Testimonianza di Suor Emmanuelle Marie
(domenicana di Betania)
Al n° 3 della Dives in misericordia, Giovanni Paolo II cita l’annuncio messianico di Gesù alla sinagoga di Nazareth: Egli é il Messia perché «proclama la liberazione ai prigionieri, rimette in libertà gli oppressi, predica un anno di grazia del Signore» (cf Lc 4,18s).
Quando é stata pubblicata la Dives in misericordia, noi le domenicane di Betania, abbiamo subito detto: «ecco, questa é la nostra enciclica».
I. Chi sono le domenicane di Betania?
Perché quest’appropriazione della Dives in misericordia?
nel 1864, un giovane domenicano, Jean Joseph Lataste, un francese, fu mandato dai suoi superiori a predicare un corso d’Esercizi spirituali in un grande carcere femminile, vicino a Bordeaux (Francia), a Cadillac sur Garonne. Ad ascoltarlo, c’erano quattrocento donne disperate, ergastolane o semplici carcerate. Donne vittime dell’industrializzazione galoppante, umiliate, al bando, emarginate a vita, che reagivano con suicidi a catena o giornate calde di ribellione.
Padre Lataste non credeva tanto a questo apostolato. Se entra nel carcere, il 15 settembre 1864, è solo per obbedienza. Scriverà poi il sentimento di ripulsione, di ribrezzo che ha sentito valicando la porta di questa casa della disperazione. Ma nel suo cuore, albergano due amori: un amore folle per Dio ed un doppio amore per la donna: sia quella pura, innocente, come l’ha ammirata nella sua fidanzata, morta anche prima del fidanzamento ufficiale, sia la donna peccatrice, ma salvata al punto di diventare santa, come l’ha scoperta in Maria Maddalena, durante il suo noviziato nell’Ordine domenicano.
Jean Joseph Lataste ha preparato accuratamente questo corso di esercizi spirituali. Ce lo dimostrano le sue cartelle. Quando inizia a parlare, si trova davanti tutti i capi chini delle detenute che non vogliono incontrare il suo sguardo, anche se tutte sono state lasciate libere di seguire il corso. Parla loro di Dio, del suo Amore misericordioso che le ha portate in questo luogo «per parlare al loro cuore», paragonando il carcere al deserto del profeta Osea e le carcerate alla fidanzata amata da Dio. Propone ad esse di considerarsi subito, sin d’ora come monache di clausura, le quali fanno presso a poco la stessa vita delle carcerate ma, mentre queste sono nella tristezza, quelle sperimentano la gioia: mentre le une sono onorate, le altre sono disprezzate. Il predicatore invece assicura che Dio non fa differenza tra le une e le altre, perché «pesa le anime solo secondo il peso dell’amore».
E le donne ci credettero. Durante l’ultima notte, fecero l’adorazione del santissimo in soli due gruppi: duecento per la prima metà della notte, le altre duecento in seguito.Padre Lataste, sconvolto, scriverà che il loro raccoglimento avrebbe potuto far ingelosire la più fervente delle comunità di contemplative.
Alcune donne gli confidano il desiderio di consacrarsi totalmente a Dio dopo il carcere, giacché lui ha già proposto loro di vivere fin d’ora la carcerazione come una vocazione religiosa. Ma ciò che ha predicato il domenicano non trova riscontro nella Chiesa. Se é vero che Dio non guarda al passato, che «non serve nulla essere stata virtuosa se non lo si é più e che non ha nessuna importanza di essere stata peccatrice se non lo si é più», nella struttura della Chiesa le persone, troppo spesso, rimangono bollate dal proprio passato. Non era possibile nell’800, per una donna che avesse avuto esperienze di prostituzione, carcere, sesso, di entrare in convento. Al massimo, poteva entrare a far parte di una comunità di «pentite», segnate a vita come ex-peccatrici. Ora Padre Lataste aveva predicato il contrario.
Ma Dio non aveva organizzato un tale successo apostolico per nulla. Voleva creare delle cose nuove. Mentre pregava nella cappella del carcere, il domenicano vide delinearsi nelle grandi linee l’opera che doveva far sorgere: bisognava riunire donne pure, provenienti da una vita cristiana onesta, normale, con altre venute da esperienze difficili di carcere, prostituzione...Riunirle senza che ci sia nessuna differenza né discriminazione tra di loro, perché Dio le ama, le ricerca tutte ugualmente.
Due anni dopo, il 14 agosto 1866, nasceva la prima comunità delle domenicane di Betania.
II. Il carisma di condivisione, di speranza e di misericordia delle domenicane di Betania.
1) Contemplazione nella condivisione e la discrezione.
Padre Lataste ci volle contemplative, cioè senza pretesa ad aiutare gli altri ma destinate a «vivere con», con l’unica mediazione del cambiamento personale. L’unica mia efficacia é quella che posso avere su di me. Questa efficienza affonda le radici nell’Amore di Dio, nelle sue viscere di tenerezza. Solo Lui mi può far cambiare, mutando ogni mio fallimento in un invito a amare di più. In una comunità di Betania, tutte si ritengono ugualmente salvate dalla misericordia, chi dopo la caduta, chi prima di averla sperimentata. Ognuna sa di aver bisogno della realtà dell’altra per incontrarsi meglio con Dio e con gli altri.
Sin dal noviziato, mediante una lettura positiva della propria storia guidata dalla responsabile della formazione, ognuna si lascia liberare dalla verità. Tutte si accorgono di avere in sé tutte le potenzialità, buone e deleterie che siano. Chi viene da una vita «normale» capisce di avere le stesse debolezze di chi ha fatto più fatica di lei e di dover imparare ad amare da chi ha sofferto più di lei. Chi invece viene dalla delinquenza scopre, anche lei, di dover assumersi le sue vere responsabilità e quindi di abbandonare ogni sentimento vittimistico per poter annunciare con la vita la Resurrezione di cui si sente testimone in prima persona.
Questa dinamica si svolge però nel silenzio della discrezione. Nella Dives in Misericordia, Giovanni Paolo II, commentando (al n.6) la parabola del Figliol prodigo, dice che il Padre «sembra dimenticare tutto il male che il figlio ha commesso». Se il Padre ha dimenticato, perché parlarne? Se la storia di ognuna va riletta in chiave positiva con la responsabile del noviziato, la discrezione che vige a livello comunitario aiuta ciascuna a liberarsi da schemi vincolanti, perché dà a tutte la possibilità di essere se stessa al di la di ogni etichetta.
2) La verità libera
Quando Padre Lataste accennò alle detenute di Cadillac della loro responsabilità, seppe raggiungerle al punto cruciale. Nessun criminale in un primo momento, accetta di riconoscersi responsabile dell’atto commesso. Perché?
Ecco la lettura proposta da Padre Lataste: é vero che, di questo ultimo atto che vi ha portate in carcere, non siete responsabili direttamente. Ma questo atto é il punto di arrivo di una strada che avete imboccata molto prima. Forse nell’infanzia, quando avete deciso di farvi strada a tutti i costi, o per qualsiasi motivo dettato dal vostro egoismo. Il domenicano si ricollega qui a ciò che dice San Tommaso d’Aquino riguardo al primo atto libero che orienta tutta la vita. Il predicatore di Cadillac propone alle carcerate di risalire a questa prima scelta sbagliata per assumersene la responsabilità e, di conseguenza, accettare anche la catena di atti negativi che ne sono susseguiti, fino a riconoscere che l’ultimo delitto era già contenuto nel primo atto sbagliato. Questo primo atto é a misura umana, ognuna ne può accettare la responsabilità e questa presa di coscienza diventa liberante: posso ripartire da questo primo sbaglio. La rilettura della storia personale non si fa quindi in chiave psicanalitica né introspettiva, bensì in chiave di speranza, di salvezza: A questo livello, poco importa la gravità della situazione attuale; importa ripartire dal primo atto libero e riguardo a questo non c’é differenza tra chi viene da una vita cristiana «normale» o dal carcere.
III. Spunti «in punti di piedi» per una pastorale dei lontani
1) Non giudicare
In Italia ho incontrato dei gruppi in particolare sintonia con la sua «spiritualità». Primo tra tutti, abbiamo conosciuto il Gruppo Abele di Torino sin quasi dalla sua nascita: ci siamo riconosciuti a vicenda come fratelli e sorelle nella stessa volontà di dare tutte le «chances» ad ognuna, a prescindere dal giudizio dell’ambiente. Don Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele, é solito dire che il Vangelo si può riassumere in due parole: «non giudicare». Questo gruppo, come la comunità di Capodarco di cui avete sentito l’anno scorso il fondatore un altro nostro amico, don Franco Monterubbianesi, come altre sessanta comunità in Italia, raggruppate in un Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (il C.N.C.A.) svolgono la loro attività in un rapporto di parità, di rispetto, di fiducia che sembra per noi di essere un’aria di casa nostra. La loro scelta di totale condivisione é molto simile alla nostra, al punto che ci considerano un po’ come le loro contemplative.
In queste comunità come nelle nostre, si sa che tutti, siamo sempre in cerca di felicità. Ci capita di sbagliare strada - Mi rifaccio qui a ciò che ci ha detto don Giovanni Piana riguardo al peccato di origine, a questa grande bugia che ci fa chiamare bene il male e viceversa. La droga, l’erotismo di tanti giovani, non sarebbe una falsa strada per scappare all’assenza di senso alla solitudine. Dietro ogni peccato, si nasconde un disagio rifiutato e quindi rilanciato sull’altro.
Perché è così difficile perdonare? Perché giudichiamo a partire dal male commesso invece di ripartire dal dolore che ha provocato questo fatto negativo. Il male che mi fa l’altro è la sua sofferenza che lui mi dà da portare. Qui ritroviamo il Crocefisso: Cristo ci ha salvato facendo la strada a ritroso: ha preso su di sé tutta la nostra sofferenza senza mai rilanciarla su di noi e così ci ha salvati. Ci ha fatto vedere su di sé che il peccato é solo un dolore. Per cui ha proclamato il perdono: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno«, non sanno che rifiutando il soffrire, si distruggono a vicenda e rifiutano l’Amore che li può salvare. Quando si é capito questo, come non perdonare? Come non sentirci tutti fratelli, giacché tutti siamo feriti dal male...che ci fa male o con il quale facciamo male? Se vedo chi fa male come uno che soffre, quindi un potenziale Cristo crocifisso, come giudicarlo ancora? Ogni «peccatore» é un potenziale salvatore, perché é chiamato a scoprire che, se accetta il dolore fin ora rifiutato, fermerà il male a se stesso, per amore dell’altro: darà la vita per il fratello. Maddalena é stata molto perdonata perché é stata capace di amare molto, capace cioè di rileggere la propria storia come un succedersi di momenti di disagio che aveva rilanciato sugli altri, usandoli come oggetti. Ha amato molto quando ha accettato il dolore e si é addossato il male altrui. Maddalena non ha certamente giudicato Simone che la bollava: ha preso su di sé l’inconscio disagio del fariseo.
2) La contemplazione é per tutti
Quando Gesù aiuta la Samaritana a fare una lettura della sua vita: «in questo hai detto la verità, perché hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), questa donnaccia, eretica, emarginata, bollata da tutti nel paese, diventa maestra di adorazione. Come mai a lei Gesù rivela il segreto della vera adorazione? Perché quando una persona rilegge la propria storia come una storia d’amore rifiutato che può essere ritrovato più bello di prima, questa persona sbocca per forza nell’adorazione. Non é per caso che le detenute di Cadilac hanno trascorso una notte in adorazione. Non è un caso se hanno fatto sorgere nella Chiesa una congregazione contemplativa.
Prima di proporre i sacramenti, non sarebbe utile proporre l’adorazione? Prima di cercare di convertire, non sarebbe giusto proporre la contemplazione?
Una comunità del C.N.C.A. ci ha chiesto, quest’estate di venire in due Domeniche di Betania, a proporre la nostra vita contemplativa, come un self-service di contemplazione, in un villaggio di giovani dove si susseguono circa duemila giovani durante l’estate. Duemila persone venute dall’emarginazione o dal mondo degli inseriti, dalla droga o dall’azione cattolica. Le risurrezioni che abbiamo visto sorpassano ogni congettura. Non abbiamo proposto la sacramentalizzazione, neanche un discorso di fede. Abbiamo proposto, a partire dalla Bibbia, un percorso di rilettura positiva della propria storia, di fiducia nell’Amore, di certezza che da ogni male, se Dio c’è, può nascere un bene maggiore. Abbiamo visto, come diceva Padre Lataste uscendo dal carcere, delle cose meravigliose. Altro che conversioni...sono rinascite!
Quando scatta la riconciliazione in un cuore, scatta un’altra visione della vita. Il male del mondo diventa una cosa che mi riguarda direttamente. Mi sento responsabile del male che ho lanciato e, con l’amore, sono in grado di fermarne le conseguenze, se accetto di soffrire per amore. Un carcerato americano, condannato a morte, aveva nella sua cella (nel braccio della morte) il Santissimo. Questo omicida, violento, trascorreva le sue giornate in adorazione per tutto il carcere per il mondo. Forse sarà grazie a lui se sono nati, due mesi fa’, negli Stati Uniti, i Fratelli di Betania, il ramo maschile delle Domenicane di Betania?
3) Il Sacramento di Riconciliazione
Un sacerdote, fondatore di una delle comunità del C.N.C.A. dice, a proposito del sacramento di riconciliazione: «un ragazzo che fa la scelta di entrare in comunità, chiede per fatto stesso di cambiare vita. Non é questa la cosiddetta «penitenza», la «metanoia», il cambiamento di mentalità richiesto da Gesù quando inizia la sua vita pubblica (cf Mc 1,15) e che sta alla base del sacramento della riconciliazione?» Verrà poi il momento della «penitenza», cioé di rifare la strada a ritroso, di ricucire la sua storia con l’aiuto di chi ha scelto di condividere la vita con lui in comunità, accettando di portare il suo peso - perché sono sempre scomodi gli amici che hanno sofferto - accettando di camminare al suo passo per ricreare delle abitudini costruttive. Sarà forse un sacramento che durerà alcuni mesi o anni; un sacramento che non sfocerà forse mai in una assoluzione, perché troppi meccanismi contro una certa religiosità impediranno questo passo, ma sarà ugualmente un sacramento del perdono che avrà ricostruito una vita, rendendola anzi capace ormai di lavorare a realizzare il bene altrui.
Nelle Domenicane di Betania il processo é identico, ma arriva chiaramente ad una sacramentalità consapevole e desiderata. Nessuna situazione ci sembra mai disperata, perché sappiamo che la grazia può tutto, proprio nella misura in cui non possiamo niente, se non giocarci per l’altro, buttarci ad amare a dare la vita per l’altro, a portare con il Crocefisso il male del mondo trasformandolo in amore.