Il perdono nella giustizia degli uomini
Gianfranco Garancini
1. Misericordia, perdono, giustificazione, giustizia.
Gesù si alzò e le disse: «dove sono andati? Nessuno ti ha condannata?»
La donna rispose: «Nessuno Signore».
Gesù disse: «Neppure io ti condanno. Va’, ma d’ora in poi non peccare più».
(Gv 8,10-11)
A prima vista tra misericordia e giustizia c’è radicale contrasto: perdonare vorrebbe dire fare come se un atto - rilevante giuridicamente - non tanto non sia esistito, quanto non porti avanti la serie dei suoi effetti. E questo per il diritto vuol dire la negazione: se al diritto si toglie la prevedibilità sicura di una serie di effetti necessariamente innescati da un fatto o - ancor più - da un atto, se ne nega la stessa struttura, lo stesso metodo come supporto necessario di efficacia o - a un altro livello - di credibilità.
Nell’interpretazione più favorevole, si individua nel Vangelo un sostanziale disprezzo per il diritto, e una forte sottolineatura, di contrapposto, della giustificazione secondo Dio: non è un caso che la traduzione interconfessionale di Mt 5,6 e 10 e 6,33 ridia la (..?...) e la iustitia della Vulgata come «volontà di Dio», «ciò che Dio vuole», piuttosto che come tradizionalmente s’è detto: «giustizia». D’altra parte nello stesso Vangelo di Matteo (10,28) Gesù Cristo esorta radicalmente a non aver paura di coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima. C’è un contrasto apparentemente insanabile tra diritto e perdono: e Gesù Cristo tende a superare (talvolta anche sprezzantemente) la legge nel perdono, la giustizia degli uomini nella giustizia di (o secondo) Dio.
Che cosa resta della giustizia degli uomini, oltre a una stretta e sterile farisaica osservanza, alla corte della misericordia? Che spazio resta - di converso - per il perdono nella giustizia degli uomini? E quali mai rapporti - al di là dell’evidente contraddizione e della visibile incompatibilità - essi possono avere? Sono le domande per rispondere alle quali mi accingo a proporre alcuni strumenti metodologici, descrittivi, propositivi e assiologici. Si può provare a tracciare uno schema del lavoro.
Esso avrà prima di tutto una breve introduzione che ci consenta di segnare il cammino e di conoscere gli strumenti. Vedremo poi di rispondere ad alcune domande fondamentali circa il rapporto ‘perdono/giustizia degli uomini’ (una volta spiegato il significato di quest’ultima locuzione), e di indicare alcune ‘aree di risposta’ per così dire, in diversi ambiti dell’esperienza sociale e giuridica; da ultimo, qualche ‘modesta proposta per continuare’.
Il tema dunque - «Il perdono nella giustizia degli uomini» - ci obbliga a una attenta analisi verbale, contenutistica e logica. Specie se a far ciò è chiamato un giurista, e storico, per il quale le parole debbono avere una precisa, doppiamente precisa, valenza: tecnica e - appunto - storica. Che cosa vuol dire ‘perdono’? «remissione della colpa e del relativo castigo», recita il vocabolario; l’etimologia - con quel valore enfatico ed accrescitivo di per - ci rende il significato di ‘dare di più’, ‘dare nel massimo grado’, oppure anche di ‘restituire’ (e ritorniamo al punto di partenza). Il significato di perdono si è caricato attraverso la riflessione religiosa di ulteriori valori, che le altre relazioni hanno bene indicato e bene indicheranno. Noi le useremo, qui, nel significato più ‘asettico’ ricordato sopra: «remissione (totale o parziale) della colpa e del relativo castigo». Esso, nel campo della storia del diritto, non può che essere inteso come atto, cioè come provvedimento di chi ha il potere i farlo, di non tenere conto di un determinato comportamento rilevante nell’ambito del diritto (rilevante con una prevalenza negativa), o di rimettere - ferma la illiceità e rilevanza penale del comportamento - in tutto o in parte la pena conseguente, o di sospenderla o - anche - di commutarla. Esso ha rilievo in relazione al cosiddetto elemento soggettivo del reato e - nel piano delle conseguenze giuridiche - alla punibilità, alla determinazione della pena, alle cause di una sua eventuale estinzione o modificazione, alle conseguenze amministrative. Esso non attiene al cosiddetto elemento oggettivo del reato, e pertanto non ha nulla a che vedere con le cause oggettive di esclusione del reato (l’adempimento del dovere, l’esercizio del diritto, il consenso dell’avente diritto, la legittima difesa, lo stato di necessità e altre cause di giustificazione non codificate). Se si può parlare, dunque, di perdono (e, in senso molto più lato, di misericordia) lo si può fare in relazione con la persona del reo in quanto tale, perché persona e perché in determinate personali condizioni, e non già in relazione alle circostanze del reato.
Verranno in considerazione, dunque, due filoni: un primo - che chiameremo per comodità oggettivo - che riguarda la considerazione, il concetto, il valore della pena; un secondo - che chiameremo per comodità soggettivo - che riguarda la considerazione per la persona singola del reo, per la sua condizione particolare e la sua dignità in generale (dignità della persona) che funge da tratto di collegamento tra questi due filoni e a ben vedere, tra una considerazione oggettiva e una soggettiva dell’intero diritto penale. Ma non precorriamo i tempi. Perdono, da ultimo, che non modifica o estingue il reato - che, come fatto, non infectum fieri potest -ma che interviene sulla pena, orientandola, caratterizzandola nell’uno e nell’altro senso, modificandola, sospendendola, estinguendola.
In questo senso il perdono - nel caso che se ne stabilisca come concetto, come categoria di ragion pratica e di comportamento, il diritto di presenza nell’ordinamento - si sposterebbe sensibilmente da un atto tutto affidato alla, e tutto dipendente dalla volontà per così dire sovrana dell’autorità costituita (da sé o d altri), a una necessità della coscienza collettiva - impersonata dall’autorità - di fronte alla dignità multiforme - sia in sé sia storicamente - della persona umana. Si sposterebbe, insomma, dalla sfera del voluto a quella del dovuto, dalla sfera del discrezionale a quella del necessario, motivata non già da un atto di volontà interno al sistema, quanto da un fatto per così dire storico preesistente al, e condizionante il, sistema. Si capisce bene che cosa tutto ciò vuol dire, quali premesse culturali e quali conseguenze strutturali e pratiche possa avere sullo svolgersi dell’esperienza giuridica, sia nella sua pratica, sia nella riflessione su di essa, sia nel suo momento normativo, sia nella sua valutazione. e per considerare se ciò sia effettivamente possibile dovremo - nel corpo stesso di questa ricerca - allagare un poco l’orizzonte e considerare qualche elemento più generale, specie per quel che riguarda plausibili definizioni di giustizia e diritto, che sono non soltanto - e non tanto, oserei dire - l’altro ‘corno’ del nostro tema, quanto soprattutto il contesto culturale e logico (oltre che, in senso positivo, ideologico) in cui esso é chiamato a svolgersi.
L’espressione «giustizia degli uomini» può prestarsi a più di un equivoco, che conviene preliminarmente fugare. Intanto, va fugato l’equivoco della sottovalutazione o, se si preferisce, del disprezzo: «giustizia degli uomini» come giustizia di serie B rispetto ad altre, superiori giustizie. Ma la «giustizia degli uomini - se ha, o meglio, se c’é una dignità per la giustizia tout court - ha una sua autonoma dignità storica e metastorica, come tenteremo di provare, a patto che la si collochi in maniera corretta nel contesto del tempo e dello spazio; diremmo che ha una sua necessità storica e - mi sia permesso il temine - provvidenziale, proprio perché é degli uomini, fatta da essi e per essi, anche se potessimo e volessimo condividere le considerazioni pessimistiche che nella storia il pensiero umano, riflettendo sull’uomo, ha fatto. Giustizia, autorità, potere, anche diritto non sono elementi da disprezzare, né caduchi in sé: sono semmai disprezzabili e caduche le interpretazioni che se ne danno; ma la ricerca dei criteri per la loro valutazione e la loro misura nel tempo, ci rimanda - ancora una volta - all’esigenza di ampliare un poco gli orizzonti di questo intervento.
D’altra parte ci appare fondamentale qui porre una distinzione che può chiarificare assai il cammino: quella tra giustizia e diritto: Tema affascinante, sul quale si sono cimentati da sempre i migliori cervelli - e i migliori cuori - dell’umanità, nella discussione del quale ci guarderemo bene, pertanto dall’entrare: Ci limiteremo, pertanto, a dire come noi, qui, strumentalmente consideriamo i due termini.. Il vocabolario ci rende: «Giustizia. Retto funzionamento dei rapporti sociali nel quale le leggi, puntualmente osservate, regolano ogni aspetto della vita collettiva»; «Diritto. Complesso di norme legislative o consuetudinarie che disciplinano i rapporti sociali». In un approccio che é un insieme iniziale e conclusivo, si può dire che la parola giustizia si intende collocata nella categoria dei fini, la parola diritto si intende collocata nella categoria dei mezzi adibiti per conseguire tali fini. La giustizia, quindi, come ipotesi di società, come prospettiva ‘di valore’, come insieme di ‘valori’ da conseguire; il diritto come ordinamento giuridico, come strumento e insieme di norme per conseguire, nel tempo e nello spazio, quei valori, realizzare quella prospettiva, verificare (nel senso di ‘inverare’, ‘render vera, concreta’) quella ipotesi. Un conto sarà, dunque, collocare il perdono nel quadro della giustizia, un conto collocarlo nel quadro del diritto: In quest’ultimo caso, si tratterà di un’opera di ricostruzione storica: di vedere come - nel corso dei secoli e qui e ora nell’ordinamento vigente - la misericordia e il perdono siano stati e siano presenti, abbiano operato e operino negli ordinamenti e nelle leggi degli uomini (oltre che nel loro pensiero riflesso) e quali conseguenze essi abbiano avuto e abbiano, sia formali sia sostanziali. Nel primo caso, invece, si tratterà d’un più sottile lavorìo, nel tentativo di comprendere se, e - nel caso - come, l’idea di giustizia che hanno gli uomini o che il pensiero riflesso sull’esperienza giuridica in senso ampio ha elaborato, accolgano misericordia e perdono, o quanto meno con essi reagiscano; e quali eventuali conseguenze (o novità) da tale reazione derivino. Un discorso sui concetti e sui valori, dunque, mentre per quanto riguarda il diritto é necessario un discorso sui fatti, sui fatti culturali e sui fatti normativi.
Per l’ambiguità (per altro non rimediabile) del titolo, ma soprattutto per la necessaria completezza (almeno tendenziale e auspicata) del discorso, vedremo di affrontare ambedue gli aspetti del tema: perdono e diritto (perdono e pena, perdono e costituzione) e perdono e giustizia (perdono e fini sociali, per dono e ‘valori’ costitutivi di una forma giuridica di convivenza umana).
Ne uscirà, con ogni evidenza, un discorso complesso: da una parte la serie dei contenuti e dei significati per il nostro tema delle possibili definizioni di giustizia, dall’altra la rassegna - ma non soltanto descrittiva, anzi, - della forma, dei significati e del ‘valore’ della pena dei secoli, e il tentativo di cogliervi il fil rouge (uno o più) che collega (o collegano) le varie emergenze normative in materia. E ci sarà dato di cogliere - nelle grandi partizioni logiche, così come nelle piccole variazioni normative - aperture e chiusure a misericordia e perdono; e - ove consideriamo misericordia e perdono come ‘valori’ fondamentali - ci sarà data la possibilità di individuare un cammino possibile per la loro affermazione, nella prospettiva conclusiva di porre misericordia e perdono come fattori di giustizia, come generatori di giustizia: cosicché alla fine del cammino si possa riscrivere così il titolo: «Il perdono per la giustizia degli uomini».
2. Perdono e giustizia: o della dimensione sociale della giustizia
Allora Pilato gli disse: «Non dici nulla? Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di farti crocifiggere?»
Gesù replicò: «Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato da Dio. Perciò che mi ha messo nelle tue mani è più colpevole di te»
(Gv 19, 10-11)
Non si tratta, qui, di avallare la positivistica separazione - nel senso di incompossibilità - tra diritto e giustizia, relegando questa nella sfera dell’emozionale, dell’ideologico e quindi del non scientificamente afferrabile e verificabile, e riconoscendo esclusivamente a quello il carattere dell’oggettività - sempre, comunque, nello spazio e nel tempo; in quello spazio e quel tempo - e pertanto dell’efficacia vincolante e della dignità scientifica. Un conto é separazione - nel senso di incompossibilità - e un conto é distinzione, nel senso di un rapporto e di una continuità non sovrapponibili, collocandosi giustizia e diritto (come ordinamento) a livelli diversi eppur comunicanti dell’esperienza umana.
Scrive Luigi Bagolini(1) che il carattere di una definizione generale del diritto, intesa...quale predeterminazione dell’area - e dei limiti circoscriventi l’area - dei comportamenti giuridicamente rilevanti, dipende, alla fin fine, dal carattere delle valutazioni in termini di giustizia in essa implicate. Cosicché i contrasti fra diverse definizioni generali del diritto sono riconducibili, almeno in parte, a contrasti fra diverse valutazioni in termini di giustizia, ovvero fra diverse prospettive della giustizia (...). Non si può difendere la politica senza difendere il diritto. Non si può difendere il diritto senza difendere la giustizia, perché «senza giustizia la politica é mero gioco di potere». Cioè é necessaria una valutazione in termini di giustizia, perché il diritto (come ordinamento) e la politica che lo produce non siano ridotti a mero arbitrio e potere del più forte (meglio sarebbe dire del più violento). Qualsiasi definizione generale del diritto e - quel più conta qui per noi - qualsiasi definizione in termini di diritto non può essere meramente descrittiva, ma è sempre l’espressione formale di una valutazione pratica dei comportamenti umani, e avremo a che fare perciò con definizioni e proposizioni in sé valutative «che non hanno carattere direttivo perché esprimono, in quanto tali, la tendenza a influenzare i comportamenti e, precisamente, a suscitare l’assenso delle persone alle quali la definizione é proposta» (Bagolini, op cit., p.180). Se, come penso, si tratta non tanto di un assenso teoretico, quanto di un assenso pratico, é chiaro che siamo nel campo della valutazione, del ‘dover essere’, del ‘dover fare’. Ma non é possibile parlare in termini di ‘dover fare’ se nn si danno fini da raggiungere, valori da realizzare operativamente. E’ in questo senso che una prospettiva in termini di giustizia non solo é possibile, ma è necessaria, per sottrarre all’arbitrio - o al formalismo, che é una forma più sottile di arbitrio intellettuale - l’intero svolgersi dell’esperienza giuridica. Si badi: non si tratta di rendere soggettivi, o ideologici, o emozionali il contenuti tecnico e l’interpretazione delle norme; essi sono oggettivi e non suscettibili di giudizio valutativo, in quanto tali. Ha ragione chi dice che una legge é una legge, e non é in sé né buona né cattiva.
Tuttavia il piano su cui ci poniamo non é il piano dei mezzi, in cui si possono fare solo giudizi di funzionalità. Ma ci poniamo proprio dal punto di vista di questa relazione di funzionalità, che postula un secondo termine, valutativo questa volta (un fine, essendo il diritto-ordinamento un mezzo; o un nucleo di valore, essendone il diritto-ordinamento un’espressione, seppur complessa e fornita di autonome ‘regole del gioco’), nei confronti del quale sono possibili (anzi naturali) tutti i giudizi valutativi (compresi quelli ‘morali’), proprio perché esso non é altro che un insieme di ‘valori, fini, valutazioni, rilevanti - nel nostro caso - in relazione a una prospettiva complessiva di convivenza sociale o ‘di vita’, tout court.
In questo caso, oltre a tutto, si viene a fondare non solo una oggettività formale della giustizia come prospettiva del dover essere di una convivenza sociale, ma anche - per dir così - la sua oggettività storica, come componente del primo termine della relazione istituzione/ordinamento o istituzione - ordinamento, o istituzione - ordinamento, indicando quest’ultima relazione la reciproca interazione tra ordinamento ordinato e ordinamento ordinante, una volta che quest’ultimo é stato messo in moto, o per dir così ‘attivato’ dal primo. E’ in questo caso che si svela come una legge, in sé né buona né cattiva, sia a sua volta suscettibile di valutazione e non solo di descrizione: proprio questa sua strettissima, essenziale relazione funzionale con una istituzione (ordinamento ordinato, società, prospettiva di giustizia) fa del diritto (ordinamento) una cosa né inerte né neutrale, ma valutabile: nel contempo orienta l’intentio valutativa verso il suo autentico oggetto, ‘valori’, i giudizi, le prospettive, la concezione della giustizia, insomma, che gli ha dato vita, non creandolo ex novo (ché il diritto come scienza e come tecnica ha una sua esistenza autonoma e in qualche modo autarchica e autotrofa) ma proprio dandogli vita, traendola dalla sua inerzia funzionale e facendolo funzionare per qualche cosa. E tutto questo non può essere funzione, a sua volta, della ragion pratica, e partire da valutazioni metagiuridiche, nel senso di scelte non obbligate e frutto di valutazioni libere, in cui è coinvolta tutta intera la peculiare umanità dell’uomo, il carico della sua esperienza, della sua cultura, della sua vita.
Per questo qualsiasi discorso sulla misericordia e si perdono nella concezione giuridica umana (uso questo termine meno ‘intrigante’ di «giustizia degli uomini») non può prescindere dalla fondazione della giustizia come complesso di giudizi valutativi.
Nel linguaggio evangelico e teologico circolano almeno due accezioni della parola giustizia
:l’una - che abbiamo già trovato all’inizio come traduzione pregnante della ....?.... delle beatitudini - che ha riguardo alla giustificazione (Rchtfertigung) per il regno e davanti alla volontà di Dio; l’altra accezione é più ‘giuridica’ ed é quella che ci interessa qui: criterio di giuridicità (Gerchtigkeit) di un comportamento, di una attività normativa, amministrativa, giudiziale. Il perdono deve essere indagato nei suoi rapporti con quest’ultima, e d’altro canto é quest’ultima che fa problema essendo l’atteggiamento di perdono parte integrante del «fare la volontà di Dio», dell’essere giusti secondo Dio». Invece, spesso, questa giustizia, la ....?...., é contrapposta a quell’altra ‘giustizia’, ai ....?....: come é possibile non ricordare Antigone ed il suo mito sempre attuale, il summum ius summa iniura dei Romani, e il richiamo che lo stesso Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia (n.14 g) fa ad una «giustizia fredda e irrispettosa», buona soltanto per dar spazio a rivendicazioni contrappositive, all’uso egoistico e conflittuale dei diritti? Proprio qui si aggira il nostro problema: come fare per vedere se - e nell’eventualità come - possa essere possibile in una tale ‘giustizia’ l’inserimento del ‘perdono’ di quella misericordia che trova, secondo DM 6, il suo fondamento nella paternità, rapporto e sentimento tutto soggettivo, e comunque non generalizzabile e - per definizione - non schematizzabile né riducibile ai termini giuridici anzi, sempre secondo la Dives in misericordia, fattore ed elemento determinante per fare andare il padre del figlio prodigo oltre il dovuto secondo diritto, e per trarre il figlio da ciò che egli si meritava, perché giusto secondo diritto?Vediamo di procedere per distinzioni successive, per avvicinarci alle possibili risposte alle domande espresse sopra. Ci sono, infatti, vari modi di intendere la giustizia - o forse sarebbe meglio dire che la giustizia ha più aspetti. C’é un aspetto processuale della giustizia, inteso come quello che vede nelle ‘regole del gioco’ e nel loro rispetto il fine dell’ordinamento ed il criterio di giuridicità di un comportamento; é una concezione della giustizia piuttosto privata (nel senso che coinvolge e richiede l’assenso della coscienza individuale e considera l’uomo nella sua qualità singolare e monodimensionale, senza porte e senza finestre, senza padre e senza madre, che si garantisce tutto questo, insieme con la sua tranquillità privata, osservando le ‘regole del gioco’); formale dal momento che il criterio discriminante tra giusto e ingiusto é l’essere permesso o richiesto dalle norme (e quindi appare una concezione fortemente tautologica e viziata da una petizione di principio: dire che un comportamento é giusto o ingiusto perché rispetta o non rispetta le leggi vigenti dà per scontato proprio quello che fa problema, e si vorrebbe sapere, e cioè se - e, se sì, perché - le leggi vigenti sono ‘giuste’); e quindi una concezione chiusa di giustizia, chiusa in se stessa e - in fondo - esclusivamente preoccupata della propria conservazione e del consolidamento del potere di chi ha la forza per imporla e farla osservare.
C’é, dall’altra parte, un aspetto costituzionale o addirittura costituente della giustizia, inteso come quello che vede il criterio di giuridicità di un comportamento oltre che nel rispetto delle ‘regole del gioco’, soprattutto nell’adempimento e nell’impegno di rispetto e di realizzazione di determinati ‘principi fondamentali’ considerati tali a partire da un complesso di ‘valori’ intesi e presi come metagiuridici o - per lo meno - pregiuridici, preliminari ad ogni determinazione di diritto positivo, che verrà intesa come mezzo rispetto a quella ‘giustizia’. Tale concezione della giustizia é più aperta e più pubblica, perché riguarda non tanto una sorta di rassicurazione personale, quanto, invece, la realizzazione di rapporti di convivenza sociale basati sulla disponibilità per tutti delle condizioni di realizzabilità dei principi fondamentali, i quali costituiscono nel loro complesso e presi singolarmente i criteri di giuridicità dell’ordinamento positivo. (Per esempio, il giudizio di legittimità costituzionale attuato dalla Corte costituzionale italiana é solo formalmente un giudizio di stretta legittimità: nella sostanza - soprattutto nelle sentenze che si riferiscono alla violazione dei principi fondamentali - si tratta di un giudizio di ammissibilità costituzionale, di un giudizio valutativo alla luce di quei ‘principi primi’ di giustizia posti dai nostri Costituenti come fondamento appunto non solo della norma costituzionale in sé, ma di tutte la «architettura» dello stato-comunità). Si tratta di una concezione di giustizia sociale, distributiva per quel che riguarda la possibilità di ripartizione dei beni e dei mali secondo i meriti delle persone, ma con un significativo e incisivo intervento da parte dell’autorità, per assicurare la compensazione e la correzione delle diseguaglianze rispetto ai criteri direttivi ‘originari’, della dignità della persona umana, dell’uguaglianza di tutti - in quanto persone umane - di fronte alla legge, della promozione e tutela delle comunità ‘naturali’ e dei ‘valori culturali, religiosi, morali, sociali delle aggregazioni sociali, pensate in progressione sussidiaria - come in una piramide rovesciata - dalla più piccola (la famiglia) alla più vasta e importante (lo stato, la comunità internazionale). Questa concezione di giustizia, questa giustizia, si presenta, é chiaro, come sostanziale, basata come é su un complesso di ‘valori’ per dir così preventivi ed esterni rispetto all’ordinamento, piuttosto che su una rispondenza speculare e ‘tautologica’ all’interno dell’ordinamento stesso.
Appare chiaro, a questo punto, come questa seconda esperienza di giustizia sia quella di giuridicità quel nugolo di ‘valori’ che soli possono stabilire una catena di rapporti tra gli uomini, tra i gruppi sociali, tra le classi, tra i popoli, tra i sistemi politici, tra i ‘mondi’ (compreso un ‘quarto mondo’ di emarginati diffuso tra noi); possa fare di un complesso di ‘valori’ un concetto normativo e un criterio di giuridicità dell’ordinamento (il quale, giova ricordarlo, al suo interno e in sé non é suscettibile di un giudizio valutativo, ma solo descrittivo; ma diventa suscettibile di tale giudizio nel suo momento costitutivo e anche - ma lo vedremo più avanti - nel momento interpretativo e applicativo, pur se rigorosamente nell’ambito di discrezionalità secondo scienza e coscienza consentito all’interprete e al giudice). Questa concezione di giustizia, insomma, consente di indicare e cogliere il fine dell’ordinamento e anche il fine di un ordinamento, anche se non é possibile - a mio avviso - introdurre elementi di giudizio valutativo all’interno di un ordinamento, essendo esso in sé valutativamente inerte (in concreto: il criterio valutativo in un ordinamento non può essere rinvenuto che nell’ordinamento stesso, nei suoi principi fondamentali legislativamente accolti e acquisiti - come in una Costituzione - o consuetudinariamente accolti e applicati - come nel diritto internazionale - costituendo la consuetudine un fatto normativo fornito in certi casi di validità ed efficacia alla validità e all’efficacia della legge formale).
Ciò su cui si gioca tutta questa ipotesi di giudizio di giuridicità basato su elementi valutativi é la possibilità di cogliere distinti - anche se non separati - la struttura e il fine di un ordinamento giuridico: l’essere e il dover essere, il diritto e la morale, il diritto e la giustizia, «coppie di parole», che, pur significando contenuti diversi, hanno uguale cittadinanza nell’esperienza giuridica di una persona o di un gruppo sociale, perché l’esperienza giuridica ha essa stessa una sua storia, che si muove e non sopporta né la staticità e le cristallizzazioni dei codici e dell’esclusiva osservanza delle leggi, né i conservatorismi moralistici, ma segue la storia dell’uomo, il suo sviluppo e la sua evoluzione.
Il positivismo legislativo (Gesetz ist Gesetz, Befehl ist Befehl) perde di vista proprio la storicità, appiattendosi su una esegesi vincolata o, peggio, su un culto della legge e di chi l’ha posta che non lascia cogliere lo spessore di storia umana e di uomini che costituisce il necessario supporto, la storica ragion d’essere ma, soprattutto, la fonte dei fini e il criterio di giuridicità di tutto l’assetto dell’ordinamento. Anche il miglior prodotto della concezione formale della giustizia, una sorta di ‘tutto nell’ordinamento’, e cioè lo stato di diritto, descrivibile solo in termini di ordinamento, non può fare a meno di contemplare al suo interno, (all’interno dell’ordinamento) delle norme per dir così ‘aperte’, secondarie in senso tecnico, che attribuiscono ad organi determinanti - naturalmente nel rispetto più assoluto delle ‘regole del gioco’ - la funzione di produrre norme nuove e cambiare quelle che nel frattempo fossero invecchiate. A questo punto si pongono chiaramente due domande, la prima che rivela l’impasse in cui si trova lo stato di diritto ‘tecnico’, che demanda allo stato stesso il compito normativo; e la seconda che svela come il positivismo sia altrettanto ideologico delle altre concezioni della giustizia che vuole combattere; la prima domanda é: se lo stato é limitato e sottoposto al diritto, ma il potere normativo é accentrato nello stato, tanto che non v’é spazio per criteri di giudizio valutativo, come é possibile pensare a modificazioni o ‘innovazioni’ nell’ordinamento? La seconda domanda é: una volta che - tuttavia - si voglia pensare a cambiamenti o ‘innovazioni’ nell’ordinamento, sulla base di quali criteri valutativi e pratici - obbligatoriamente esterni all’ordinamento stesso - é possibile operare tali cambiamenti o ‘innovazioni’ senza cadere nell’agiuridicità, e quindi non conseguire quella validità e quella affettività che sono condizione fondamentale di giuridicità e di coercibilità?
Il fatto é - come scrive Norberto Bobbio - che il processo di convergenza tra strutture giuridiche e potere politico ha avuto come conseguenza la riduzione del diritto a diritto statale e insieme e di converso la riduzione dello stato a stato giuridico: ciò che in questo processo a doppio senso di giuridificazione dello stato e legificazione del diritto (riduzione positivistica dell’ordinamento alle leggi formali) s’é perduto é proprio il riferimento alla storia, alla cultura, alla vita, al continuo stratificarsi dell’ordinamento attraverso l’esperienza, giuridica e del protagonista-destinatario autentico dell’ordinamento giuridico, cioè la persona umana come singolo e come gruppo sociale, storicamente aggregato e aggregantesi. Cosicché a definizione di giustizia, il paradigma generale di giuridicità, ha lasciato la storia degli uomini e la persona umana, per ripararsi sotto le malfide - sia storicamente sia scientificamente - ali del potere statuale, dando adito a una concezione precettiva, esterna, esteriore, fiscale del diritto, e a un blocco pratico-valutativo delle concezioni di giustizia. Non comprendendo che il passaggio e la diversità tra essere e significare, e tra essere e dover essere non sono coglibili né conoscibili al di fuori della relazione con il contesto ambientale, culturale, sociale, umano e storico, insomma, tutte le concezioni di giustizia discendenti dal positivismo si sono arroccate su un giuridicismo legislativo che dimentica l’uomo e la storia, avvallando talvolta concrete esperienze giuridiche e normative che fan violenza a questa e a quello.
Eppure, a ben guardare, esplicitamente o implicitamente programmaticamente o surrettiziamente, non c’é dottrina giuridica che non implichi una considerazione dei rapporti tra giuridici e metagiuridido, e che quindi accetti criteri pratico-valutativi di giuridicità, una valutabilità, insomma, del diritto in termini storici e umani, anche in termini di ‘valore’ (salva sempre restando tale valutabilità in termini di ‘valori’ riguardo ai fini, e non riguardo alla struttura dell’ordinamento e alla singola norma in sé, se non per il tramite dei principi e dei procedimenti costituzionali).
Cosicché torna ad essere attuale un criterio di giuridicità e una concezione di giustizia in termini di dover essere, nell’àmbito di una lettura storica (non storicistica) del diritto come esperienza giuridica e dell’ordinamento (dei diritti e degli ordinamenti) che pongono l’accento sulla rilevanza necessaria dell’interpretazione dei nessi tra l’esperienza giuridica e l’esperienza comune, tra l’ordinamento e l’istituzione, tra il diritto e la società, tra la normazione e le esigenze ambientali, i bisogni culturali, economici, sociali, i ‘valori’ del gruppo o dei gruppi umani di cui si propone di essere l’assetto formale.
E’ così possibile nel discorso sulla giustizia finalità e soggetti che, atrofizzando o riducendo a elementi forse necessari ma certamente non sufficienti le regole e le affermazioni del positivismo legislativo e statualistico, ripongono in primo piano l’uomo e la società, e consentono di indagare sul posto da dare alla misericordia e al perdono, e di rendere comprensibili all’interno dell’esperienza giuridica, proposizioni come la seguente (di Dives in misericordia, 14 d) che altrimenti vi risulterebbero incomprensibili: «La misericordia autenticamente cristiana é pure, in certo senso, la più perfetta incarnazione della «ugualianza» tra gli uomini, e quindi anche l’incarnazione più perfetta della giustizia, in quanto anche questa, nel suo àmbito, mira allo stesso risultato»; ciò é possibile perché la materiale imprecorribilità dei principi e delle affermazioni del positivismo legislativo e statualistico in tutte le sue ramificazioni e filiazioni ha svelato la contraddizione di fondo di tutte quelle concezioni, e cioè che «da nessun procedimento riguardante i rapporti e i ruoli sociali e da nessuna lettura formalistica del diritto esistente può essere indotta una idea di giustizia, mentre viceversa, un ordinamento, una correlazione, una subordinazione dei rapporti e di ruoli sociali e di funzioni giuridiche presuppongono un’idea di giustizia».
Così come trova una spiegazione e una applicazione giuridica primaria e diretta il passo di Rm 13,1-6, che - con la sua insistenza sul concetto di ordine, sistema, progetto divino - consente di stabilire che a coloro che hanno ricevuto autorità è, sì, dovuta obbedienza, ma in quanto sono stabiliti da Dio (.....?....): ma se si comportano in modo tale da dimostrare di non essere più ordinati da e a Dio, di non essere più al servizio di Dio (....?.....?......?....), non si deve dare loro più nessuna obbedienza, anzi li si deve combattere.
Così il riconoscimento di un medesimo disegno, d’una medesima esperienza di cui tutti gli uomini fanno parte in funzione della loro nascita e del loro sviluppo (cioè della loro natura, in senso strettamente etimologico-grammaticale un termine propositivo e dinamico), diventa il terreno extra-giuridico e metagiuridico in cui è possibile una concezione e una definizione di giustizia in termini valutativi. E che rendono possibile una rilevanza - nei limiti che vedremo tra poco - della misericordia e del perdono nel diritto positivo, ma soprattutto una rilevanza della misericordia e del perdono per il diritto positivo, nel momento della sua costituzione (si può dire anche così: se misericordia e perdono difficilmente possono essere accettati come criteri normativi, nulla vieta che siano accettati - anzi, la nostra concezione di giustizia lo chiede - come criteri di normazione). Se, invece, la costruzione dell’ordinamento non riesce ad allontanarsi dai lidi delle concezioni laicistiche della giustizia e del diritto, non c’é posto per il perdono, atteggiamento umano in una definizione e in un concetto descrittivi e non valutativi, robotici per via di autogenesi, di diritto e giustizia.
Al contrario, proprio il riconoscimento di un prima, insomma il riconoscimento e l’accettazione simpatetica della comune natura creata, é il fattore insieme unificante dell’esperienza giuridica, e sbloccante della sua valutabilità, e quindi del suo dinamismo. Ma il riconoscimento della creaturalità appare come caratteristica fondante l’esperienza religiosa: ed é proprio all’interno d’un’esperienza religiosa che è possibile cogliere quei valori di profonda uguaglianza, di riconosciuta simpatia, di fondamentale comunanza di destini che - soli - consentono di sostenere un’ipotesi sociale basata sulla tolleranza reciproca, sulla comprensione e sullo spirito di condivisione, e sul consenso comune intorno ad un uso delle istituzioni finalizzato al bene dell’uomo, piuttosto che all’affermazione di politiche di potenza; ed é soltanto nell’àmbito di un’esperienza religiosa che é possibile afferrare l’elemento discriminante tra la forza (che é componente necessaria dell’affermazione della giustizia, specie dei valori di una giustizia distributiva che richiede l’intervento a garanzia dei pubblici poteri), e la violenza (che è imposizione, intolleranza, passione forte e disvalore rispetto alla giustizia): al di fuori di un’esperienza religiosa - che ponga, cioè, in un «totalmente altro» il fondamento della convivenza umana - qualsiasi idea di giustizia che faccia derivare i regolamenti dei rapporti umani da umane costruzioni, qualsiasi concezione di tal fatta non può non partire, nel riconoscere il suo momento genetico, da un atto di imposizione e violenza più o meno formalizzato e più o meno giustificato, ma sempre di imposizione e violenza, caratterizzato dalla mancanza del bene comune e della dignità dell’uomo.
A questa prospettiva si può affacciare la «relazione di misericordia» (Dives in misericordia, 6d) che «si fonda sulla comune esperienza di quel bene che é l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli é propria»; e in questa prospettiva - ripeto, soprattutto nel momento della produzione normativa - si può introdurre il perdono, come momento di compensazione e ‘umanizzazione’ dei rapporti giuridici e politici, secondo quanto detto in DM, 14g.
E in questa prospettiva é possibile pensare a un’esperienza del diritto e della politica intesi come solidarietà, basata sulla partecipazione e sulla condivisione che sono il versante positivo, costruttivo, ‘politico’, della misericordia e del perdono.
Abbiamo fin qui cercato di tracciare in quale linea di una definizione della giustizia in termini valutativi sia possibile muoversi per assicurare cittadinanza al perdono all’interno della «giustizia degli uomini», e abbiamo visto come ciò sia possibile soltanto se si accetta una giustizia dei valori, e si riconosce - all’interno di un’esperienza religiosa - la comune creaturalità come momento unificante dell’esperienza umana e della riflessione su di essa, in un rapporto simpatetico di «passeggeri a bordo dello stesso pianeta». Vediamo ora come, nel concreto, il diritto degli uomini é stato capace di far posto al perdono nel proprio contesto.
Perdono e diritto: o della dimensione personale della giustizia
Poi Gesù disse ancora: «Il Sabato é stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato. Per questo il Figlio dell’uomo é padrone anche del Sabato»
(Mc 2,27-28).
Poi Gesù guardandosi intorno, vide alcune persone che gettavano le loro offerte nelle cassette del tempio. Vide anche una vedova, povera, che vi metteva due monetine di rame. Allora disse:«Vi assicuro che questa vedova, povera com’é, ha offerto più di tutti gli altri. Quelli infatti hanno offerto un po' del loro superfluo; mentre questa donna, povera com’é ha dato tutto ciò che le rimaneva per vivere».
(Lc 21,1-4)
«La misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell’uomo» (Dives in misericordia, 6e). «Diviene più palese che l’amore si trasforma in misericordia, quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta». Queste due proposizioni della Dives in misericordia ci portano a trattare - naturalmente non per disteso, ché é campo vastissimo - di come il diritto degli uomini si sia atteggiato di fronte al tema della pena, in cui più specificamente si tratta di discutere se ammettere o non ammettere il perdono, e di vedere in quale misura, ma soprattutto in quale definitorio e valutativo è possibile inquadrarlo.
Emergerà ancora una volta che é possibile parlare di perdono nel quadro di una ‘cultura del diritto penale’ e di una ‘cultura della pena’ che partano dal pieno riconoscimento, e abbiano come fine la più completa affermazione della dignità dell’uomo non solo ( ché sarebbe nonostante tutto concetto extra-giuridico, soprattutto da un punto di vista ‘tecnico’), ma anche - e particolarmente - della sua soggettività nell’àmbito dell’ordinamento, secondo l’antica affermazione che hominum causa omne ius constitutum est. Sarà infatti la commisurazione della pena sì al reato commesso, ma - e soprattutto - alla condizione personale e sociale del reo, che potrà dare spazio alle considerazioni generali sulla definizione della giustizia che abbiamo svolto sopra e, pertanto, a interventi ‘correttivi’ dell’astratta comminatoria penale in relazione al reo e a sentimenti di umanità, misericordia, perdono.
Infatti, una concezione oggettiva e astratta della finalità e del significato (o valore) della pena non dà spazio ad alcuna considerazione per la persona: quando alla pena si riconosce funzione di intimidazione o di difesa sociale, appare evidente come la persona del reo non sia considerata che un mezzo, e la ‘sua’ pena (la pena a lui personalmente irrogata) non sia altro che una occasione per riaffermare altri ‘valori’, e per ottenere scopi che soltanto accidentalmente hanno a che fare con quella persona, la quale è trattata, appunto, alla stregua di un’occasione, o pretesto, o strumento di cui altri uomini (le ‘autorità’) si servono: lui o un altro non avrebbe fatto differenza, perché contano fini oggettivi, e non considerazioni soggettive.
In una concezione soggettiva della pena, invece (avente cioè riguardo alla persona del reo condannato, e a lui direttamente indirizzata), qualsiasi sia il tipo di significato attribuito al comportamento dell’ordinamento nei suoi confronti, la prospettiva muta: in senso negativo (una concezione della pena come compensazione, o come espiazione), o in senso positivo (una concezione educativa della pena). Quello che interessa al nostro discorso é che il destinatario dell’atto e del comportamento giuridico é la persona, ad esso irrogato intuitu personae, e non intuitu reipublicae, o - peggio ancora - secondo un astratto e formale intuitu iuris. (Né cambia la prospettiva e viene contestata questa nostra affermazione del tradizionale ed accettato brocardo «poena pro mensura peccati»: infatti una regola di tipo processuale; vedremo poco più avanti come sia possibile arrivare a una indicazione corrispondente: poena pro mensura peccatoris).
Si capisce bene come questa prospettiva soggettiva della pena sia molto meno rigidamente vincolata ad elementi formali, come sia possibile una sua ulteriore e più ampia applicazione in senso più ‘umano’, e come sia possibile fare entrare in tale applicazione elementi pratico-valutativi di provenienza extra o meta-giuridica. E’ in una prospettiva di questo tipo che è possibile - dal punto di vista della analisi interna dei meccanismi dell’esperienza giuridica che stiamo conducendo - pensare come valutabile in positivo la ‘irruzione’ della misericordia e del perdono, altrimenti estranei a qualsiasi apprezzamento oggettivo e formale, interno cioè al sistema normativo.
Le concezioni della pena che si sono succedute e sovrappongono nel corso dei secoli si possono riassumere nelle seguenti: una pena di tipo e di valore compensativo, come quella che - configurandosi come una sorta di vindicta da parte o della controparte ‘privata’ o del potere pubblico - mira a ristabilire l’ordine violato di una pena convenzionale) - il danno subito; una pena di valore preventivo o dissuasivo, come quella che, con l’esempio della pena inflitta al reo, miri all’intimidazione e quindi alla dissuasione di coloro che avessero eventualmente l’intenzione di tenere un medesimo comportamento antigiuridico(Anselm Fuerbach giungerà, sulla scorta di una tradizione peraltro assai risalente, a distinguere il valore intimidatorio nel momento in cui una pena viene irrogata ed eseguita, che parla direttamente al sentimento, e il valore intimidatorio nel momento in cui una pena viene comminata, nel momento cioè della sua previsione legislativa, momento in cui prevale il timore dell’autorità che ha posto quella norma penale, piuttosto che il diretto terror doloris); una pena di valore retributivo, come quella che mira fondamentalmente a far scontare al reo, a fargli espiare, il male insito nel suo comportamento oltre al - e forse prima del - male che ha arrecato ad altri; una pena di valore educativo, come quella che mira fondamentalmente alla redenzione (o, meno drammaticamente, alla rieducazione e riabilitazione) del reo, a ‘rimetterlo in circolazione’ nella società restituendogli capacità di essergli utile.
Queste concezioni della pena si sono susseguite e sovrapposte nel corso dei secoli. Una ricostruzione storica - che per attività accademica mi sarebbe molto congeniale, e che per altro altrove ho tentato - é qui impossibile e, penso, deviante rispetto alle finalità di questo convegno. Tuttavia - proprio al fine di indagare le condizioni di possibilità dell’introduzione del concetto e della pratica del perdono nei diritti degli uomini, e segnatamente nei diritti penali - appare importante rendersi conto di due grandi linee di evoluzione della concezione penale: una evoluzione da una visione privata a una visione pubblica della pena, evoluzione che concerne il soggetto autoritativo che impone o pone la pena (da questo punto di vista il pensiero riflesso elaborerà una concezione di pena avente valore di protezione sociale, come, cioè difesa da parte della comunità sociale nei confronti dei delitti e dei delinquenti); dall’altra parte una evoluzione da una concezione formale, interna all’ordinamento, avente di mira, se così si può dire, l’equilibrio e l’armonia’ dell’ordinamento, a una concezione sostanziale in cui ciò che viene in evidenza sono i soggetti dell’ordinamento - da una parte, in una visione più politica, la istituzione complessiva la ‘società’, e dall’altra, in una visione più personale, la persona del reo. E’ chiaro che- essendo il diritto una scienza e una pratica umana e storica - questi filoni evolutivi non si possono cogliere allo stato ‘puro’ diacronicamente, in una sorta di progresso lineare: essi vanno colti sincronicamente, nei rapporti, nei nessi vitali tra ogni istituzione (o esperienza sociale) e il suo ordinamento; tuttavia esse possono essere individuate come il fil rouge, si diceva, di un orientamento forte delle concezioni del diritto penale.
A mano a mano che tale evoluzione si consolida, si aprono spazi nel diritto penale per elementi più valutativi e meno ‘oggettivi’ e per la considerazione di elementi extra-o metagiuridici. Tutto questo, va notato, caratterizza l’evoluzione di ognuna delle concezioni definitorie della pena: ma soprattutto quelle più direttamente relative a fini concernenti i soggetti destinatari della pena, sia in generale, sia in particolare (il ‘pubblico’ e il reo). E’ in questa prospettiva che già Bossi, giurista cinquecentesco, consulente legislativo dei principi del suo tempo (de princibus, 33-37), arriva a dire che «proprium principis est facere iudicium et iustitiam [e dà così per compiuta l’evoluzione da privato a pubblico]...Tamen haec iustitia debet esse dulcedine misericordiae temperata...quia iustitia sine misericordia vertit verum primcioem in tyrannum...»; sarà il Farinaccio, insigne tra i penalisti del tempo, a dare forma tecnica a quel riferimento extra-giuridico dicendo che:
«in poenis arbitariis [in quelle, cioè, in cui la quantificazione e anche - in certa misura - la qualificazione della pena é lasciata al giudice, chiunque egli sia] debet Iudex procedere iuxta qualitatem delicti, ut sic poena crimini commensuretur. Quantum enim quis peccavit tantum puniri debet. Et ratio conclusionis est, quia arbitrium Iudici relictum non sumitur pro arbitrio libero, et absoluto [cioè svicolato da qualsiasi ‘regola del gioco’] ac pleno suae voluntatis, sed pro arbitrio regulato a iure, et recta ratione».
E’ un brano, questo, per molti versi importante. Intanto poiché segna abbastanza chiaramente (anche se implicitamente) il passaggio da una concezione del diritto penale ratione peccati a una concezione - e un assetto - ratione peccatoris; ma soprattutto mira a fare rientrare la dulcedo misericordiae bossiana nell’àmbito stesso del diritto, per il tramite del vecchio, collaudato e ampio strumento della recta ratio. Ma proprio questo ‘strumento’ consente, per la sua sostanziale indeterminatezza - ed indeterminabilità - giuridica, di aprire spazi ad elementi extra-giuridici che altrimenti non avrebbero ubi consistant.
Riprendendo - in fondo - il fil rouge di questa intuizione, il giusnaturalismo ‘laico’ di Ugo Grozio, di Thomas Hobbes, di Christian Thomasius, sposta l’attenzione dal passato al futuro, dal quia peccatum est al ne peccetur, sottolineando sempre più lo scopo della pena, affermando con Grozio non essere lecito punire per punire (tantum puniendi causa), ma un dover avere la pena uno scopo, ravvisato in un complesso concetto di utilità per il colpevole (l’emendatio), per la vittima, per la società tutta; sottolineando con Thomas Hobbes (De cive, III, 11) che nell’irrogare la pena non bisogna preoccuparsi del male ormai passato ma del bene futuro; definendo con Christian Thomasius la pena come «positio malis seu doloris, quem propter delictum infert superior inferiori invito, in emendationem communem civium», avente come scopo da una parte la assecuratio (difesa sociale) e dall’altro la emendatio, non solo del reo (per il quale parla di poena medicinalis) ma anche dell’intera società (emendatio communis, utilitas publica: questa concezione sarà sviluppata al massimo con avvento dello stato di polizia, assoluto e paternalista, nell’àmbito dell’esperienza del quale Johann Samuel Friederich Boehmer(2) parlerà di salus, et tranquillitas reipublicae:
[§ 10] inde sequentia axiomata hoc loco sunt notanda: I) Poena imponitur ob delicyum; II) salutem publicam intendit; III) eam determinare est legislatoris; IV) applicare iudicis; V) irroganda secundum leges; et VI) proportionem, ex natura cuiuscumque delicti petendam).
Non è luogo qui di continuare una disamina articolata sul piano storico: ciò che tuttavia appare chiaro é, da una parte, lo sforzo di giuridicizzazione delle istanze culturali e ‘filosofiche’ e del loro inserimento nel contesto del ‘nuovo’ stato; dall’altra, proprio in conseguenza di questo sforzo, il progressivo allontanamento - per lo meno sul piano formale - da un’attenzione soggettiva verso una caratterizzazione oggettiva della pena.
Ciò sarà compiuto dall’estensione dell’illuminismo che porterà alla definizione secolarizzata del diritto penale (la separazione della sequenza peccato - castigo dalla sequenza delitto - pena) con il rifiuto della concezione in senso lato retributiva della pena e anche - seppur con minor evidenza e qualche scrupolo in più - rieducativa (del reo) della pena, e l’orientamento sempre più marcato a una visione utilitaristica. Il razionalismo illuministico, inoltre, tende a espellere dal discorso qualsiasi riferimento alla persona, cosicché tutto si conclude o in un gioco formale, o nella considerazione di un fine di utilità sociale che prescinde completamente dalla persona del reo. (Si considerino, come esempi i seguenti tre passaggi, l’uno di Montesquieu(3), l’altro di Cesare Beccaria(4), il terzo di Voltaire(5), sulla pena di morte, per cogliere la razionalizzazione illuministica e la sua «illusione libertaria»come il seme dell’allontanamento delle concezioni penali da qualsiasi relazione soggettiva alla persona del reo e quindi da qualsiasi considerazione extra-giuridica. Scrive Montesquieu: «C’est le triomphe de la liberté, lorsque les lois criminelles tirent chaque peine de la nature particulière du crime. Tout l’arbitraire cesse, la peine ne descend point du caprice du législateur, mais de la nature de la chose; et ce n’est point l’homme qui fait violance à l’homme»; il sostanziale equivoco umanitaristico in cui sono caduti molti dei commentatori di questa stagione del diritto penale si chiarisce, a mio avviso, con il Beccaria: «Non solamente é interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano più rari in proporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti, a misura che sono contrari al bene pubblico, ed a misura delle spinte che ve li portano. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene»; quanto poco o punto questa proporzionalità sia umanitaria (e quindi come sia lontana da qualsiasi considerazione di misericordia o perdono) é ben svelato, a mio avviso, da questo disincantato pensiero di Voltaire: «un impiccato non serve a niente, mentre le pene debbono essere utili; é chiaro che dei ladri vigorosi, condannati a lavorare in opere pubbliche per tutta la loro vita, sono utili allo stato, mentre la loro morte sarebbe utile soltanto al boia»).
Con l’evoluzione ulteriore - storicamente giustificata dalla evoluzione della società politica - si viene sempre più a concentrare l’attenzione sulla legge penale e sulle funzioni, piuttosto che sul reo e sulla sua esperienza, sulla considerazione della sua persona. Se Voltaire aveva fatto scuola («Je ne leur parlerais pas d’humanité», aveva scritto alla voce Supplices del Dictionnaire, «mais d’utilité...), la scuola positivistica compie l’opera. Francesco Carrara, nel suo Programma del corso di diritto criminale (del 1920) scrive esplicitamente:
«Il fine della pena non é quello né che giustizia sia fatta; né che l’offeso sia vendicato; né che sia risarcito il danno da lui patito; né che si atterriscano i cittadini; né che il delinquente espii il suo reato; né che si ottenga la sua emenda. Tutte conteste possono essere conseguenze accessorie della pena; ed essere alcune di loro desiderabili; ma la pena starebbe come atto incriticabile quando anche tutti cotesti risultati mancassero. Il fine primario della pena è il ristabilimento dell’ordine esterno della società» (I, 602-3).
Tutto questo spinge a due conclusioni: da una parte la totale formalizzazione idealistica della pena, con Reinhold Köstlin(6): «La pena perciò contiene la obiettiva restaurazione del Diritto dalla sua negazione, mercé una negazione equivalente del volere che viola il diritto») e con Hegel(7) per il quale la pena viene ad essere la negazione della negazione del diritto che é il delitto, e dall’altra la completa ripulsa di concezioni soggettive della pena (espiazione, rieducazione) per allontanare il pericolo di confusione tra morale e diritto, confusione affatto deleteria per una concezione formale e formalistica del diritto quale é quella idealistica.
C’é, tuttavia, un diverso filone che percorre l’Ottocento, e che - rifacendosi al testimone antico che giunge attraverso il diritto medievale, il giusnaturalismo ‘laico’ e la scuola storica, considera come scopo fondamentale della pena la emendazione del reo, proprio come indispensabile premessa della autentica restaurazione del diritto negato, negato soprattutto nelle persone e nei loro rapporti viventi e vissuti, piuttosto che nelle astratte relazioni tra le norme. Aver perduto di vista la persone - come avevano fatto, seppur con modi diversi, ma con sostanzialmente collimanti motivazioni culturali, illuminismo e idealismo - aveva portato a una società sempre più brutale, ad un rapporto penale e penalistico sempre più diseguale e illiberale, nonostante le affermazioni in contrario d’una pubblicistica interessata e consentanea al potere. La relazione a ciò - unita alla generale ‘battaglia per i diritti dell’uomo’ che caratterizza gli ultimi cento anni della nostra storia, così segnata da catastrofi belliche e sociali volute dall’uomo per la sua sete di potere e di oppressione sugli altri uomini - portò al consolidamento del filone non dico umanitario, ma personalistico del diritto penale, che sottolineava da una parte la necessità che il diritto penale non perda mai di vista i valori e i diritti dell’uomo, e dall’altra la necessità che la pena tenda alla riabilitazione del reo. Tra i più cospicui protagonisti di questo filone fu in Italia il Pessina che instaurò un parallelismo - mantenendone la distinzione - tra morale e diritto, per giungere all’affermazione che la retribuzione giuridica di un delitto (come la retribuzione morale di un peccato) mira, negando il delitto, a porre in evidenza le antigiuridicità (la non giustizia), con il fine di «indirizzare sempre più le attività umane» alla riaffermazione del diritto come valore sociale, a partire dalla stessa persona del reo. La personalità complessa di Ugo Spirito(8) così riassume questo ‘movimento’: «Per difendersi veramente dal delitto non c’é che una sola via: redimere il delinquente; non mettere cioè il delinquente fuori dalla società, ma farlo entrare veramente nella società da cui egli era rimasto fuori.
La pena dunque non può avere altro valore che l’emenda, e la difesa sociale é del tutto effimera se non si intende in questo senso». Come si vede, la ripresa della teoria della pena come emendazione e rieducazione del reo porta con sé - necessariamente - una ripresa di considerazione per la persona umana, i suoi diritti, il suo ‘valore’: e ridà spazio alla presenza d’una misericordia e d’un perdono intesi non in senso passivo ma attivo, non come ‘dimenticanza’ del male fatto ma come ‘utilizzazione’ di esso per ricostruire la personalità del reo nella sua valenza sociale e la società stessa nei suoi ‘valori’.
Ciò porterà il diritto a riprendere antico e svilupparlo in due direzioni: il valore della pena e la misura della sua irrogazione (con un’appendice relativa ai modi di estensione, sospensione, ecc).
Per quel che riguarda il valore e il significato della pena in Italia, basterà aver riguardo a quanto dice l’art. 27, terzo comma, della vigente Costituzione repubblicana: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Anche se questa formulazione della Costituzione indica piuttosto un programma legislativo e amministrativo molto più che la constatazione di un dato di fatto (specie nella sua seconda parte), la sua lettura e la sua analisi ci paiono particolarmente importanti per cogliere proprio nel loro momento originale e originario gli atteggiamenti e le attitudini del sistema del diritto penale italiano di fronte alla pena, alla ‘cultura della pena’, e alla possibilità di una traduzione in termini laici e formalmente oggettivi di quella «civiltà dell’amore» che fa dire alla Dives in misericordia che «la giustizia da sola non basta e..., anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che é l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» (12c). Dovrebbe apparire chiaro da quanto é stato detto finora che una simile impostazione non può trovare posto nel sistema giuridico senza una appropriata mediazione.
Tale impostazione può però trovare una sua legittimità nel momento interpretativo e costituente del diritto. Vediamo come.
Intanto il tipo di enunciazione, non descrittivo ma tipicamente valutativo - «...non possono consistere...;...devono tendere...» - indica con molta chiarezza come tutto questo riguardi l’emergenza del momento nativo d’un ordinamento di elementi extra-giuridici che vengono da operazioni tipiche della ragion pratica. Poi, in ispecie, i due fini espressi, l’uno in maniera negativa, l’altro in maniera positiva: il fine dell’affermazione anche nella pratica del diritto penale del senso di umanità, e il fine specifico della pena di tendere alla rieducazione del condannato. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qua coglie almeno due cose: la presenza di elementi valutativi e teleologici assolutamente irriducibili a formulazioni formali quantitative (il senso di umanità) che rimandano a criteri di giuridicità esterni all’ordinamento, quale per esempio la natura umana, la dignità della persona, i diritti fondamentali (naturali) dell’uomo; la scelta operata dal Costituente, tra i tanti modi di concepire la pena, proprio di quello meno formale e più caricabile di significati extra-giuridici, come la rieducazione del condannato, anch’essa impossibile a codificarsi secondo schemi quantitativi e soprattutto a incasellarsi secondo definite tipologie, essendo ovviamente i condannati diversi l’uno dall’altro, e difficilmente tipizzabili, a pena di perdere in spessore umano ed efficacia, ciò che - per altro molto dubitativamente - si acquistasse in schematizzazione e tipizzazione tendenzialmente oggettivante.
Il riferimento a principi e valori superiori (senso di umanità) e a finalità rispetto alla formazione ricostruzione dell’astratto ordine giuridico, introduce nel discorso elementi meta-ed extra-giuridici e quindi la possibilità di considerare il ruolo giocato nella formazione del convincimento e nell’elaborazione del comportamento dai valori di misericordia e dalla pratica del perdono: ciò é naturalmente molto più riferito al momento ‘personale’ dell’attività dall’interprete, del giudice e dell’operatore penitenziario, carcerario, di assistenza sociale.
Tuttavia ciò é stato anche codificato con l’inserzione originaria o aggiunta in seguito - nella legge penale di indicazioni precise per il giudice nel momento in cui é chiamato ad irrogare la pena, nel senso che é chiamato a tener conto di tutta una serie fattori che esulano completamente da una determinazione oggettiva e automatica, meccanica della pena, ma che al contrario lo inducono a una valutazione discrezionale (in limiti piuttosto ampi, anche se non del tutto liberi) della quantità di pena da irrogare e anche - seppure in misura molto minore e molto più rigida (anche in paragone con altri sistemi penali, per esempio quelli di Common Law) - della modalità e dei contenuti specifici della pena. L’art. 133 dl codice penale, attinente all’obbligo per il giudice di prendere in considerazione i tratti per così dire storici del condannato (capacità a delinquere); l’art. 176 del codice penale, attinente le modalità e le condizioni per la liberazione condizionale; l’art. 169 del codice penale (in relazione con gli art. 379 e 418 del codice di procedura penale), attinente le modalità e le condizioni per la concessione del perdono giudiziale (unico luogo di emergenza letterale del perdono, in relazione specifica con la condizione di minore età del reo); la recente legislazione in tema di ‘tribunale della libertà’ e di ampliamento assai significativo degli elementi che consentono di decidere per la concessione della libertà vigilata, o degli arresti domiciliari, piuttosto che la reclusione in stabilimenti penali; soprattutto la legislazione in tema di regolamento carcerario, sono alcuni dei fattori e dei segnali più rilevanti della presenza nell’ordinamento penale di scaglie di senso di umanità e di considerazione per la persona e per la dignità del condannato, con il fine di predisporre condizioni passive (ma anche comportamenti attivi) volti alla sua rieducazione e alla sua riabilitazione alla convivenza sociale. (Con tutto questo non ha evidentemente nulla a che fare la legislazione di emergenza contro la criminalità organizzata, che ha dato impropriamente adito a definizioni in termini di «pentiti» o di «perdono» e «perdonismo»: nel primo caso si tratta di altro che di una sorta di ‘contratto processuale, in base al quale un imputato reo confesso riceve nel momento della determinazione della pena una riduzione predeterminata, in cambio di un suo «decisivo contributo» alla scoperta di complici e allo smantellamento dell’organizzazione criminosa di cui ha fatto parte (1.29 maggio 1982, n.304).
Né pentimento né perdono, dunque. Un poco differente é il caso di chi non avendo ancora commesso alcun reato opera nel medesimo senso a favore degli inquirenti.
Una diversa considerazione meritano, nel contesto di questa ricerca, le proposte di «perdono» che da molte parti vengono avanzate nei confronti dei protagonisti degli «anni di piombo» e dei reati da loro commessi. Diversa considerazione perché qui l’iniziativa sarebbe tutta e soltanto dello stato, che non aspetterebbe che il ‘pentito’ si offra, ma che gli andrebbe incontro spontaneamente; anzi non considererebbe neppure il pentimento o la «dissociazione» come condizione essenziale, ma con atto unilaterale interverrebbe sulla base di altre considerazioni. Quali? Per esempio la ‘magnanimità’ dello stato che, considerando finita - e vinta - la lotta contro l’eversione politica, intenderebbe cancellarne perfino le cicatrici; oppure una concezione ampia della ‘solidarietà’ sociale, che non si limiterebbe al rapporto riabilitativo con il singolo, ma vorrebbe spingersi alla ‘riabilitazione’ d’un’’intera cultura; oppure ancora - e più sottile, e più sottilmente pericoloso - il riconoscimento del ‘valore’ del gesto ‘politicamente’ motivato, quand’anche si tratti di una rapina, d’un omicidio, d’una strage, di persone estranee allo stesso rapporto politico. Si tratta qui, come si capisce bene, d’un’indebita confusione tra i piani personali del perdono secondo la propria fede, la propria concezione religiosa dell’uomo e del mondo, maturata in un rapporto sofferto e personale, e i piani oggettivi, formali, dell’applicazione della legge statale. Quel tipo di perdono - che non fa una grinza, anzi commuove, stupisce e ammaestra nel piano personale - trasferito ora nel piano dell’ordinamento solleva non poche perplessità, e solleverebbe non pochi problemi. Intanto siamo sicuri che l’emergenza’ per l’ordine pubblico sia finita? siamo sicuri che gli ‘anni di piombo’ siano solo un ricordo? Ma, al di là di queste notazioni ‘storiche’ ne emergono altre più ‘tecniche’.
E’ compatibile, é giusto rompere il principio della parità di trattamento in nome della politicità della motivazione? In diritto penale hanno rilievo i fatti, non le motivazioni (cfr. la questione del delitto d’onore); perché «perdonare» d’imperio l’assassinio per sedicente motivazione politica, e non «perdonare»l’assassinio per motivazione passionale, o di rapina, o di razzismo, e così via? D’altra parte, compito del diritto e dello stato é di riconoscere, promuovere, tutelare alcuni valori aggregativi fondamentali: la nostra esperienza giuridica, la nostra Costituzione democratica e repubblicana fondano l’ordine pubblico (=l’ordinata convivenza) sul rifiuto della violenza, e sulla ragione: come é possibile, anzi auspicabile e grande, in un’ottica cristiana, perdonare il violento, non è possibile oggi in Italia - né oggi né mai - dare in qualsiasi maniera cittadinanza o legittimazione diretta o indiretta alla violenza. E i provvedimenti auspicati - vedi caso da parti politiche apertamente o più indirettamente in sintonia non con la violenza ma con le ragioni teoriche che, estremizzate, l’hanno legittimata agli occhi dei terroristi - proprio questo, alla fine, farebbero, scardinando alcune basi dello stato di diritto, su cui si fonda la solidarietà sociale. Tutto questo, si badi, non tocca minimamente il valore possibile di un pentimento o di una ‘dissociazione personale, e il valore grande di un impegno in questo senso; né tocca minimamente il valore grande, di chi ama anche gli irriducibili, e li perdona: la strada del Vangelo non è la strada del codice penale, il Vangelo non essendo il codice penale. Si può portare il Vangelo nell’interpretazione e nell’applicazione del codice penale, avendo riguardo - l’ho già detto - alla persona del reo, etc. Ma sostituire l’uno all’altro sarebbe, oggi, segno di integralismo e interventi facilmente strumentalizzabili nell’un senso o nell’altro (non dimenticherei, per esempio, che l’integralismo assolutista portò Lutero a dire che la spada del principe deve sempre grondare di sangue fresco, essendo il popolo una bestia da tenere in gabbia e catene, e derivando il principe assoluto ogni legittimazione religiosa dal fatto stesso di essere diventato - non importa come - principe).
Allora nella situazione italiana occorre fare molta attenzione a introdurre elementi oggettivamente forieri di perturbazione dell’ordine pubblico, e in contrasto con il comune sentire.
4. Conclusioni. Qualche modesta proposta per continuare
«Noi certamente, come fece Gesù, dobbiamo pregare - siamo qui anche per questo - perché i malfattori di ogni genere, quelli che con le loro perverse azioni continuano a crocifiggere l’uomo e l’umanità di oggi, pentiti, possano trovare, un giorno o l’altro, misericordia presso Dio. Diciamo quindi con cristiana speranza e carità: ‘Padre, perdona loro’. Ma quello nello stesso tempo dobbiamo desiderare e far si che ladri, delinquenti, assassini, violentatori di ogni genere, disonesti e mafiosi di ogni risma, qualunque sia il colore del loro colletto e della loro camicia, possano essere raggiunti dalla giustizia umana, la quale, pur con tutte le sue insufficienze e pecche, rimane sempre un richiamo alla coscienza e alla responsabilità di ogni uomo o donna perché, vivendo nella società, ne accetti le giuste leggi e ad esse, e non al proprio interesse o capriccio, conformi il proprio agire.
Non é brama di vendetta quella che esige che il colpevole sia scoperto e punito, ma desiderio che egli stesso possa essere indotto a redimersi e che la società venga in qualche modo tutelata e liberata da chi caparbiamente vuole nuocere alla sua pacifica convivenza e operosità. Appronti, quindi, la società stessa - e per essa lo stato - i mezzi in qualità e numero sufficienti per poter tenere testa alla altezzosa sfida che uomini fuori legge osano quotidianamente proporre ai pubblici poteri»(9).
«E’ ovvio», dice la Dives in misericordia, «che una così generosa esigenza di perdonare [espressa durante tutta l’enciclica come portato dell’annuncio cristiano] non annulla le oggettive esigenze della giustizia. La giustizia, propriamente intesa, costituisce, per così dire, lo scopo del perdono. In nessun passo del messaggio evangelico il perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto e l’oltraggio arrecato. In ogni caso la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto la soddisfazione dell’oltraggio sono condizioni del perdono» (14 i). Il rapporto tra perdono e giustizia é molto complesso: il perdono non ha - non può avere - cittadinanza in una definizione descrittiva, tecnica della giustizia degli uomini come ordinamento, come prevalentemente intesa dalla Dives in misericordia (ma non nel brano testé citato), e nel titolo di questa relazione. Esso, invece, ha cittadinanza e acquista valore e importanza sempre maggiori, quanto più ci avviciniamo a una definizione in termini valutativi della giustizia come complesso di valori e fini da attuare, come ‘progetto’ di uomo e di società e dei loro rapporti. In questo senso possiamo parlare, ci pare, molto più che di «perdono nella giustizia degli uomini», di «perdono come fattore di giustizia per gli uomini». Ma deve essere chiaro due eccezioni di giustizia tra le loro distinte, anche se non separate e indipendenti. Tale distinzione, lungi dal chiudere il discorso, lo riapre, e gli apre orizzonti di grande respiro e di grande impegno: impegno per gli operatori della giustizia ordinamento perché essa non neghi - ottusamente - la giustizia-salvezza per gli uomini. Impegno per coloro che sono chiamati ad annunciare la giustizia-salvezza per gli uomini a non tralasciare, nel loro fare, i principi e le regole del gioco della giustizia-ordinamento, e a non disprezzarla, essendo essa espressione fondamentale dell’attività umana. Impegno che richiede per tutti - operatori del diritto e testimoni del perdono e della misericordia (e specialmente per questi ultimi - la grande, paterna assistenza della misericordia di Dio.
Viene, allora, qui in primo piano l’impegno costituente che mai deve venir meno. Il cristiano non può mai accontentarsi dell’esistente, e deve, invece adoperarsi perché tutto ciò che é rechi sempre più l’impronta di Gesù, e i segni della carità. Ma il cristiano sa, anche che l’esistente ha un suo significato, e non può essere né disprezzato, né aggirato. In questa relazione ho tentato di spiegare come sia possibile - anzi necessario - questo impegno, e quali ne siano i modi e le possibilità. Così é compito fondamentale dei cristiani impegnati nella politica e nelle funzioni legislative di fare sì che l’ordinamento nel suo formarsi, nel suo innovarsi, nel suo adeguarsi alla molteplice realtà sociale, sempre più rispecchi e contenga i valori del messaggio evangelico. Tutto questo, però, é un impegno che va esplicato - ed é colpevole omissione il non farlo - nel momento della formazione dell’ordinamento; la disobbedienza all’ordinamento formato - seppure talvolta profetica - non può mai pretendere di sottrarsi alle conseguenze previste dall’ordinamento.
Ha sottolineato di più l’aspetto penale, rispetto a quello pubblico, amministrativo. C’é, però, un versante costruttivo della misericordia ed é il versante della corresponsabilità, della solidarietà, della partecipazione. Questi valori la Costituzione italiana pone alla base di tutta convivenza dello stato-comunità. Essi non fanno problema dal punto di vista del diritto: essi fanno problema dal punto di vista della volontà umana di realizzarli. Il documento «La chiesa italiana e le prospettive del Paese» dell’ottobre q981 (al n. 33) dice che nelle strutture e istituzioni pubbliche per i cristiani «c’è innanzitutto da assicurare presenza. L’assenteismo, il rifugio nel privato, la delega in bianco non sono leciti a nessuno, ma per i cristiani sono peccato di omissione».
Qui il giurista si ferma, dopo aver posto delle domande e fornito alcuni strumenti ‘tecnici’ per rispondervi. Infatti qui comincia il lavoro politico, del moralista e, più in radice comincia il lavoro dell’uomo, dell’uomo che è in ciascuno di noi. E ancor più impegnativo é il lavoro per coloro che sono, si dicono, si sforzano di essere cristiani: l’accettazione di questo impegno sarebbe follia, se non ci fosse la certezza della paterna comprensione e misericordia del Signore.
1) Giustizia e società, Roma 1983, p.191.
2) Elementa iurisprudentiae criminalis, sectio, II, 1,§ 2.
3) Esprit des lois, XII, 4.
4) Dei delitti e delle pene, 23.
5) Commentario al Beccaria, § 10.
6) Nuova revisione del dirtto criminale, 1845, pag.106.
7) Filosofia del diritto, pag. 95 ss.
8) Storia del diritto penale, pag. 95 ss.
9) Card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, omelia tenuta nella cattedrale il 22 novembre 1981, in occasione di una manifestazione cittadina, da lui indetta, per esprimere il rifiuto della violenza e della morte e inpetrare l’aiuto di Dio