimità del Padre.