OMELIA
di
S. E. Mons. Cleto Bellucci

 

Fratelli carissimi,

La lettera agli ebrei, da cui è stata scelta la pericope che ora è stata proclamata, esordisce con un'affermazione solenne, la quale vigorosamente evidenzia l'amore di Dio che completa la millenaria sua rivelazione sul "progetto uomo" coll'inviare il "Figlio": "...ultimamente, in questi giorni, ha parlato aa noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tette le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo" (Eb. 1, 2).

L'autore applica la Figlio il salmo 45 e proclama "Gesù - Messia" "Re Sacerdote". Prendendo poi in esame il salmo 8, chiama la nostra attenzione sull'uomo che è dichiarato " di poco inferiore agli angeli", in quanto soggetto alla caducità; ma ne afferma subito la glorificazione e la destinazione al dominio universale su tutte le cose.

Dobbiamo notare, con passaggi che sono come dei bagliori di luce, improvvisi ma suggestivi, parla del Figlio - che completa la rivelazione - , ne afferma la divinità e l'eternità, lo dice, per la sua incarnazione, inferiore agli angeli; raffronta l'inferiorità dell'uomo ad essi; ma anche la sua destinazione al dominio su tutte le cose, la sua glorificazione. Poi, improvvisamente, all'uomo sostituisce Gesù, che diventa il protagonista dell'avventura umana cantata dal salmo.

La giustificazione di questo passaggio è da ritrovarsi nel fatto che proprio per mezzo di Gesù si realizza il mistero dell'uomo secondo il progetto divino. Cristo, figlio di Dio, si coinvolge nella situazione umana, nella storia dell'uomo, si sottomette alla morte, alla condizione di sofferenza mortale dell'uomo:

"Però quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Ed era ben giusto che colui, per il quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto, mediante la sofferenza, il capo che li ha guidati alla salvezza. Infatti colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti dalla stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli,...". (Eb. 2, 9-11).

Nel versetto 9 viene affermato che Gesù è coronato di "gloria e di onore" a causa della "morte che ha sofferto". Nel versetto 10 la "morte è sostituita dalla parola "sofferenza". E' la sofferenza che rende perfetto Cristo-capo e lo fa idoneo a portare molti figli alla gloria. Nel versetto 11 questi figli sono chiamati fratelli. I due termini: "essere reso perfetto" e "capo" sono originali e nuovi.

L'espressione "esser reso perfetto" non è mai attribuita direttamente a Dio, che è il "Santo". Qual'è dunque il senso di questa espressione? Il soggetto è Dio e riguarda Gesù nella sua condizione umana, sottoposto alla "morte" e alla "sofferenza".

Il primo senso potrebbe essere quello di perfezione morale. Il versetto 5, 9: "imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna...", ci invita a questa interpretazione. La sofferenza della morte sarebbe lo spazio storico dove si esprime al massimo la fedeltà di Gesù che così realizza per tutti i credenti.

Ma questo primo senso va integrato con quanto viene detto al cap. 7, 28: "La legge costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti all'umana debolezza, ma la parola del giuramento [contrapposta alle situazioni legali dell'antico testamento] posteriore alla Legge, costituisce il Figlio che è stato reso perfetto in eterno".

E' Dio che costituisce perfetto il Figlio. E' indubbiamente l'azione potente di Dio che conduce alla perfezione colui che nella morte rimase fedele. L'azione di Dio si innesta sulla fedeltà estrema di Gesù nella situazione di sofferenza mortale per condurlo alla meta ultima del percorso storico. la gloria della risurrezione, operando così una straordinaria e ulteriore trasformazione della sua umanità.

L'espressione "perfezione", "rendere perfetto" equivale alla consacrazione sacerdotale di Gesù. In questa consacrazione di Gesù, contrariamente alla scelta del sacerdote nell'A.T., dove questi è separato, conta la "solidarietà". Gli uomini hanno in comune con Gesù la "carne e il sangue" (2, 14); Gesù, per la 2carne e il sangue" per l'esperienza della sofferenza e della morte, si prende cura della "stirpe cura della "stirpe di Abramo", e, in un orizzonte ampliato, di tutti coloro che partecipano dell'esperienza umana:

"Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma la stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova". (Eb. 2, 16-18).

Gesù è reso perfetto". Contemporaneamente è immerso, per la "carne e il sangue", nell'esperienza storica, esistenziale dell'uomo.

Se Cristo è il Sommo Sacerdote in quanto "reso perfetto", "risorto", "glorificato" e quindi ha tutto il potere che gli viene da Dio ha, contemporaneamente, tutta la ricchezza di comprensione, compassione e misericordia, perché passato attraverso tutta l'esperienza dell'uomo, personalmente, esistenzialmente: possiamo affidarci a lui con piena fiducia e restare fermi nella fede che professiamo per ricevere misericordia, trovare grazia, essere aiutati nel momento della prova. La nostra debolezza non deve essere di ostacolo alla nostra fede.

Il Cristo è Sommo Sacerdote e, contemporaneamente, è in tutto simile a noi escluso il peccato. Non si tratta di "impeccabilità" innata per il fatto di essere Dio, ma di un'assenza di peccato in quanto è stato fedele alla missione che gli è stata affidata. La sua è una fedeltà radicale al Padre nelle prove della vita.

Il "trono" che è segno della regalità, della signoria di Dio, diventa il luogo di grazia, di misericordia e di perdono da quando Cristo si è assiso alla destra del Padre, attraversando i cieli.

I versetti 4, 16-17:

"Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno", sono la conclusione dei capitoli precedenti, ma contemporaneamente ci introducono ad un ulteriore approfondimento cristologico.

I versetti 5, 1-4):

"Ogni sommo sacerdote, preso, fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore, essendo anch'egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.

Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne" delineano le caratteristiche del Sommo Sacerdote.

Queste, nei versetti 5, 5-10, sono applicate al Cristo:

"Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli scrisse:

Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato.

Come in un altro passo dice:

Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek.

Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offri preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà: pur essendo Figlio imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek".

Ogni Sommo Sacerdote è:

1. un uomo a cui è affidato il compito di mediatore tra l'uomo e Dio;

2. che offre sacrifici e doni per sé e per gli uomini perché ne condivide la debolezza;

3. che è scelto e investito da Dio, come Aronne.

Anche nel Cristo si verificano queste condizioni:

1. Dio lo proclama sacerdote (alla maniera non di Aronne, ma di Melchisedek, volendo evidenziare l'assoluta unicità del sacerdozio di Cristo che supera e conclude il sacerdozio ebraico);

2. offre a Dio, nel pieno tormento della condizione di tentazione e di morte della situazione umana, preghiere e suppliche per essere liberato dalla condizione di morte;

3. viene esaudito, con l'essere reso perfetto (raggiunge la pienezza della sua missione) e viene proclamato Sommo Sacerdote e diviene causa di salvezza eterna per tutti i fratelli.

Non si tratta di perfezione etica o morale, raggiunta attraverso una fedeltà eroica, ma del pieno compimento del progetto salvifico attuato attraverso quella trasformazione interiore dell'umanità di Gesù, che così diventa fonte di salvezza definitiva per tutti i credenti.

Cristo è il Sacerdote misericordioso, la sua proclamazione a sommo sacerdote, al termine del dramma salvifico, acquista un significato grandioso: è il riconoscimento definitivo del suo ruolo di mediatore efficace, attuato all'interno di una solidarietà storica con la condizione umana, nella forma estrema della fedeltà a Dio.

Vedo chiaro collegamento tra l'impostazione dell'autore della lettera agli Ebrei e la pericope di Giovanni, nella risposta di Gesù al Sommo sacerdote come ci viene riferita da Matteo 26,64. Gesù è dinanzi al Sinedrio. Il Sommo Sacerdote si alza e in modo imperioso e impaziente gli chiede:

"Ti scongiuro per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio. Tu l'hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico: "d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo".

Il salmo 110, su cui è costruita tanta parte delle riflessioni dell'autore della lettera agli Ebrei, Gesù lo ha applicato a sé, attribuendosi quindi la qualifica di Dio, Sommo Sacerdote, Re.

La regalità, implicita nel salmo 110, viene evidenziata nel brano di Giovanni. Al termine del cap. 18 ci viene presentato Pilato che rivolge la parola a Gesù e, in maniera ironica e distaccata, quasi per prendere tempo dinanzi a decisioni che gli scottano, chiede a Gesù: "Tu sei il re dei Giudei?" Cristo riconosce che la qualifica gli compete, ma non nella comune accezione e limite umani: "il mio regno non è quaggiù". Il discorso è concitato: "Dunque tu sei re" sussurra Pilato. Risponde Gesù: "Tu lo dici, io sono re".

Dopo la breve diversione sul significato di verità, Pilato si rivolge alla folla e insiste sul termine "Re": "Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?".

I soldati a cui Pilato consegna Gesù, perché sia flagellato, insistono nell'attribuzione. dall'ironia di Pilato al sarcasmo dei soldati: "Salve, re dei Giudei".

Pilato si fa serio e preoccupato, non è più ironico. Vuole salvare Gesù. Siamo in un momento di alta drammaticità.

Pilato insiste nel riconoscere Gesù come re: "Metterò in croce il vostro re?". Gli ebrei rifiutano la regalità di Cristo, non riconoscono in lui il Messia atteso, e accettano la regalità di Cesare. Vi è, in questa cadenza dei fatti, una tragica ironia, stranezza, incoerenza, cecità degli ebrei. Accettano l'odiato oppressore pur di togliersi di mezzo colui che si proclama Messia e Figlio di Dio. Questa cecità è di una drammaticità angosciosa. E' la cecità di, tanti uomini, di tutti i tempi. Pilato cede per viltà; ma ha uno scatto di orgoglio e di autenticità. condanna Cristo, ma vuole che sulla croce sia posta la scritta: "Gesù il Nazareno, re dei Giudei". E dinanzi all'esistenza della folla perché la scritta sia tolta, ha uno scatto di fierezza irosa e di inflessibilità e risponde: "Ciò che ho scritto, ho scritto". L'espressione ha quasi il tono dell'oracolo: Dio si serve dell'inconscia sensibilità di un pagano per proclamare la regalità del figlio. Si compiono le promesse messianiche.

Quel cartello è come una professione di fede e un invito a riconoscere la vera profonda realtà di colui che sta per essere ucciso.

In questo succedersi incalzante del termine: "l'iscrizione", "vi era scritto", "lessero questa iscrizione", "era scritto in ebraico, latino, greco"; "non scrivere", "ciò che ho scritto", c'è la volontà precisa di Giovanni di evidenziare il suo tema principale: c'è una scrittura nuova, un codice di un'alleanza nuova: è Gesù, il Cristo, il Salvatore. La scrittura non è un enunciato, ma una persona.

Gesù è crocifisso "con altri due" uomini, che posti a destra e sinistra, sottolineano la "regalità di Gesù". Gesù non subisce la morte. Si è consegnato al traditore e ai suoi avversari nel momento che ha ritenuto opportuno; la sua offerta è lucida e consapevole; sa di dover divenire" causa di salvezza". sa che sta per concludersi la sua missione con il pieno conseguimento delle finalità segnate dal Padre. In questa chiara consapevolezza, che include anche la precisa coscienza delle scritture, chiede di bere (salmo 69).

Il realismo e il simbolismo si intrecciano. Il bisogno di bere che esprime la volontà di dare ancora ai suoi uccisori una occasione di amore; l'aceto indica la pertinacia nell'odio; la canna di issopo con cui gli viene offerto l'aceto e che richiama l'aspersione del sangue sulle case degli ebrei ultima occasione di amore e gesto di salvezza da parte del Cristo che, ormai consapevole di aver realizzato ogni particolare del compito affidatogli dal Padre, muore, rende il suo spirito, secondo l'espressione greca; "paredoken to pneuma".

L'estremo segno dell'odio e dell'amore: la lancia che trafigge il cuore, l'acqua e il sangue che ne fruiscono.

- I testi su cui ci siamo soffermati sono di una profondità e di una ampiezza straordinaria.

- E' necessario tornare su di lui frequentemente, con penetrazione esegetica perché la nostra intelligenza ne assuma tutta la  ricchezza, e il nostro cuore possa gustarne tutta la straordinaria

visione dell'amore del Cristo per l'uomo:

1. Per noi si è coinvolti nella esperienza di tentazione e di morte, per aprirci alla confidenza, all'intimità con lui, alla speranza, al coraggio della continua conversione;

2. Per noi è stato reso perfetto, glorificato, proclamato re, perché in lui trovassimo la forza che viene dalla sicurezza dell'amore, e dalla gioia di essere chiamati all'esperienza infinita ed eterna di Dio: prospettiva che esalta ed accieca insieme.

Che questa visione stupefacente di amore e di misericordia, della pienezza di perfezione dell'uomo nella sua partecipazione alla vita di Dio, riempia la nostra intelligenza, riscaldi di amore i nostri cuori; ci renda apostoli, ardenti, verso i nostri fratelli nel mondo: solo se l'uomo si lascerà invadere dall'amore misericordioso di Dio, realizzerà se stesso nella pace, nella giustizia, nella gioia.

Questo tempio in cui stiamo celebrando, ma specialmente le due famiglie: le figlie e i figli dell'amore misericordioso siano i viventi, coraggiosi, gioiosi testimoni di colui che solo è "Dives in misericordia".