Gertrud Stickler*

IMPLICANZE PSICOLOGICHE DELLA SOFFERENZA

 

I.       La sofferenza a livello psico-fisico

 

1.      La sofferenza coesistente con lo sviluppo umano

          L’affermazione che l’esperienza del dolore e della sofferenza accompagnano l’uomo dalla culla alla tomba non è certamente una frase retorica. “Benessere” e “malessere”, “piacere” e “dolore” sono infatti esperienze primordiali a cui è soggetto l’essere umano fin dalla nascita e lungo tutto l’arco della sua esistenza.

          Fin dalla nascita, spesso traumatica, il bambino al punto di partenza della sua vita autonoma, inizia a sperimentare una serie di sensazioni dolorose come la fame, la sete, il freddo, il caldo, il dolore e il disagio prodotti dalle funzioni (o disfunzioni) digestive, intestinali ed escretorie, dalla dentizione, dalla febbre frequente nell’infanzia, dalla tensione muscolare dovuta alla crescita, sensazioni tutte che contrastano con le sue esperienze positive di sazietà, di calore, di pulito, di distensione, di riposo e di benessere fisico.

          Le impressioni dolorose di origine organica acquistano presto un significato psicologico e si combinano con le esperienze più specificamente psicologiche verificatesi nel bambino anche nelle circostanze ambientali più favorevoli: la necessaria separazione dalla madre con la crescente autonomia, sono risentiti da lui facilmente come abbandono, come privazione e suscitano, di conseguenza, l’apprensione di non essere “buono” o degno di amore e la paura che il mondo sia “pericoloso”, pieno di “ostilità” e di “malevolenza”, apprensioni e paure che fanno spesso prevalere in lui la sfiducia sulla fiducia.

          Deluso nella sua credenza di “onnipotenza del desiderio” e soggetto ad esperienze provenienti dall’interno dalla violenza delle pulsioni e ribellioni, dai desideri di libertà e di opposizione che infliggono una ferita narcisistica al bambino, gli si percepisce come “cattivo” o “insignificante” e “debole” come essendo soggetto alla volontà e al dominio altrui e pertanto dalla vergogna e dal dubbio[1].

          In seguito, lo svilupparsi del senso di colpa nascente dal conflitto tra il bisogno dell’espressione della propria vitalità (curiosità, iniziativa, rivalità, aggressività) e i divieti parentali e quelli più esigenti ancora del Super-Io e del Io-ideale, come anche il senso di inadeguatezza e di inferiorità per cui il fanciullo, privato di riconoscimento e di prestigio tra i coetanei, si sente condannato alla mediocrità e alla improduttività, generano stati di ansia e di angoscia che, non superati, costituiscono una sorgente di sofferenza tra le più penose della vita adulta. Nella misura in cui il bambino riesce ad uscire dalla fase narcisistica e a rinunciare ai bisogni immediati per aprirsi, nell’identificazione positiva, alla costruzione attiva di se stesso e del proprio avvenire, egli impara a entrare in rapporto efficace con la realtà e con gli altri.

          Il tentativo di definire la propria identità e di conquistarsi uno “status sociale”, come quello di stabilire rapporti di intimità e di reciprocità con gli altri, portano l’adolescente e il giovane ad estendere ulteriormente la sua esperienza del soffrire umano tanto più quanto le ferite precedenti hanno reso fragile e vulnerabile la struttura psichica della sua personalità. L’insicurezza e la conflittualità acuiscono il senso della mancanza di unità e moltiplicano esperienze frustanti a livello individuale e sociale, accrescono il bisogno e contemporaneamente la paura e perciò il rifiuto dell’intimità.

          La persona adulta che non ha raggiunta la propria identità corre pertanto il pericolo di proteggersi dal rischio dell’interazione, della produttività e della creatività, mediante l’isolamento o la ricerca della pseudo-intimità che tuttavia non valgono a impedire l’instaurarsi di un profondo senso di stagnazione e di inutilità e, infine, di un senso di disperazione, ossia di disgusto profondo e di insoddisfazione radicale della propria vita non accettata e non realizzata.

          Le sofferenze della vita individuale e sociale, sostenute dalla persona o inflitte ad altri, hanno sempre in qualche modo attinenza a uno sviluppo difettoso dell’evoluzione psicologica, dando luogo a difficoltà più o meno vistose o patologiche di adattamento e di rapporti interpersonali. In questo senso l’aiuto psicologico e la terapia psichica mirano a condurre la persona a ritrovarsi e accettarsi, nella propria realtà e, ricuperando le potenzialità positive, alleviano la sofferenza psichica, rendendo la persona più capace di rapportarsi alla realtà e agli altri in modo positivo e costruttivo.

 

2.      La sofferenza fattore indispensabile alla crescita

          La frustrazione e la sofferenza a cui è soggetto l’uomo fin dalla primissima infanzia è anche un fattore importante di differenziazione e di crescita. Un atteggiamento eccessivamente ansioso e iperprotettivo che vorrebbe risparmiare al piccolo e al fanciullo ogni privazione e restrizione, ogni attesa e incertezza, ostacolerebbe in lui l’assunzione della propria autonomia e la consapevolezza di essere «uno che sa stare in piedi da solo» e che «può camminare», né acquisterebbe l’auto-stima sufficiente per sperimentare il gusto della conquista del sapere e dell’uso delle proprie potenzialità nell’efficienza delle prestazioni e nell’iterazione efficace con gli altri. Un’esigenza e disciplina ragionevole sono indispensabili per proteggere il bambino dal capriccio dei propri impulsi e contro l’anarchia presente in potenza nella sua capacità di scelta ancora inesperta. Molte sofferenze inutili di ordine psicologico possono essere invece risparmiate al bambini e pertanto all’adulto, per tutta la vita debitore della propria infanzia, se le cure che gli si prestano sono in sintonia con le sue reali esigenze. Ma importa sottolineare in proposito che l’assenza dei conflitti nello sviluppo non dipende tanto dalla soddisfazione dei bisogni primari come tali e quindi dall’abbondanza di nutrimento, di cure e di affetto che il bambino riceve, quanto piuttosto dalla qualità dei primi rapporti interpersonali con le persone significative del suo ambiente che fondano in lui il primo nucleo più importante della propria identità: la fiducia in sé e negli altri.

          Ciò che consente alle madri e all’adulto in genere di fondare la fiducia nei propri figli è una combinazione ideale di sensibilità per le esigenze individuali del bambino e di fiducia in se stessi che conferisce al piccolo la certezza interiore della fondamentale bontà dell’altro che lo porta alla capacità di rinuncia ragionevole e alla capacità di attendere, cioè di differire il piacere senza angoscia e senza ira.

          Questo primo nucleo di identità che rende il bambino capace di fidarsi della previdenza dell’altro e di considerare se stesso abbastanza degno di fiducia da non imporre agli altri un atteggiamento guardingo, si combinerà più tardi al senso di essere se stesso, di divenire quello che gli altri si attendono da lui. Per questo è importante che i genitori non guidino i figli solo mediante consensi e proibizioni ma siano soprattutto capaci di trasmettere loro la convinzione profonda e quasi fisica che ciò che essi fanno ha un significato. Si può costatare che la frustrazione e la sofferenza anche rilevanti sono ben sopportati fin dai primi stadi dell’esistenza del bambino e negli stadi ulteriori se essi si risolvono nell’esperienza di crescita, cioè in un consolidamento dell’identità e del senso della continuità di sviluppo verso l’integrazione della personalità. Si constata, in ultima analisi, che «non sono le frustrazioni a rendere nevrotici i bambini, ma la mancanza in queste frustrazioni di un significato sociale»[2].

          E’ pertanto importante che questo primo nucleo dell’identità si stabilisca in modo sufficientemente solido e la fiducia fondamentale si conservi per tutta la vita perché, anche in condizioni psicologiche ottimali, come si è detto sopra, fin dal primo stadio di vita si verifica nel piccolo un senso di intima divisione e una nostalgia diffusa per un paradiso perduto a cui deve far fronte e per tutta la vita si rinnovano gli attacchi a sensazioni di essere stato privato di qualche cosa, di essere stato diviso e abbandonato. In questo senso esiste un rapporto tra il modo d’essere dell’adulto, la sua consistenza e “integrità”[3] e il modo d’essere del bambino e in particolare la capacità di avere fiducia. Infatti i bambini sani non avranno paura della vita e saranno anche capaci di assumersi sacrifici e sofferenze gravi se i loro genitori possederanno abbastanza consistenza e integrità da non temere la morte[4].

          Da queste osservazioni risulta che la frustrazione e la sofferenza entro certi limiti, sono necessarie al bambino e alla persona umana per poter crescere e per poter trascendersi, purché sappiano assumere la sofferenza con questo significato positivo.

 

3.      Rifiuto e ricerca della sofferenza nel patologico

          Anche dopo l’infanzia la ricerca del piacere, della soddisfazione di tendenze e bisogni resta fondamentale benché l’uomo impari, mediante la sua evoluzione psichica la rinuncia e impari ad assumere le proprie potenzialità ed impulsi per incanalarli in un amore fecondo e un un’attività produttiva e creativa. Con la capacità di “amare e lavorare”[5] e della valutazione positiva dell’esistenza, malgrado limiti e deficienze, l’uomo ha raggiunto la maturità piena nell’armonia e integrità che gli permette di affrontare la vita così come è in modo efficace e di accettare serenamente gioie, rinunce, dolori e la morte stessa.

          Spesso però questa evoluzione così ideale non si compie. Le formazioni psicologiche di varia natura evidenziano appunto la difficoltà della persona di rinunciare alla soddisfazione dei bisogni, di accettare le frustrazioni e rinunce e di maturare nella sofferenza. Ogni patologia è praticamente il tentativo di sbarrare ai conflitti psichici la via alla coscienza e di evadere così, in qualche modo dalla sofferenza senza riuscirvi tuttavia. Il rifiuto di una parte di se stessi o della propria storia fa sì, che ciò che è rifiutato si fissi e imprigioni il soggetto impedendogli l’uso della libertà.

          La sofferenza è, come si è visto, una realtà esistenziale imprescindibile sebbene ogni persona si preoccupi di evitarla o almeno di diminuirla per godere maggiormente del piacere della propria vita e nella soddisfazione dei bisogni e tendenze. Paradossalmente però la stessa sofferenza può presentarsi come fonte di piacere. E’ il caso del masochista che trae soddisfazione più o meno intensa, più o meno erotica, dal dolore sia fisico che morale e che cerca quindi la sofferenza in modo attivo sia procurandosi da se stesso dolore e umiliazioni, sia sollecitando da altri forme di maltrattamento e di svilimento al quale si sottomette passivamente. In questo modo la tendenza masochistica sollecita la tendenza sadica di un altro che trae invece godimento dalla sofferenza e dall’umiliazione altrui sul quale cerca appunto di dominare in modo più o meno crudele.

          Ogni tendenza patologica è il tentativo di evadere la sofferenza o opporvi delle difese efficaci ogni volta che la persona avverte l’incapacità di accettare la sofferenza come fattore di crescita. Normalmente, infatti, la percezione dei propri limiti obbliga il piccolo essere umano a rinunciare alla sua presunta “onnipotenza”, a percepire se stesso e la realtà in modo obiettivo e a far leva sulle proprie potenzialità per formarsi e trasformarsi nella crescita della propria personalità. Quando però questo dinamismo di crescita viene bloccato da una distorta percezione di se stesso e della realtà, il soggetto in questione può sviluppare facilmente un meccanismo di auto-mutilazione per mantenere, mediante atteggiamenti di difesa efficaci, il concetto ideale di sé. Nella posizione narcisistica per esempio il dinamismo psichico di fondo è diretto dal desiderio di conservare l’immagine positiva di sé e di evitare pertanto ad ogni costo la colpa e il difetto e di superare con un comportamento ineccepibile il proprio limite. La persona in questione è pertanto estremamente esigente con se stessa e con gli altri assumendo atteggiamenti severi di punizione per ogni infrazione sia verso se stessa (autopunitività masochista) sia verso gli altri (tendenza sadica). L’ideale dell’io che la persona in questione ha elaborato de sé rifiuta ogni riconoscimento di limite e di debolezza e assume quindi qualsiasi sacrificio e rinuncia per poterlo conservare ai propri occhi e a quelli altrui.

 

 

II. La sofferenza a livello religioso

 

1.      La religione promessa di felicità e si superamento della sofferenza

          All’uomo travagliato da privazioni e dolori nella sua condizione terrena, la religione appare come fonte di liberazione e di consolazione. L’analisi psicologica che Freud fa della religione è interessante in proposito anche se non sottoscriviamo la sua posizione riduzionistica rispetto a religioso.

          «Gli dei serbano il loro triplice compito: esorcizzare i terrori della natura, riconciliarci con la crudeltà del fato specialmente quale si manifesta nella morte, risarcirci per le sofferenze e per le privazioni imposte dalla civile convivenza»[6].

          E ancora nel saggio «un ricordo di Leonardo da Vinci» egli dice: «La religiosità si riconduce, biologicamente al lungo periodo di infermità e bisogno di aiuto della piccola creatura umana, che quando più tardi riconosce il suo reale abbandono e la sua debolezza di fronte alle grandi potenze della vita, percepisce la propria situazione in modo simile a come la percepiva nell’infanzia e tenta di negarne la desolazione con il ripristino regressivo delle potenze protettive dell’infanzia. La protezione contro la malattia nevrotica, che la religione garantisce ai suoi fedeli, si spiega facilmente con il fatto che essa li solleva dal complesso parentale, al quale è legato il senso di colpa così del singolo come dell’intera umanità, e lo risolve in vece loro, mentre il non credente deve sbrigare questo compito da solo»[7].

          Con queste e simili altre osservazioni Freud rinnova e rinforza le critiche del razionalismo classico alla religione che, in fondo viene confermato pure dall’avvertimento dei maestri spirituali contro una possibile religione funzionale. Essi insegnano, infatti, che l’uomo religioso deve imparare a convertire i desideri troppo umani, in desideri religiosi cercando, non il conforto e le consolazioni di Dio ma il Dio di ogni consolazione e conforto.

          In realtà l’uomo veramente religioso ha la sensazione che Dio stesso scava il lui, mediante una insoddisfazione fondamentale un vuoto che diventa un desiderio operativo in senso religioso come lo esprime bene S. Agostino «Inquietum est con nostrum, donec requiescat in Te»[8].

          L’uomo religioso soffre della percezione dei propri limiti di fronte a Dio e fa esperienza dolorosa della separazione che intensifica il desiderio del divino e della elevazione della propria vita, l’aspirazione profonda a superare la contingenza umana e accresce la nostalgia della pienezza in cui verrebbe a cessare ogni inquietudine e dolore umano.

          Si comprende pertanto, l’aspirazione dell’uomo verso Dio e, lo sforzo che egli compie per superare l’abisso che lo separa da lui e la sua volontà di rinunciare, mediante l’ascesi, a volte terrificante, ai desideri e alle passioni umane considerate come un ostacolo all’unione con il divino la cui Santità assoluta richiede una purezza radicale. Per altri il servizio di azione a favore dell’umanità povera e sofferente, che esige travagli e fatiche estenuanti e spesso umilianti, per annunciare al mondo il messaggio di Dio, è un modo efficace per unirsi a Lui e attestargli il proprio amore.

          In ogni caso la rinuncia a se stessi, al “mondo”, il silenzio e il sacrificio alimentano nell’uomo spirituale il desiderio di Dio che è, in qualche modo, già posseduto da lui essendo la forma stessa dell’amore. Nella contemplazione e nello studio della teologia l’uomo è ammaestrato da Dio e cerca di compiacere la sua volontà traducendolo nella propria vita e nell’azione compiuta per Lui. Nel desiderio di unione con Lui si conciliano il timore e l’amore che sostengono e incrementano questo stesso desiderio e mobilitano e fecondano l’azione umana. Il “già” e il “non ancora” di San Paolo[9] illustrano bene la dialettica del movimento religioso e dello stato mistico in cui sono contemporanei felicità e gioia-sofferenza e tormento. Ma l’uomo autenticamente religioso sa godere e soffrire superando il ripiegamento su se stesso in un’apertura sempre maggiore a Dio. Egli rinuncia al desiderio troppo umano e cerca di mantenere con la vigilanza su se stesso il desiderio di Dio.

 

2.      Il patologico irrompe nel religioso

          Il dinamismo religioso descritto sopra non può verificarsi nelle personalità a tendenza patologica, incapaci di trascendersi e aprirsi all’Altro. La religione proprio per il significato della trascendenza che le è inerente può presentare per queste persone una particolare attrattiva e pertanto essere asservita al livello psicologico. A volte, infatti, per le vicissitudini della storia personale l’uomo si scopre “di troppo”, estraneo al mondo, esposto all’assurdo, di fronte a un destino che non ha senso e può essere pertanto attratto, quasi affascinato dal religioso, da un’esperienza quasi “mistica” in cui è facile scorgere l’effetto regressivo del narcisismo indifferenziato e del legame arcaico alla madre: «Felicità, assenza di angoscia, armonia assoluta. Non penso, non sono un io individualizzato… abolizione di ogni esigenza e di ogni desiderio… resta soltanto il sentimento esplicito di essere unito con qualche cosa d’altro. In questo stato sono semplicemente tutto, sono la luce, la neve, sono ciò che odo»[10].

          E’ evidente in questo caso, riportato dal Vergote, il desiderio morboso di unione totale, di armonia e di pienezza, di abolizione del limite e della responsabilità che invade la psiche a tal segno da diventare mortale e che può spingersi fino al desiderio di morte espresso con tentativi di suicidio. La morte significa, infatti: ritorno alla madre, l’essere accolto da lei e riposare nel tepore del suo seno; significa unione con la terra, mediante la quale diventiamo terra: il tutto assoluto nel tutto. La morte significa il permanere di un’esperienza “mistica” di nirvana che risolve in modo definitivo il problema fondamentale: l’impossibilità assoluta della comunicazione con gli altri.

          Alcune volte il desiderio arcaico di ritorno alla madre si esprime con la simbologia cristiana: la figura di Gesù Cristo si fonde con quella della madre o assume qualità ed atteggiamenti specificatamente materni.

          Una certa spiritualità pseudo-mistica abbastanza diffusa tra le “persone pie” si avvicina a questa patologia anche se non assume forme così conclamate. Si tratta della divulgazione di “esperienze” a cui è soggetto il fedele “prediletto” da Dio il quale gli esprime questa predilezione mediante la persona di Gesù Cristo o la Vergine. Questi infatti, gli sono prodighi di attestazioni che una mamma tenera e solita usare verso il suo bambino piccolo: tenerezza, carezze, abbracci, mediante i quali lo consola e lo rassicura di fronte ai pericoli, soprattutto del male e del peccato che egli contempla diffuso nel mondo e di cui sono affetti gli altri, ma da cui lui viene custodito, preservato. Nessuna meraviglia se in questa esperienza, il soggetto in questione si sente invaso da un senso di intimità e di euforia che lo dilata ed esalta. E’ chiaro che in queste forme pseudo-mistiche il naturalismo fondamentale che impedisce l’accettazione del reale e la vera apertura – in quanto la persona in fondo “si serve” del religioso per preservarsi ed esaltarsi – inficia anche il livello religioso autentico.

          La stessa tendenza naturalistica è percepita da S. Paolo in determinate forme di falso e rigido ascetismo che egli condanna come “carnali” e pertanto come anti-religiose[11].

          Ciò che S. Paolo chiama “soddisfazione della carne” coincide dal punto di vista psicologico con la tendenza patologica di ricavare soddisfazioni dalla sofferenza come avviene appunto nell’autopunitività e nel masochismo, tendenza che a livello religioso può assumere l’aspetto ingannevole dell’ascesi e della mortificazione. L’inganno sta appunto nel fatto che a livello conscio la persona in questione attribuisce ai propri gesti un significato e una intenzionalità religiosi di apertura a Dio, mentre in realtà essi sono determinati dal bisogno di placare un senso di colpevolezza inconscio e dall’idealizzazione del proprio Io nella ricerca ansiosa della conferma del proprio valore o anche – nel caso del masochismo erogeno – di ricerca di soddisfazione erotica associato al dolore intenso.

          Sul piano religioso il masochismo erogeno può mascherarsi dietro certi bisogni appassionati di sofferenza, ricerche di “penitenze” che primeggiano sull’obbedienza, la giustizia, la carità.

          Nel masochismo morale, oltre alla sofferenza ricercata o subita si ha anche una incapacità di accettare la soddisfazione. E’ come se l’individuo formulasse una regola di vita, una specie di principio ascetico dell’antigioia, basata sulla scelta sistematica di ciò che da minore soddisfazione, quasi che l’atto cristiano più proprio e più importante fosse non l’amore, ma la rinuncia, l’abnegazione, la mortificazione[12].

          Questa volontà di sofferenza può considerarsi una tendenza reattiva che riflette in qualche modo l’aggressività inconscia del soggetto spesso repressa nell’infanzia. Infatti il vittimismo e l’auto-sacrificio, l’”orgoglio della sofferenza” vengono esibiti per negare la propria debolezza, la propria deficienza e servono come mezzo per punire gli altri, per proiettare la responsabilità del proprio soffrire sulla coscienza altrui. Dio è considerato come giudice severo, assetato di sacrifici e di sangue per placare la sua ira che si è accesa per la cattiveria dell’uomo.

          Quando una persona, a tendenza patologica, si identifica con questa immagine di un Dio vendicativo può esprimere la propria aggressività inconscia con un atteggiamento sadico-moraleggiante. Si investe, allora, del ruolo di difensore di Dio, dei valori religiosi e dei principi morali, assumendo un atteggiamento di esigenza rigida verso gli altri e di intolleranza e di condanna severa verso chi non condivide l’orientamento da lei proclamato. Le sue tendenze aggressive non si esprimono necessariamente con la violenza fisica ma con la critica, la svalutazione dell’avversario, con il deprezzamento, l’umiliazione dell’altro e mediante un atteggiamento globale di negatività e distruttività che è in aperto contrasto con la carità evangelica.

          Da ciò che si è detto risulta chiaro che il patologico si appropria delle motivazioni religiose per esprimersi in modo più agevole, ma è anche vero il contrario: una religiosità poco illuminata può dar corpo a tendenze patologiche latenti e amplificare e alimentare un bisogno morboso di sofferenza.

 

3.      Il significato religioso della sofferenza

          S. Paolo nella lettera ai Galati, segnala tra i frutti dello spirito: gioia, pace, carità[13] qualità che si riproducono – egli dice – in chi ha «crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze»[14]. Nei passi succitati e in tutto il suo insegnamento l’apostolo vuole indicare non solo la coesistenza paradossale nella vita cristiana di gioia e sofferenza ma puntualizza soprattutto il fatto che queste qualità del cristiano (gioia, pace, libertà, amore ecc.) sono il frutto della rinuncia al godimento egocentrico e disordinato e di una lotta costante contro i desideri scomposti della natura. Superando, nell’orientamento stabile della personalità a Dio, il male interno ed esterno, il cristiano raggiunge la libertà effettiva nella capacità di disporre di se stesso in un impegno di vita positivo e creativo secondo Dio.

          Infatti la pace è psicologicamente l’ordine della vita affettiva in cui le tendenze diverse si unificano nel consenso alla presenza divina e le potenzialità psichiche si integrano armonicamente fra di loro.

          La gioia è il frutto della percezione di un accordo con se stesso, con il mondo e la sorgente dell’esistenza; essa rende possibile l’apertura dell’uomo nella fede e gli conferisce il gusto della partecipazione al divino che si manifesta nell’esistenza e che è promessa del compimento umano ultimo.

          La carità infine, come partecipazione alla benevolenza e all’amore di Dio verso l’uomo, presuppone la sanità e maturità psichica indicata da Freud nella capacità di gioire, di amare, di essere produttivo e creativo come si è detto più sopra[15].

          Nell’uomo autenticamente religioso il livello umano e quello specificatamente religioso sono quindi in stretta interazione. Egli riconosce l’Alterità e la Sovranità di Dio e se stesso come sua creatura: egli riconosce però anche l’intenzione di Dio che vuole renderlo partecipe dei suoi beni in questo mondo e nell’eredità futura. Si sa pertanto figlio amato dal Padre piuttosto che sentirsi servo o schiavo di un padrone geloso o rivale e si apre a Lui accogliendo «con rendimento di grazie»[16] i doni inerenti alla propria vita e impegnando la propria umanità per la costruzione del Regno e del trionfo della gloria di Dio. E’ chiaro pertanto, che l’accettazione della creaturalità e l’assunzione responsabile della figliolanza divina comportano la rinuncia all’autosufficienza narcisistica e la volontà di un amore totale che implica la fiducia nel Padre come in Colui che realizza pienamente il suo disegno provvidenziale sulle proprie creature, che accetta la loro volontà di purificazione e di dono per renderle partecipi della sua vita divina. In questa prospettiva diviene comprensibile come la sofferenza e il dolore accettati e sopportati “propter Deum”, il sacrificio religioso volontario sono contemporaneamente l’espressione della più grande maturità dell’amore umano e dell’atteggiamento religioso superiore. Infatti, mentre il masochismo con le soddisfazioni a cui mira[17] non è altro che l’ombra e la caricatura di una abnegazione rifiutata, nella sofferenza autentica, assunta e valorizzata in senso religioso, la persona trascende i propri bisogni egocentrici e si apre effettivamente all’Altro. Sia che egli compia la rinuncia o il sacrificio volontario di una soddisfazione legittima o di un possesso, sia che nell’impegno per il bene egli sappia “perdere” e “pagare di persona”, sia che accetti l’insuccesso, la malattia e persino la morte come permessi da Dio per la propria e altrui purificazione, per un atteggiamento di fede e di amore più profondi e più efficaci, l’uomo entra nella dialettica propria del sacrificio che è sempre a doppio senso: riconoscimento che i beni della terra e la vita stessa appartengono a Dio, ma anche riconoscimento che Dio li ha dati all’uomo perché ne disponga e ne gioisca. Mettendo da parte una quantità del raccolto per il sacrificio e offrendo ciò che gli è prezioso e caro l’uomo religioso esprime simbolicamente che egli riconosce la sua capacità di possesso e di godimento come un valore e un diritto della propria esistenza; contemporaneamente però riconosce Dio come dispensatore di questo diritto e come origine e termine di ogni valore e di ogni gioia. Per questo il sacrificio, mentre esprime la discontinuità tra Dio e l’uomo, la differenziazione tra la terra come campo dell’uomo e il cielo, dimora divina, crea la continuità, in quanto restaura e conferma il legame e il desiderio di partecipazione con il divino. In questo modo il sacrificio non è una automutilazione per pagare un debito, come se ciò che l’uomo offre fosse frutto di una usurpazione del divino o una trasgressione del limite umano; con il sacrificio l’uomo religioso non intende pagare un debito, vuole invece ammetterlo, nel riconoscimento della propria creaturalità e della sovranità di Dio e del suo dono. Ciò che è offerto diventa segno della presenza divina che eleva l’esistenza umana senza sopprimerla; anzi, accettando il sacrificio, Dio conferma l’uomo nella gioia legittima del possesso della potenza creatrice e della vita, avvalorato dalla gioia di un legame più profondo con Lui[18].

          La sofferenza può anche assumere il significato di una punizione e pertanto indicare un senso di colpa. L’osservazione del bambino piccolo ci fa conoscere che ogni sofferenza fisica, ogni privazione e la perdita momentanea della madre sono avvertiti come mancanza di amore che il bambino teme di aver meritato e di cui si sente pertanto colpevole, sviluppando spesso atteggiamenti di auto-punizione. Anche in seguito, lungo tutto l’arco dell’età evolutiva, si constata che le frustrazioni e gli insuccessi assumono un valore etico, appaiono soggettivamente come «condanne dell’individuo». Parimenti il binomio “malattia-peccato” tanto radicato nella credenza popolare sta a dimostrare che ogni diminuzione dell’integrità e del valore fisico è risentito psicologicamente come una degradazione del valore personale e quindi come una minaccia.

 

          L’Espressione tedesca “Schuld” nel suo duplice significato di “deficit-debito” e di “colpa-peccato” indica bene che la deficienza ontologica può caricarsi facilmente di una deficienza etica e religiosa. Per questo motivo è comprensibile che dalla sofferenza nasca spesso l’insofferenza, la ribellione, la rivolta, la trasgressione, indice che l’uomo vorrebbe abolire la “colpa” ossia negare il proprio limite per soddisfare al desiderio fondamentale di benessere, di armonia e di onnipotenza. Nello stesso modo è chiaro che alla base dell’atteggiamento ateo, della negazione di Dio e della rivolta religiosa sta sempre la nostalgia di una esistenza priva di sofferenze, il desiderio di una condizione umana integra, il bisogno dell’uomo di affermarsi come assoluto, come padrone incontestato della propria storia.

          Anche le varie forme patologiche, a cui si è accennato sopra, in quanto sono, in modo paradossale, espressioni del rifiuto del limite e della sofferenza umana rendono problematica la realizzazione di un atteggiamento religioso vissuto in pienezza e con equilibrio responsabile.

          Il sacrificio e la serena accettazione della sofferenza sono dal punto di vista psicologico, l’espressione più completa della maturità religiosa in quanto sono direttamente incompatibili con la ricerca infantile di assoluta soddisfazione dei bisogni di sicurezza ed evidenziano maggiormente la capacità della persona di accettazione e di abbandono incondizionati. Nella sofferenza l’uomo religioso realizza la capacità di trascendere se stesso nell’apertura a Dio e al bene obiettivo. Infatti «il sacrificio cristiano non è ordinato al dolore in quanto tale, né alla fatica in quanto fatica, all’arduo in quanto arduo, ma ha per scopo l’integrità perfetta, la salute, la pienezza dell’essere e finalmente la pienezza della beatitudine, poiché «fine e norma della disciplina morale è la beatitudine»”[19].

          Per il cristiano quindi, la sofferenza non è fine a se stessa, ma è un mezzo per raggiungere e attestare la carità nella quale il soffrire viene mezzo per raggiungere e attestare la carità nella quale il soffrire viene superato. Infatti è «la pienezza della carità che trionfa delle difficoltà. – dice S. Tommaso – Quando la carità fosse così perfetta da estinguere interamente la difficoltà il merito sarebbe ancora maggiore»[20].

          In questo senso la sofferenza, al suo culmine, è anche partecipazione al ruolo salvifico dell’Uomo-Dio che ha assunto in sé la sofferenza umana provocata dalla “colpa”, ossia dalla ribellione dell’uomo contro la propria condizione creaturale.

          Accettando l’uccisione commessa su di lui, Cristo ha reso manifesta la colpa, ha impresso nell’esistenza umana il sigillo di Dio e ha rivelato all’uomo che Dio è Padre pronunciando altresì la parola della riconciliazione[21].

          Nell’offerta di sé mediante il sacrificio e la sofferenza l’uomo religioso rinuncia fattivamente al sogno infantile di una condizione umana paradisiaca e alla pretesa narcisistica di fondare la propria esistenza su se stesso; riconosce il limite e la manchevolezza umana ma li supera nell’abbandono fiducioso alla volontà del Padre nel quale Cristo lo ha riconciliato.

          Contrariamente all’atteggiamento di rigida negatività e di aggressività vittimistica e ostentata della personalità patologica, l’uomo religioso rivela una concezione fondamentalmente positiva della vita; egli è capace di gustare la gioia e di diffonderla e rivela un atteggiamento di comprensione e di bontà che la sofferenza dissimulata e nascosta ha fatto maturare.

          La saggezza, le opere di pace e di bontà diffusiva sono pertanto i segni più certi della persona purificata dal proprio egocentrismo, della religiosità autentica e della vera capacità del patire umano.


*     Stickler Pro.sa Gertrud, FMA, docente di Psicologia della Religione alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, Roma

[1]     La vergogna deriva dalla percezione di essere esposto all’osservazione altrui da cui deriva il desiderio di «sprofondare» e la rabbia rivolta contro se stessi di non poter diventare invisibili giacché non si possono togliere gli occhi all’altro.
     Il dubbio è la coscienza che una parte di noi sfugge al nostro controllo ma non a quello degli altri da cui deriva la sensazione di essere esposti alla prepotenza degli altri e di essere impotenti di fronte alla loro valutazione negativa. Cf. Erikson E. Infanzia e Società, Armando, Roma, 1968, 234-238

[2]     Ivi, 233

[3]     Ivi, 250-252

[4]     Ivi, 252

[5]     Capacità ritenute da Freud come criterio della personalità matura. Cf. Zilboorg G., Sigmund Freud, his exploration of the mond of man, Scribner’s sons, New York, 1951, 3

[6]     Freud S., Avvenire di una illusione, Opera omnia, Boringhieri, Torino, vol. 10, 447-448

[7]     Freud S., Un ricordo di Leonardo da Vinci, in Opera Omnia, vol. 6, 263

[8]     S. Agostino, Le confessioni, libro I, cap. I, n. 1

[9]     Cf. Cor. 4,6; Rom. 5 ecc.

[10]    Caso patologico citato da Vergote in Psicologia religiosa, Borla, Torino 1967, 179

[11]    S. Paolo richiesto dai Colossesi di un parere intorno a severe restrizioni quali «non prendere, non gustare, non toccare» che i giudaizzanti volevano ristabilire nell’uso di certi cibi e nei riguardi di un rapporto magico-superstizioso con determinati elementi, dichiara: «nessuno prenda partito contro di voi, a suo capriccio con finta umiltà o culto degli Angeli, facendosi avanti con presunte visioni, gonfio di orgoglio per i suoi pensieri carnali(…). Tali dottrine possono presentare qualche aspetto di saggezza col loro culto volontario, la loro umiltà, la loro austerità riguardo al corpo ma non hanno nessun valore contro la soddisfazione della carne» (Col. 2,18, 23). E ancora: «Vi saranno di quelli che abbandoneranno la fede per seguire altri seduttori e dottrine di demoni ingannati da ipocriti impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza, i quali prescrivono di non sposarsi e di astenersi dai cibi che Dio ha creati per essere presi con rendimento di grazie (…).perché tutto viene santificato dalla Parola di Dio e dalla preghiera» (Tim. 4, 1-4).

[12]    Cf. su questo argomento Beirnaert L. Illusione t Vérité dans le renoncement, in Expérience chrétienne et psychologie, Edtions de l’Epi, Paris 1964, 151-183

[13]    Cf. Gal 5, 22-23

[14]    Ivi 5, 24

[15]    Cf. parte I, n. 3

[16]    Cf. 1 Tim. 4, 4

[17]    Soddisfazione narcisistica di apparire eccezionalmente afflitto dal dolore; piacere di essere insopportabile all’ambiente, inconsciamente detestato; sicurezza di una vita in cui ci si accontenta di subire dei colpi senza assumersi mai rischi della lotta e dell’autonomia creativa.

[18]    Cf. Vergote A., La dette sacrificielle: automutilation au échange symbolique in Dette et desir: deux axes chrétiens et la derive pathologique, Editions du Seuil, Paris 1978, 156-162 e La peine dans la dialctique de l’innocence, de la transgression et de la reconciliation, in Archivio di Filosofia, vol. VII (1967), in part. 396-400

[19]    Pieper J. Otium e culto, Il Pellicano, Brescia, 1956, 25

[20]    Tommaso D’Aquino, Quaest dip. De caritate, 8 ad 17, citato in Peiper J. Otium 24

[21]    Vergote A: La peine, 398 s.