Antonio Pieretti*

LA MORTE E IL SENSO DELLA VITA NELLA CULTURA CONTEMPORANEA

 

1.    Il rifiuto della morte

 

         «Nel XIX secolo era dappertutto presente: cortei funebri, abiti da lutto, estensione dei cimiteri e della loro superficie, visite e pellegrinaggi alle tombe, culto della memoria. Ma questa pompa non nascondeva l’affievolirsi dell’antica familiarità, l’unica veramente radicata? In ogni caso, questo eloquente scenario di morte si è dissolto nell’epoca nostra, e la morte è divenuta l’innominabile. Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali»[1].

         Così scrive Philippe Ariés nell’ormai nota Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, e gli fa eco Jean Baudrillard, il quale afferma: «Al giorno d’oggi non è normale essere morti… Essere morti è un anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile»[2].

         In verità, l’uomo d’oggi, in preda alla frenesia del lavoro e impegnato nella ricerca smodata del benessere material, non ha tempo per pensare alla morte. Si guarda bene cioè dal prestarle attenzione, dal venire ai conti con lei.

          Ma, oltre a tenerla lontano dalla sua mente, non vuole neanche sentirne parlare. Considera sconveniente infatti qualsiasi riferimento alla “ grande nemica”, per cui giudica privo di buon gusto colui che osa pronunciarne il nome o introdurla nei suoi discorsi. E, come tale, è da evitare, da sfuggire o, quanto meno, da invitare ad affidarsi alle cure di uno psicanalista, perché è sicuramente affetto da qualche nevrosi[3].

         Ovunque cacciata e censurata, la morte però risorge dappertutto e si manifesta sempre in tutta la sua drammatica inesorabilità. Non potendola escludere definitivamente dalla sua vita quotidiana, l’uomo d’oggi cerca di esorcizzarla, chiamandola con altri nomi. Quando vi è costretto, perciò parla di essa come della “fine della vita”, della “ conclusione del cammino terreno” oppure della “uscita dalla scena della storia”, di “decesso” e, relativamente al morto, parla di lui come di colui che “non è più”, di chi “si è spento”, di chi “è mancato” e perciò lo chiama “l’estinto”, “il defunto”, “il trapassato”[4].

         All’uomo del nostro tempo non è più consentito di avere esperienza della morte. Ne ha una conoscenza, per così dire, solo spettacolare, cioè che non lo coinvolge personalmente e quindi priva di reazioni emotive, attraverso i films, la televisione. L’anziano e il moribondo infatti sono presi in carico dall’ospedale e dalla medicina, e perciò sono sottratti ai loro congiunti prima ancora di essere morti. I padri inoltre non fanno più testamento e non impartiscono più le ultime raccomandazioni sul letto di morte, radunando la famiglia come in un estremo, doloroso abbraccio[5].

         Nella società opulenta non c’è più posto per i segni esteriori della morte. Le lacrime, fa rilevare Ariés, «sono assimilate alle escrezioni del malato. Le une e le altre sono ripugnanti»[6]. E quindi, come già suggeriva Gramsci in un’annotazione dei Quaderni del carcere, «queste manifestazioni inferiori, questi residui organici di stati d’animo» sono stati aboliti.

         Qualcosa di simile è avvenuto anche per il lutto. È una forma di comportamento che la nostra società, basata sul trinomio salute – giovinezza - felicità, non tollera più[7]. Perciò, come osserva ancora Ariés, «se vengono mantenute alcune formalità, e se una cerimonia contrassegna ancora il decesso, esse debbono essere discrete ed evitare ogni pretesto a qualunque emozione: le condoglianze alla famiglia, per esempio, alla fine dei servizi funebri, ora sono soppresse. Le manifestazioni esteriori del lutto condannate, e vanno scomparendo. Non si portano più abiti scuri, non si adotta più un atteggiamento diverso da quello di tutti gli altri giorni»[8].

         E ancora. Tutta la cultura contemporanea è caratterizzata da un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, perché concepisce la capacità di funzionare dell’organismo umano e la sua redditività in fatto di produzione come i soli valori a cui informare la vita. In essa perciò è buona norma tenere nascosta la morte, mascherandola con la malattia. Inoltre, «per evitare quel momento insopportabile della carne che è restituita soltanto a se stessa», e che ha cessato di essere segno, è usanza diffusa adornarla, coprendola di artificialità[9].

         La morte, d’altro canto, non rappresenta più un fatto sociale, ma equivale ad un affare privato, che interessa colui che ne fa l’esperienza e, al massimo, i suoi familiari. E quindi non si esita a far morire i malati negli ospedali e gli anziani negli istituti di ricovero, cioè lontano dalla società, soli con se stessi[10].

         Inoltre, quasi a ribadirne l’estraneità, la società del produttivismo e del consumismo esige dal moribondo uno “stile di morte”; che i sociologi fanno consistere nella “dolce morte dell’uomo-massa”. Si tratta cioè di una “ morte clandestina”, per cui il moribondo esce dalla scena in silenzio, furtivamente, in modo da non suscitare emozioni troppo violente e reazioni che possono turbare l’ordinato svolgimento della vita quotidiana. La società industriale avanzata infatti, scrive Claudio Bucciarelli, «si protegge da ciò che riduce e ostacola la sua efficienza»[11]. E, in maniera del tutto conseguente, in essa è ritenuta “bella morte” non già la “buona morte” della tradizione cristiana, cioè quella preceduta dalla confessione e dalla comunione, ma la morte che, come nota René Rémond, «sopraggiunge all’improvviso, che vi porta via di sorpresa come un ladro e vi risparmia la sofferenza, la decadenza fisica e mentale, il timore dell’ultima ora»[12].

         Ma, per quanto si voglia assicurare al moribondo una morte solitaria, tuttavia non lo si mette in condizione di viverla effettivamente. È considerato infatti un preciso dovere dei familiari e del personale ospedaliero nascondere la verità a chi è colpito da malattia mortale. In casa o in ospedale inoltre ci si adopera perché il malato o l’anziano muoia «senza che si sia sentito morire», cioè in maniera impersonale ed inconsapevole. Così l’uomo, da sempre padrone della sua morte, oggi non lo è più[13].

         A rendere ancora più anonimo il morire contribuiscono i medici con il loro comportamento. La morte, come il dolore, è da loro riguardata essenzialmente come un problema tecnico, per cui nei suoi confronti si preoccupano soltanto di mettere in atto le cosiddette “tecniche dell’apatia”, che hanno la funzione di ritardare il momento del trapasso o di farlo accettare senza eccessiva angoscia. E, poiché la considerano «come un caso sfortunato, come un errore artificiale o come exitus del paziente», al suo approssimarsi essi scompaiono perché la loro arte non li soccorre più[14]. Così il morire è spogliato di ogni significato umano e ridotto a puro e semplice evento biologico a cui le persone partecipano solo in maniera passiva.

 

 

2.      Il mito della ragione e l’ideale del (divertissement)

         Ma perché mai la nostra epoca vuole stendere un velo di silenzio sulla morte? Perché, come rileva Baudrillard, mira a «sterilizzarla a ogni costo, vetrificarla, criogenizzarla, climatizzarla, truccarla, “design-arla”, braccarla con lo stesso accanimento della sporcizia, del sesso, dei residui batteriologici o radioattivi»[15]?

         La morte in verità spezza il corso di un’esistenza, creando dei vuoti incolmabili. E non c’è alcun rimedio nei suoi confronti, nessuna possibilità di scampo[16]. Con la sua insuperabile presenza, essa ci fa avvertire la contingenza della nostra condizione esistenziale, la precarietà e l’inevitabile fine dei nostri affetti, dei nostri legami sociali. Insomma ci pone dinanzi alla nostra miseria e ce la fa vedere, toccare, vivere tutta intera e nella sua terrificante assurdità.

         È naturale perciò che l’uomo, per liberarsi dell’angoscia dell’annullamento totale, della sua restituzione al suo originario non-essere che la morte irrevocabilmente gli preannuncia, si adoperi per tenerla lontano, per rimuovere dalla sua mente e dall’ambiente di vita non solo il pensiero, ma anche le possibili esperienze, le dolorose testimonianze, i tristi segni. Così ha fatto nel passato; scrive infatti Blaise Pascal: «Gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci»[17]. Così fa ai nostri giorni.

         Oggi però quella morte, come rileva Baudrillard, è un’esclusione più forte di tutte le altre, «più radicale di quella dei pazzi, dei bambini, delle razze inferiori, un’esclusione che le precede tutte e serve loro da modello»[18]. Ne dà conferma la frenesia con cui, nei rari momenti di libertà dal lavoro, l’uomo si abbandona al divertissement, innalzando a valore effimero, il banale, il kitch, oppure rincorre ansiosamente “mondi nuovi”, “paradisi artificiali”, pratiche religiose esotiche, esperienze inconsuete.

         La morte in verità costituisce un’anomalia, un’insopportabile incongruenza per la cultura contemporanea. Non rientra tra i problemi che ritiene importanti, non fa parte delle categorie che caratterizzano il suo apparato concettuale, non è tenuta in alcun conto dalle concezioni ideologiche dominanti, è incomprensibile tanto per le scienze della natura quanto per le scienze umane, sfugge al controllo della tecnica. È il solo evento umano che, pur essendo per tutti certo ed insormontabile, non è per nessuno prevedibile. E perciò si sottrae non soltanto a qualsiasi tentativo di ipotizzare quando e dove si verificherà, ma anche a qualsiasi progetto di pianificazione, di programmazione. La morte inoltre contravviene al rigido ordine razionale che, alla luce degli straordinari successi raggiunti dalle scienze che si occupano dei fenomeni naturali, si presumerebbe di poter rinvenire anche tra le cose umane, tra gli accadimenti che scandiscono l’esistenza sia a livello individuale che sociale.

         Per la cultura contemporanea la morte inoltre è un avvenimento del tutto assurdo. Non sa rispondere infatti all’interrogativo che concerne il senso, la ragione del morire. E, come è noto, non si tratta di un interrogativo qualsiasi o di uno di quelli nei confronti dei quali si può applicare il criterio neopositivistico secondo cui delle domande a cui non si è in grado di rispondere si deve dire o che sono mal poste oppure che riguardano problemi non veri, non autentici. La morte infatti esiste: è dianzi agli occhi di tutti, ogni giorno, ogni istante. Ma appunto perché non riesce a dominarla, a ricondurla entro la logica di un pensiero che tutto vuole chiarire e di tutto pretende di rendere conto, la cultura contemporanea preferisce ignorarla, rimuoverla dalla sua attenzione, dai suoi interessi, relegandola tra gli eventi imprevedibili, misteriosi della vita.

         Nel nostro secolo peraltro, di pari passo con le conquiste della scienza e le realizzazioni della tecnica, si è verificato un profondo mutamento nel modo di concepire l’uomo. Dall’homo sapiens, intento a contemplare l’universo per coglierne l’intima essenza, si è progressivamente passati all’homo faber e quindi all’uomo tecnocratico, impegnato ad operare sulla terra per trasformarla, per renderla sempre meglio rispondente ai suoi crescenti bisogni. In lui pertanto, alla meraviglia di fronte all’immenso scenario del creato, alla fiduciosa convinzione di riuscire a far luce sulla propria condizione di essere sospeso tra finito ed infinito, è subentrata la passione per la vita pratica, la conversione completa al lavoro, la rincorsa sfrenata al benessere materiale[19].

         Contemporaneamente, le conquiste spaziali, le scoperte di nuove fonti di energia, lo straordinario progresso raggiunto nel campo dell’automazione hanno contribuito a far sviluppare nell’uomo la consapevolezza di sé e delle proprie forze sia fisiche che intellettuali. Per cui, nella sua mente, si è fatto strada, soprattutto in questo ultimo scorcio di secolo, il convincimento che può far da sé, che, come dice Dietrich Bonhoeffer può «cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere all’ipotesi di lavoro: Dio»[20]. Confidando nei poteri della ragione quindi è venuto assumendo progressivamente l’atteggiamento di chi sa di poter essere arbitro non soltanto del proprio presente, ma anche del proprio futuro.

         Ora la morte, poiché segna per ciascuno (chiunque egli sia e a qualsiasi classe sociale appartenga) l’insormontabile limite contro cui si infrange ogni sua illusione, si rivela come la più radicale negazione della pretesa autosufficienza dell’uomo contemporaneo. Con l’ineluttabilità della sua venuta, con l’inesorabilità con cui colpisce mostra infatti l’infondatezza tanto dell’ideologia del self made man, cioè dell’uomo fattosi da sé, di ascendenza borghese, quanto dell’ideologia dell’uomo unico artefice e protagonista della storia di derivazione marxista. La sua opera annientatrice, dissolutrice, ricopre di totale discredito ogni morale che sia basata esclusivamente sui valori laici[21].

         La morte, scrive Ernst Bloch, è «il monito terribilmente realistico per chi crede di poter spiegare tutto con formule dogmatiche; per chi crede nelle “letture scientifiche della storia” che risolvano tutti problemi; per chi crede di dare risposta a tutte le domande che sgorgano dal cuore dell’uomo con le riforme economiche e sociali. La morte è la contraddizione insuperabile per quei potenti che si illudono di eliminare ogni realtà sgradita manovrando le sole leve di cui dispongono: quelle politiche, quelle economiche, quelle poliziesche»[22].

         Come tale, essa costituisce la più sconvolgente dissacrazione degli assoluti e delle certezze della cultura contemporanea, la nemica dichiarata dei suoi costumi e delle sue mode. Per questo essa la rimuove dalla sua coscienza, giudica riprovevole parlarne e ne bandisce perfino i segni esteriori. In una parola ne sancisce “l’extraterritorialità” dalla sua società affluente[23].

 

 

3.      La fine del grande sogno

         A guardar bene però ci è dato di riscontrare che oggi, come osserva Jean-Marie Domenach, “la mort est à la mode”[24]. Da alcuni anni infatti etnologi, antropologi, sociologi, psicologi, psicanalisti ne fanno uno degli argomenti principali delle loro ricerche. Anche le scienze religiose e, in particolare, la teologia, dopo la lunga stagione del dibattito sulla “morte di Dio”, hanno lentamente spostato la loro attenzione sulla “morte dell’uomo”. E ovunque fioriscono convegni, tavole rotonde, iniziative di vario genere sulla natura e il senso del morire. A livello di coscienza comune invero non si registra un analogo fervore; perdura cioè l’interdetto nei confronti della “grande nemica”. I sintomi di un rinnovato interesse per il problema della morte tuttavia sono sempre più numerosi: ce ne danno la conferma alcune inchieste condotte di recente sui malati[25] e sui giovani[26].

         Quali siano le ragione dell’attualità della morte come tema di riflessione non è facile da stabilire. Però forse è possibile immaginarle, anche se nulla ci autorizza a ritenere che siano le uniche e le più importanti.

         Certamente sulla coscienza dell’uomo del nostro tempo grava, anche se in maniera più o meno consapevole, l’angosciante rimorso dei genocidi perpetrati ad Auschwitz, a Buchenwald, a Hiroshima e sui campi di battaglia di tutto il mondo; delle migliaia e migliaia di vittime innocenti atrocemente falcidiate nel Vietnam e in Afghanistan; dei più elementari diritti umani barbaramente calpestati in Russia, in Cile, in Argentina. Nella sua memoria è presente il ricordo accusatore delle efferatezze compiute dalle dittature fascista, nazista, stalinista, salazariana e di quante altre tuttora sopravvivono in Africa e nell’America Latina. E dinanzi ai suoi occhi si succedono ininterrottamente le immagini di un mondo che si presume civile e che assiste indifferente e quasi estraneo al sistematico sfruttamento di pochi a danno di molti, al riarmo e alla produzione di strumenti bellici sempre più sofisticati, al persistere di ampie sacche di miseria e di abiezione sociale, alle sofferenze dei poveri, vittime di continue ingiustizie, agli attentati quotidiani alla morale, alla libertà di coscienza e alla salute, all’emarginazione degli anziani, alla disoccupazione dei giovani.

         Ebbene, di fronte ad un così inquietante scenario, è difficile credere che l’uomo del nostro tempo non sia sfiorato dall’idea della fine dell’umanità, della sua possibile scomparsa dalla terra. Domenach non ne dubita; è convinto che «nessuna epoca, dall’anno Mille, è stata abitata come la nostra da una così formidabile presenza della morte – sia essa atomica o entropica»[27].

         E inoltre: è indubbio che l’uomo d’oggi con gli straordinari progressi della scienza e della tecnica, ha visto aprirsi dinanzi a sé orizzonti fino a poco tempo fa inimmaginabili. E forse mai, come in questo ultimo ventennio, ha sentito così a portata di mano la possibilità di instaurare quel regnum hominis alla cui realizzazione si è dedicato fin dalla sua apparizione sulla terra[28].

         A turbare tale ottimismo e così sconfinata fiducia però interviene la constatazione che una sostanziale ambiguità soggiace all’intero processo evolutivo di questi ultimi anni. Le conquiste della scienza e della tecnica infatti molto spesso sono state impiegate in modo non già da liberare l’uomo dai bisogni e dalle necessità, ma da renderlo schiavo della sua stessa attività e dei suoi prodotti[29]. Inoltre hanno dato luogo ha metodi e strumenti con i quali è possibile programmare l’esistenza umana fin nei suoi aspetti più personali e delicati[30]. In tal modo l’uomo, da artefice consapevole e responsabile del proprio mondo, si trova costantemente esposto, come osserva Louis Moulin, al rischio di essere manipolato e di essere «orientato verso una vita professionale che gli divora l’essenziale e, spesso, la totalità del suo essere, gli toglie ogni capacità di riflessione e di meditazione su se steso, e il solo tempo libero che gli lascia è per gli hobbies infantili, le distrazioni passive, gli istanti di relaxation fatti di idiozia e di giochi violenti»[31]. Se poi si considera che le conquiste della scienza e della tecnica sono sfruttate per una parte considerevole per scopi bellici, non si può non concludere, come afferma Bertrand Russel, che, «nel mondo nel quale viviamo, esiste un’attiva e dominante volontà di morte», che inesorabilmente ha sempre la meglio sulla sanità mentale[32].

         Per questo nella cultura odierna è in atto un ripensamento nei confronti dell’uso della scienza e della tecnica e, in generale, l’uomo si guarda bene dal ritenere che siano in grado di assicurargli “il paradiso della propria realizzazione” e quindi l’auspicato rimedio contro la morte.

         Qualcosa di analogo avviene nei confronti della politica. Per molto tempo nelle speranze di sovvertimento sociale alimentate dalle ideologie e utopie alla moda si è creduto di poter vedere un’alternativa reale agli squilibri e alle ingiustizie sociali. Si è così assistito, soprattutto a livello giovanile, alla celebrazione di slogans che inneggiavano all’impegno nel sociale attraverso la militanza nei partiti, nei sindacati o in forme di associazione spontanea. Nel breve volgere di pochi anni però l’illusione di riuscire a dar vita ad una società più umana, con tutto ciò che di autentico ma anche di generico comportava, si è scontrata con l’opposizione insormontabile degli apparati di potere e con la resistenza delle istituzioni, e quindi è tramontata rapidamente. Non è dunque un caso che, a partire dalla seconda metà dell’ultimo decennio, a tutti i livelli sociali sono aumentati «il senso dell’impotenza, dell’estraneazione, l’apatia politica, l’assenteismo elettorale, le schede bianche e quelle di protesta, la diserzione degli organi rappresentativi, la fuga dalle istituzioni»[33].

         E poiché nel frattempo ha cominciato a sentire le prime allarmanti ripercussioni di una crisi economica di dimensioni mondiali, l’uomo del nostro tempo da alcuni anni ormai ha rinunciato alle grandi prospettive, ai grandi progetti per ripiegarsi su se stesso. La riflessione così, più che propositiva e costruttiva, è diventata analitica e fortemente corrosiva. La riscoperta di Nietzsche e dei profeti del prossimo tramonto dell’Occidente ha fatto il resto: ha contribuito a farle assumere connotazioni via via più esplicitamente nichilistiche e caratterizzate dal dichiarato riconoscimento della finitezza umana.

         Il clima culturale in cui questo processo è giunto a maturazione è fortemente influenzato dai mezzi di comunicazione di massa. Per cui è contraddistinto dal desiderio del divertimento, dall’amore per lo spettacolo e dal disimpegno etico e sociale, dall’indifferenza verso tutto e verso tutti.

         Sotto la sollecitazione di un radicalismo pervasivo che sostiene la fine dei valori tradizionali in nome di un ritorno alla naturalità e alla soggettività più estrema, l’uomo del nostro tempo scopre che non dispone di alcuna risposta per i suoi interrogativi esistenziali e perciò non ha neppure una meta ben definita verso cui orientarsi. Inoltre, ogni giorno di più avverte che non può far conto sugli altri, ma deve affrontare da solo i suoi problemi. Così, inesorabilmente, in questo stato di incertezza e di profonda insoddisfazione, lo spettro della morte si affaccia alla sua mente e torna inquietante a gettare la sua ombra sinistra sui suoi pensieri, sulle sue aspirazioni.

         Sull’umanità, d’altro canto, oggi come non mai incombe la minaccia della distruzione totale. Inevitabilmente perciò l’uomo è chiamato ad interrogarsi sulla morte. Certo, non lo fa a livello di coscienza comune, perché i mezzi di comunicazione di massa, le occupazioni quotidiane non glielo consentono; ma lo fa cercando una risposta nel proprio intimo, cioè là dove conserva ancora qualche padronanza di se stesso. Per questo, anche se con circospezione e quasi con inconfessato pudore, oggi si torna a parlare della “grande nemica” e a fare i conto con essa.

 

 

4.      Alla ricerca della consolazione

         La rinnovata attenzione per la morte si concretizza, in primo luogo, in un atteggiamento che Ernst Junger chiama “curiosità infantile” per essa[34]. Tale atteggiamento è particolarmente diffuso negli ambienti dell’alta borghesia e tra gli intellettuali cosiddetti di avanguardia. In generale si guarda alla morte e si prende atto della sua realtà, ma ci si preoccupa soprattutto di renderla sopportabile, accettabile. Perciò, più che la sua natura e quindi il significato che essa ha per la vita, vengono prese in esame le reazioni che provoca nell’uomo. E appunto, al fine di rimuovere la paura, ci si affida alle dottrine che sostengono la reincarnazione dell’uomo e la sua sopravvivenza, alle pratiche ascetiche, all’interpretazione degli astri, alla parapsicologia.

         Da alcuni anni a questa parte anche le cosiddette scienze umane si occupano della morte. Non sempre i risultati delle loro ricerche sono stati all’altezza delle attese; tuttavia i contributi maggiori si devono soprattutto all’etnologia, all’antropologia, alla sociologia e alla psicanalisi.

         Le scienze etnologiche e antropologiche attestano che, in particolare presso le civiltà non raggiunte dal progresso scientifico e tecnologico dell’Occidente, la morte è un’esperienza tremenda e affascinante insieme, perché il venir meno della presenza di una persona è vissuto come causa tanto di ripugnanza quanto di attrazione. Nelle pratiche rituali perciò le espressioni del dolore assumono il significato, come dice Ernesto De Martino, di uno sforzo rivolto a «far morire il morto in noi»[35].

         La psicanalisi invece vede nella morte il ritorno, da parte del vivente, ad un’esistenza inorganica, quasi per soddisfare una sorta di nostalgia per stadi di organizzazione più semplici[36].

         In generale però, come rileva anche Werner Fuchs, le scienze umane tendono più a descrivere la morte, che non a chiarirne la natura, anche perché hanno di mira di rimuoverne l’estraneità e di farne un problema sociale, non diverso da quello rappresentato dalle malattie mentali e dalla miseria[37]. Anche Ariès è della stessa opinione; afferma infatti che lo scopo delle scienze umane è di riconciliare la morte con la felicità. Per esse pertanto il momento finale della vicenda terrena «deve solo trasformarsi nell’uscita discreta ma dignitosa di un tranquillo vivente da una società scorrevole; una società non più straziata, né troppo sconvolta, dall’idea di un trapasso biologico privo di significato, di pena, di sofferenza, e infine di angoscia»[38].

         Di non minore interesse poi è il tentativo, invero già compiuto da Epicuro e da molti altri nei secoli, ma ancora oggi ripreso di identificare la morte come un “fatto naturale”. Si fa rilevare, tra l’altro, che anche nel linguaggio ordinario è presente una sorta di implicita coscienza della naturalità del morire. Nel “si muore” che vi ricorre infatti è contenuta la constatazione di un evento ritenuto inevitabile, certo, che si lascia intendere da sé. L’uso poi dell’impersonale “si” attesta che si tratta di un fatto universale, cioè che riguarda tutti indistintamente[39]. Nel “si muore” del linguaggio ordinario perciò si enuncia una verità che non può essere messa in discussione da nessuno e, ad un tempo, si esprime una sorta di rassegnata accettazione di un avvenimento inevitabile.

         Nell’apparente ovvietà del “si muore” tuttavia, come obietta Virgilio Melchiorre, si cela anche una specie di “punto di fuga”. Implicitamente infatti è come se ciascun individuo, nel constatare che “si muore”, in cuor suo dicesse: «La morte è nella natura del genere umano e, dunque, non può costituire un problema per la mia singolarità»[40]. Perciò non c’è alcuna ragione che se ne prenda cura e si preoccupi per essa.

         Invero, nell’identificazione della morte come un “evento naturale” si vuole guardarla in faccia, si intende fare i conti con essa. Ed appunto si riconosce con tutta franchezza, come rileva ancora Melchiorre, che «ogni uomo muore e questa uguaglianza non ammette gerarchie, non concede distinzioni, non accetta stupori insuperabili per la morte di questo o di quell’uomo»[41]. Tuttavia, mentre si fa tutto ciò, si cerca anche un conforto nei suoi confronti, una consolazione. E, dunque, nel “si muore” si riflettono il disagio che l’uomo prova di fronte alla morte e il modo in cui tenta di venirne fuori.

         Ma c’è un’altra forma ancora in cui si esprime la rinnovata attenzione per la morte. Anche essa, a guardar bene, è incentrata sul concetto di “fatto naturale”, però segue uno sviluppo diverso da quello precedentemente esaminato. Vi si lascia intravedere infatti la possibilità per l’uomo di riscattarsi nei confronti della morte, qualora sia disposto ad impegnarsi per il rinnovamento della società.

         Di questa prospettiva una prima anticipazione si può cogliere negli scritti giovanili di Marx. Nei Manoscritti economici-filosofici del 1844 si sostiene che ciascun uomo, per quanto di fatto sia un individuo particolare, tuttavia è «una totalità, la totalità ideale, l’esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé». In lui perciò «pensiero ed essere sono, sì distinti, ma, nello stesso tempo, uniti l’uno all’altro». Ora la morte, si dice ancora, «in quanto è una dura vittoria della specie sull’individuo e sulla sua unità, sembra in contraddizione con quel che si è detto; ma l’individuo determinato non è altro che un essere determinato appartenente ad una specie e come tale è mortale»[42].

         Marx dunque considera naturale il morire, e infatti ne parla come di una “dura vittoria della specie”. Precisa inoltre che non è l’impersonale “si” che muore, ma l’essere determinato che ciascun individuo è. L’angoscia per la morte perciò non è da nascondere o da rimuovere, ma da accettare, da vivere in tutta la sua intensità. L’uomo però, secondo Marx, è in grado di superarla, purché tiene conto che il suo destino non è individuale, ma legato alla specie[43].

         Garaudy, facendo propria la prospettiva indicata da Marx, ne rende esplicite le implicazioni ideologiche. «La morte, scrive in Parola di uomo, è morte dell’individuo. Ogni tentativo di sottrarre l’individuo alla morte è soltanto una consolazione illusoria che diamo a noi stessi, si tratti della credenza animistica nella sopravvivenza di un doppione o della pretesa immortalità dell’anima di Platone. La morte è angosciosa soltanto per chi si ferma al suo mondo individuale, si attacca alle sue proprietà. Perché tutto ciò che è individuo sarà distrutto dalla morte. Individuo biologico e personaggio sociale non sopravvivono al naufragio[44]. La vita di ciascun individuo comunque ha una sua dimensione di eternità; e ce l’ha «non dopo questa vita o al di là di essa, ma qui e ora, quando sono operatore responsabile di un progetto che mi supera», cioè di un progetto che ha come fine l’eliminazione della lotta di classe e il rinnovamento dell’umanità intera[45]. Perciò, conclude Garaudy, l’angoscia della morte non ha alcun fondamento oggettivo: è frutto soltanto di quella «malattia effimera e “provinciale” che è l’individualismo occidentale», il quale, poiché ha l’ossessione di sé, fa ritenere ossessiva anche la morte, presentandola come assurda e ripugnante»[46].

         Anche il marxismo dunque prende la morte sul serio; tuttavia, come gli altri orientamenti di pensiero e di ricerca che caratterizzano l’attuale momento storico, se ne occupa soprattutto in vista del modo in cui l’uomo può consolarsi nei suoi confronti, può accettarla come un destino inevitabile. Pertanto, della sua naturalità trae motivo per indurre l’individuo a farne uno strumento di progettualità sociale, ma non ne chiarisce la natura e non dà alcuna risposta relativamente al suo senso per la vita[47].

5.      Mistero e speranza

         Come si è visto, numerose sono le modalità in cui si è tornato a guardare la morte in questi ultimi anni. In generale però la cultura contemporanea ha tuttora fiducia circa la capacità della ragione di rendere conto dei problemi della vita. Perciò, anche se ci si occupa della morte, per lo più lo si fa con l’intento di darne una spiegazione che ne ridimensioni gli effetti dirompenti. Ed appunto gli studi e le ricerche vertono quasi sempre sul modo in cui l’uomo può trovare una consolazione di fronte alla morte. C’è però da chiedersi se, così facendo, si affronta veramente il problema della fine della vita oppure non si resta alla sua superficie, o, addirittura, non lo si evita.

         È indubbio che nella maggior parte dei casi l’individuo muore nell’indifferenza dei più, cioè, come scrive Albert Camus, «mentre nello stesso minuto tutta la popolazione, al telefono o ai caffè, parla di tratte, di polizze e di sconto»[48]. Come pure è innegabile che “il dì fatale” sopraggiunge per tutti nell’ovvietà del “si muore”. Tuttavia, se si sostiene che il morire è un “evento naturale”, non si dice molto di più se non che essa è una realtà di fatto che coincide con il compimento o l’esaurimento della vita e che quindi arriva alla fine delle forze o delle potenzialità psicofisiche di un individuo. Ma, pur prescindendo dalla considerazione che si muore anche per cause accidentali o per la violenza dell’uomo sull’uomo, non esiste un limite prefissato per le forze o le potenzialità psicofisiche dell’individuo. Neppure la scienza è in grado di stabilirlo. Perciò parlare di naturalità del morire equivale ad usare un concetto relativo, non assoluto. È come dire che essa dipende dallo stato del progresso raggiunto dalla società medica e dalla tecnica all’interno di ciascuna società[49]. L’identificazione del morire con un “evento naturale” quindi, benché sia efficace ai fini della consolazione, non ha alcun fondamento scientifico. Al massimo può valere, come scrive Melchiorre, «come semplice idea direttrice… è… in tal senso, ma solo in tal senso, può costituire il parametro di riferimento per una società sempre più rispettosa della vita»[50].

         Neppure il richiamo alla “dura vittoria della specie”sembra avere un’effettiva consistenza critica. In primo luogo infatti è difficile comprendere cosa sia la specie senza gli individui; poi non si vede come i singoli individui possano trovare consolazione nel sacrificarsi per una specie di cui ignorano perfino l’esistenza. La situazione non cambia neppure se, come avviene in Garaudy, il richiamo alla specie ha il significato di un rifiuto dell’individualismo occidentale e, insieme, di una promessa di un rinnovamento sociale. Anche in tal caso infatti per i singoli individui è difficile accettare il sacrificio di se stessi a vantaggio di una società che è da costruire e la cui realizzazione è lontana nel tempo. Essi inoltre non hanno alcuna garanzia che l’umanità, con la scomparsa dell’individualismo, passerà dal “regno della schiavitù” al “regno della libertà”. La stessa svolta sociale in cui il sacrificio dei singoli dovrebbe trovare la sua giustificazione peraltro non è che, come dice Marx, il “sogno di una cosa”, cioè una speranza, un’aspirazione, non una meta stabilità. Perciò, può avere un significato ideale, un valore morale e politico, ma non può essere accolta dall’uomo con la forza di una realtà per cui si può anche morire.

         Alla luce di queste considerazioni appare evidente che il problema della morte non può essere affrontato avendo di mira principalmente la consolazione dell’uomo. Esso va preso in esame invece secondo una prospettiva più ampia che chiami in causa la vita nella sua totalità. A buon ragione quindi Garaudy afferma: «La meditazione sulla morte è una riflessione sulla vita, sulla sua realtà profonda e sul suo significato»[51].

         Ora, la morte ha senza dubbio per ciascuno di noi qualcosa di anormale. «In qualunque mondo straniero penetri, l’uomo, sostiene Jüngel, riesce sempre ad orientarsi. Solo nella morte non si orizzonta più. La morte gli rimane estranea»[52]. Essa rappresenta uno scacco per la nostra esistenza, una sorta di profonda, vergognosa umiliazione. In un certo senso rende la vita indegna di essere vissuta.

         Lo spaesamento che proviamo di fronte alla morte però è una inequivocabile conferma che ci è lontana, che non appartiene alla nostra natura. In essa sentiamo che si interrompe il cammino che, per quanto faticoso, ci tiene legati alla terra; che finiscono le illusioni e gli ideali che abbiamo a lungo vagheggiato[53]. E quindi facciamo l’esperienza della possibilità del nostro annullamento definitivo, della nostra restituzione al non-essere assoluto.

         Ma, sebbene costituisca un’anormalità e ci sembri estranea alla nostra vita, per il fatto che proviamo angoscia nei suoi confronti, vuol dire che la morte in qualche modo ci appartiene. E Heidegger infatti sostiene è per l’uomo «la possibilità più propria, incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile»[54]; Jungle dice che è “la sua proprietà più intima”[55], e Rahner che scaturisce dalla sua natura fisica-spirituale[56].

         Si può dunque dire che la morte per noi è essenzialmente ambigua. Essa però è tale perché è mistero, cioè “qualcosa”, come rivela Gabriel Marcel, che oltrepassa le nostre capacità di comprensione, ma in cui tuttavia ci sentiamo impegnati, coinvolti[57]. Inoltre è tale perché è l’evento dinanzi al quale veniamo a capo della nostra identità, scoprendoci come esseri che non hanno in sé il proprio fondamento, ma deriva loro da altri, da un essere che, li trascende[58].

         La morte comunque non costituisce per noi un’esperienza, altrimenti non ne potremo parlare in quanto noi non ci saremmo. Ci si annuncia piuttosto attraverso l’angoscia che proviamo dinanzi ad essa, perciò mediante un’anticipazione. Ora l’esperienza che rende possibile questa anticipazione non può essere che quella della morte dell’altro. Ed è appunto alla luce di questa che parliamo di morte.

         In verità, anche la morte dell’altro è per noi inesperibile. Infatti ciascuno muore da solo: morire, come dice Michel de Montaigne, «è ogni volta un dramma con un solo personaggio». Tuttavia con la morte dell’altro si interrompe un rapporto, si spezza una comune partecipazione all’esistenza, e la “grande nemica” ci si rivela in tutta la sua sconvolgente realtà. Scrive Paul Ricoeur: «Con l’orrore del silenzio degli assenti che non rispondono più la morte dell’altro penetra in me come una lesione del nostro essere comune. La morte mi tocca». E poiché sono un altro per gli altri ed anche per me stesso, in tale esperienza «anticipo la mia futura morte come la possibile non risposta di me stesso a tutte le parole di tutti gli uomini»[59].

         Ora, nella morte dell’altro ciascuno di noi fa l’esperienza di una presenza che non è più. Vediamo infatti, come nota Melchiorre, che «i suoi occhiali restano, ma nessuno li potrà usare o nessuno li potrà usare come lui; la sua penna è là,  ma nessuno ne trarrà i segni che lui ne traeva; la sua stanza potrà essere abitata da altri, ma nessuno potrà ripetere l’ordine e il senso che la sua presenza vi esercitava; i suoi utensili per quel che gli servivano giacciono anch’essi nella vanità»[60]. Ci si fa manifesto cioè che le cose che gli sono appartenute sono ancora al loro posto, ma non hanno più la funzione di una volta, non rispondono più all’uso che dava loro un senso[61].

         Ma, nel registrare l’irreversibile assenza ci rendiamo conto anche che si interrompe quella comune di affetti che dava un particolare significato alle nostre azioni, ai nostri gesti. E quindi nella morte dell’altro ci è dato di costatare che partecipavamo di uno stesso essere insieme, di un solo mit-sein[62].

         D’altra parte, la morte dell’altro non è il venir meno dell’impersonale “si” o di un essere qualsiasi, ma di un individuo determinato, di una persona amata. Perciò nella sua morte ciascuno di noi fa l’esperienza dell’assenza di un “tu” rispetto all’”io” quel egli è. E quindi prende coscienza, oltre che della singolarità ed irripetibilità dell’altro, anche della propria. Però, poiché è in comunione con lui, con la sua morte è una parte di se stesso che se ne va. Così, ciascuno di noi, nella morte della persona amata, scopre la propria identità di persona e, insieme prende atto che è destinato a finire[63].

         C’è ancora una considerazione da fare. Nella morte dell’altro, come si è detto, ci rendiamo conto che partecipavamo con lui di un essere insieme, di un mit-sein in cui la vita di ciascuno prendeva senso e valore. In essa, inoltre, prendiamo coscienza della nostra rispettiva identità di persone unite da un legame d’amore. Tutto ciò significa che l’essere insieme di cui facevamo parte è in realtà un essere insieme basato sull’amore. Ora l’amore, come sostiene Marcel, non è un atto secondo che sopravviene ad un “io” e un “tu” già costituiti come persone, ma è un “atto primo” che li fonda e li fa partecipi di un noi che li precede, ontologicamente originario. Perciò, se è alla base della compresenza che era in atto tra ciascuno di noi e l’altro prima della sua morte, allora vuol dire che l’altro, per la persona che lo ama, non muore, che la sua presenza per essa non viene meno[64]. Inoltre vuol dire che, per quanto siamo tutti mortali, tuttavia sia ciascuno di noi che l’altro partecipiamo di un comune destino di vita che trascende la rispettiva morte corporale.

         Per l’orizzonte ontologico che ci apre appare chiaro che l’angoscia della morte si presenta per noi come l’esperienza per cui ne va di mezzo il senso del nostro essere al mondo. Perciò possiamo tentare di tenerla lontano, immergendoci nel benessere e nei piaceri, o di rimuoverla, cercando consolazioni, ma non riusciremo mai ad eliminarla, a sopprimerla. D’altro canto, secondo quanto abbiamo detto, rifiutare l’angoscia della morte equivale a precludersi la possibilità di cogliere la propria identità di persone, cioè di essere finiti, ma partecipi dell’infinito. E allora, se non vogliamo intenzionalmente rinunciare ad essere noi stessi, non ci resta che accettare l’angoscia della morte. Così facendo, anticipiamo la nostra morte, disponendoci non solo alla possibilità di essere abbandonati e perduti, ma anche al rischio della violenza che può sopraggiungere.

         Badislaus Boros sostiene che «solo nella morte l’esistenza perviene a se stessa ponendosi come coscienza, conoscenza e libertà piena»[65]. In effetti con l’accettazione dell’angoscia della morte e quindi della sua anticipazione non sfuggiamo alla vita, non ci sottraiamo alle sue incombenze, ma le facciamo nostre, assumendocene la piena responsabilità. E la vita, a sua volta, ci si rivela come finita, chiusa nell’orizzonte del tempo, ma partecipe dell’infinito, come propria di un “io”, assolutamente personale, ma aperta a quella di un “tu” in una comunione, in un vincolo d’amore che trascende e fonda entrambe.

         Infine, nell’accettazione dell’angoscia della morte e quindi della sua anticipazione ci poniamo nella condizione di vincere la stessa morte. La sottraiamo infatti all’ordine degli eventi naturali e la restituiamo alla sua essenza di mistero. E così sentiamo che in essa la nostra vita, più che chiudersi miseramente su se stessa si apre alla speranza, più che ripiegarsi sul proprio non-essere si dispone a ricevere l’essere che l’amore da sempre gli preannuncia.

         In questo straordinario cammino che ci dischiude dinanzi, se accettiamo l’angoscia della morte e quindi la sua anticipazione, comunque non siamo soli. Cristo infatti l’ha già percorso. Non ci resta perciò che seguire il suo esempio e ripeterne l’esperienza. Facendo di Cristo il modello della nostra vita, potremo guardare in faccia la “grande nemica” e chiamarla con il Poverello d’Assisi “sorella morte”.

 


*     Pieretti prof. Antonio, ordinario di filosofia teoretica, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Perugia

[1]     Ph, Ariés, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, tr. it., Milano 1978, p. 84.

[2]     J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it., Milano 1979, p. 139.

[3]     Cf. G. Gorer, The Pornography of Death, in “Encounter”, ott. 1955; ID., Death, Grief and Mourning in Contemporary Britain, New York 1965; R. Hertz, Sulla rappresentazione della morte, tr. it., Roma 1978; W. Fuchs, Le immagini della morte nella società contemporanea, tr. it., Torino 1973.

[4]     Per la morte come oggetto di vergogna e di censura anche a livello linguistico si veda oltre il citato articolo di G. Gorer (The Pornography of Death), anche il lavoro di V. Messori (Scommessa sulla morte, Torino 1982, p. 49).

[5]     Cf. Ph. Ariés, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, tr. it., Bari 1980, p. 664.

[6]     Ibid., p. 684.

[7]     Cf. V. Messori, Scommessa sulla morte, cit., p. 110.

[8]     Ph. Ariés, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, cit., pp. 71-72.

[9]     J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 200.

[10]    Cf. J. Moltmann, Il linguaggio della liberazione, tr. it., Brescia 1973, p. 132.

[11]    C. Bucciarelli, I giovani di fronte alla morte, in “Orientamenti pedagogici”, XX (1973), n. 5, p. 855.

[12]    R. Rémond, L’homme et sa mort, in AA. VV., Maîtriser le vie?, Paris 1972, p. 158.

[13]    Scrive Ariés: «L’uomo del secondo Medioevo e del rinascimento (in contrapposizione all’uomo del primo Medioevo, di Orlando, che sopravvive nei contadini di Tolstoj) teneva a partecipare alla propria morte, perché vedeva in essa un momento eccezionale in cui la sua individualità riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella misura in cui era padrone della propria morte. La sua morte apparteneva a lui, e a lui solo. Ora, a partire dal XVII secolo, ha cessato di esercitare l’esclusiva sovranità sulla propria vita e, di conseguenza, sulla propria morte» (Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, cit., pp. 195-196).

[14]    Cf. I. Illich, Nemesi Medica. L’espropriazione della salute, tr. it., Milano 1977.

[15]    J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte,cit., p. 200.

[16]    Cf. J. Moltmann, Il linguaggio della liberazione, cit., p. 137.

[17]    B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, tr. it., Milano 1984, pens. 213, p. 482.

[18]    J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 139.

[19]    Cf. A. Pieretti, Le forme dell’umanesimo contemporaneo, Roma 1977.

[20]    D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, tr. it., Milano 1969, p. 245.

[21]    Cf. E. Jüngel, Morte, tr. it., Brescia 1972, p. 56.

[22]    E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung. Gesamtausgabe, V/2, Frakfurt a.M. 1959, p. 1297.

[23]    L’espressione usata da Bloch, è ripresa da Baudrillard, che appunto scrive: «Si parla sempre meno dei morti, si abbrevia, si fa silenzio – discredito della morte. Finita la morte solenne e circostanziata, in famiglia: si muore all’ospedale – extraterritorialità della morte». E aggiunge: «Il morente perde i suoi diritti, compreso quello di sapere che sta morendo. La morte è oscena e imbarazzante – e altrettanto lo diventa il lutto, il buon gusto è quello di nascondere: ciò che può offuscare il benessere degli altri. La buona creanza vieta qualsiasi riferimento alla morte. La cremazione è il punto limite di questa liquidazione discreta e del minimo vestigio. Non più vertigine della morte: sconsacrazione» (Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 202).

[24]    J. – M. Domenach, L’energie du deuil, in “Esprit”, 1976, n.3, p. 415.

[25]    Cf. E. Kübler-Ross, On Death and dying, New York 1969.

[26]    Cf. C. Bucciarellli, I giovani di fronte alla morte, cit. pp. 838-875, 1048-1087; A. Haim, I suicidi degli adolescenti, tr. it., Firenze 1973; G. Raimbault, Il bambino e la morte, tr. it., Firenze 1978.

[27]    J. – M. Domenach, L’energie du deuil, cit., p. 415.

[28]    Cf. A. Pieretti, Le forme dell’umanesimo contemporaneo, cit., p.

[29]    Cf. Le encicliche Redemptor hominis (§ 15 e 16) e Dives in misericordia (par. 11).

[30]    In proposito significativo è quanto scrive M. Horkheimer: «La logica immanente della storia, così come la comprendo oggi, porta in realtà ad un mondo amministrato. Tramite la potenza in via di sviluppo della tecnica, l’aumento della popolazione, la ristrutturazione inarrestabile dei singoli popoli in gruppi rigidamente organizzati, tramite una competizione senza risparmio di colpi tra i blocchi contrapposti di potenza, a me sembra inevitabile la totale amministrazione del mondo…Io credo che gli uomini, in siffatto mondo amministrato, non potranno sviluppare liberamente le loro capacità, ma si adatteranno a regole razionalizzate…l’individualità giocherà un ruolo sempre più piccolo…(La libera volontà) la potremo cercare tra gli uomini alla stessa guisa in cui la cerchiamo tra api e formiche» (La nostalgia del totalmente altro, tr. it., Brescia 1972, p. 97). Sull’argomento si può vedere anche H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, tr. it., Torino 1967.

[31]    L. Moulin, La società di domani nell’Europa d’oggi, tr. it, Milano 1965, p.140.

[32]    B. Russel, E domani?, tr. it., Milano 1961, pp. 106-107.

[33]    G. Calvi, Comportamenti e valori: interpretazione provvisoria del decennio 1970-80, in Atti del Convegno su “Società italiana e coscienza giovanile verso gli anni ottanta”, Milano 1980, p. 26.

[34]    E. Jüngel, Morte, cit., p. 21.

[35]    E. De Martino, Morte e pianto antico. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino 1975, pp. 46-47.

[36]    S. Freud, Oltre il principio del desiderio, tr. it., Torino 1975.

[37]    W. Fuchs, Le immagini della morte nella società contemporanea, cit., pp. 217-218.

[38]    Ph. Ariés, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, cit., p. 731.

[39]    M- Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Milano 1953, pp. 265-267.

[40]    V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Milano 1977, p. 125. E continua Melchiorre: «Dunque, perché preoccuparmi della mia morte? Il sottinteso di questa formula può essere che la mia morte non fa problema e che dunque la spensieratezza è in questo caso del tutto legittima. Ancora, il sottinteso della spensieratezza può essere a sua volta che la morte mi è data solo negli altri, nel “genere”, e che solo come tale appare inevitabile: la mia morte tuttavia non mi è data (e come potrebbe essermi data, finché sono?), in fondo io non sono toccato dalla morte. La spensieratezza, così, prima trova la propria legittimazione e poi finisce col sostenere una sorta di fede nell’immortalità: la mia vita potrebbe infine coincidere con quella del genere e il genere non muore».

[41]    Ibid.

[42]    K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it., Torino 1978, p. 115.

[43]    Nella Critica della polemica di Plutarco contro Epicureo, pubblicata come appendice alla dissertazione dottorale Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e Epicuro, Marx sostiene che il male dell’uomo dipende dal fatto che il singolo si chiude nella sua natura empirica contro la sua natura eterna. Ora,l’essere invidiale non è in sé né universale né eterno, per cui, non appena ha esaurito la sua funzione storica, cede il proprio posto ad altri /Cf. Gesamtausgabe /MEGA), -Frankfurt a. M. 1927, l, 1, 1, pp. 111 – 115.

[44]    R. Garaudy, Parola di uomo, tr. it., Assisi 1975, pp. 31-32.

[45]    Ibid., p. 37.

[46]    Ibid., p. 34.

[47]    Sul marxismo di fronte alla morte si vedano: F. Ormea, Superamento della morte. Contributo al dialogo fra credenti e non credenti, Torino 1970; I. Mancini, Teologia, Ideologia, Utopia, Brescia 1974; V. Strada, Il marxismo di fronte alla morte, in “Vita sociale”, 37 (1980), pp. 86-94.

[48]    A. Camus, La peste, tr. it., Milano 1973, p. 7.

[49]    W. Fuchs sostiene che «La morte naturale è pensabile solo come socialmente prodotta» (Immagini della morte nella società moderna, cit., p. 65). Sull’argomento cf. anche V. Melchiorre (Metacritica dell’eros, cit., pp. 145-147) e J. Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, cit., pp. 177-184).

[50]    V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, cit., p. 145.

[51]    R, Garaudy, Parola di uomo, cit., p. 33. L. Boros da parte sua afferma: «Sono ben pochi gli avvenimenti dell’esistenza di fronte ai quali siamo divenuti altrettanto ciechi come di fronte alla morte. L’oblio della morte genera però l’oblio dell’esistenza. La riflessione sulla morte invece è il gesto con il quale l’uomo può ridare luce alla sua esistenza. Chi conosce la morte conosce anche la vita. E viceversa: chi dimentica la morte dimentica anche la vita» (Mysterium mortis, Brescia 1969, p. 28).

[52]    E. Jüngle, Morte, cit., p. 18.

[53]    Per J. – P. Sartre la morte è «una nullificazione sempre possibile dei miei possibili, nullficazione che è fuori delle mie possibilità» (L’Etre et le Néant, Paris 1943, p. 621)

[54]    M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 271.

[55]    E. Jüngel, Morte, cit., p. 21.

[56]    K. Rahner, Sulla teologia della morte, tr. it., Brescia 1972, pp. 33-36. Di ben altra opinione è Sartre; afferma infatti: «La morte in nessun modo è una struttura ontologica del mio essere, almeno in quanto è per sé: è l’altro che è mortale nel suo essere. Nell’essere per sé non c’è alcun posto per la morte; esso non può né attenderla né realizzarla, né progettarsi verso essa; essa in nessun modo è il fondamento della sua finitezza e in generale non può essere fondata dall’interno come progetto della libertà originale e il per sé non può riceverla dall’esterno come sua qualità. Cos’è dunque la morte? Nient’altro che un certo aspetto della fattività e dell’essere per gli altri, cioè niente altro che una realtà data» (L’Etre et le Néant, cit., pp. 631-632).

[57]    G. Marcel, Etre et Avoir, Paris 1935, p. 145.

[58]    Cf. E. Levinas, Le temps et l’autre, in AA.VV., Le choix, le monde, l’existence, Grenoble-Paris 1947, p. 171.

[59]    P. Ricoeur, V-raie et fauste angoisse, in L’angoisse du temps présente et le devoir de l’esprit, Neuchâtel 1953, p. 36.

[60]    V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, cit., p. 142.

[61]    Cf. P. – L. Landsberg, Essai sur l’expérience de la mort, tr. fr., Paris 1951, p. 34.

[62]    Ibid., p. 36.

[63]    Cf. P. Kemp, La machine et la mort de l’autre, in AA.VV., Filosofia e religione di fronte alla morte, “archivio di Filosofia”, Padova 11981, p. 191.

[64]    G. Marcel, L’homme et sa mort, in AA.VV., Maîtriser la vie?, cit., p. 169.

[65]    L. Boros, Mysterium mortis, cit., p. 122. sull’argomento si veda anche J. Choron, La morte nel pensiero occidentale, tr. it., Bari 1971; AA.VV., Morte et présence, Bruxelles 1971; AA.VV., Les hommes devant la mort, Paris 1975; AA.VV. La mort á vivre, in “Esprit”, 1976, n.1; G. Lorizio, Mistero della morte come mistero dell’uomo, Napoli 1982.