Carlos Amigo Vallejo*

L’ANNUNCIO PASQUALE IN UNA METROPOLI MODERNA

 

Riempite la terra! Andate in tutto il mondo annunciando che Cristo, il Signore è risorto: che tutta la creazione con la Pasqua è stata rinnovata.

Violenza. Disperazione. Peccato. Idolatria. Disoccupazione. Corsa agli armamenti. Menzogna. Aggressività. Malattia. Disgregazione della famiglia. Oppressione. Avarizia. Droga. Terrorismo. Orgoglio. Fame. Alienazione. Disprezzo della vita…

E’ meglio non considerare la portata quantitativa del male: non sia che le cifre, per la loro spaventosa altezza, finiscano con l’occultare il preminente richiamo al rimedio.

Gerusalemme è la Pasqua, Babilonia è la metropoli. Nella Pasqua c’è Cristo. Nella metropoli il peccato. Cristo porta la salvezza. Dal peccato proviene la morte. Come fare perché Cristo, mistero pasquale di salvezza, giunga alla città morta per il peccato e la faccia resuscitare?

E’ terminata l’allegoria. Siamo giunti alla grande città: si apre ora il capitolo, e il mistero, della evangelizzazione.

 

La metropoli

In Sevilla, capitale della diocesi nella quale da due anni presto il mio servizio, circa settecentomila credenti in Cristo sono in cammino verso la casa di Dio. E’ una delle città della Spagna più ricche di storia, arte, leggende, e con profonde radici culturali. Capitale di Andalusia, è sede del governo autonomo e della maggior parte delle istituzioni regionali. Centro industriale e universitario, quasi per l’intero arco dell’anno dà vita a molteplici e famose manifestazioni religiose…

Possiede diciassette conventi di religiose contemplative, quattrocento sacerdoti, cinquecento religiosi, duemila religiose, alcuni istituti di vita consacrata, numerose associazioni di fedeli, movimenti e comunità secolari…

Una Chiesa, quella di Sevilla, viva, chiassosa e complessa. In costante tensione fra il tradizionale, di sempre, e il rinnovamento permanente, di ogni giorno. Fra l’essenziale e l’effimero. Fra l’individualismo e il comunitario. Fra la religiosità popolare e il fattivo impegno evangelico. Una popolazione che nella sua immensa maggioranza si dichiara credente in Dio, in Cristo e in Maria Santissima, ma che segna uno degli indici più bassi di pratica religiosa in Spagna.

Come tutte le città spagnole, Sevilla sta soffrendo o godendo – secondo il punto di vista ideologico in cui si colloca lo spettatore – profondi cambiamenti che generano sradicamento rispetto a forme anteriori di vita, relativizzazione della fede, facile abbaglio di fronte ad una nuova equivoca cultura, assenza di capacità critica, soggettivismo, tentazione utopistica di una società interamente laica, permissività morale, mancanza di solidarietà, rivalità, disprezzo delle istituzioni…

Disoccupazione (circa il 30% della popolazione non ha lavoro), aggressione alla vita (contraccezione, aborto, droga, abbandono dell’anziano), alto indice di delinquenza, povertà e mancanza di risorse che giungono fino a situazioni-limite, differenze sociali ed economiche ingiuste e scandalose, violazioni di diritti fondamentali…

Una situazione difficile che minaccia l’uomo di questa grande città e che costituisce al tempo stesso una sfida, una sfacciata enorme provocazione per noi che, come cristiani, ci diciamo portatori della Buona Notizia della salvezza.

 

Provocazioni e risposte

Accettare l’uomo nella sua realtà esistenziale. E’ la prima sfida. Il Vangelo non distrugge l’umano, ma lo salva. Però è necessario dare all’uomo dei motivi per vivere e sperare, la verità su se stesso come uomo creato a immagine di Dio e redento da Cristo; pertanto è questo il primo cammino che la Chiesa deve percorrere, altrimenti può, in qualche aspetto, rimanere estranea al bene e alle minacce dell’uomo (RH 13).

Un forte richiamo alla solidarietà. Il problema della disoccupazione manifesta da solo la grave rottura di equilibrio sociale che soffriamo, e quel che è peggio, non vede una soluzione immediata a questa situazione. Ciò trae come conseguenza molteplici disordini sociali, pericoli per la gioventù, squilibri politici, ecc. che aumentano il male fondamentale, quello della mancanza di lavoro. La nostra fede esige da noi che non ci conformiamo, per disinteresse di fronte alla realtà o per pura inerzia, con un’etica puramente individualista. La giustizia e la carità si realizzano quando ognuno contribuisce al bene comune secondo la propria capacità, ma anche secondo la necessità del prossimo.

E’ necessario inventare nuovi gesti di solidarietà. Nella diocesi di Sevilla ci siamo proposti, con un impegno formale, di lavorare un giorno al mese in favore dei disoccupati, cioè di consegnare ad essi il salario corrispondente a un giorno di lavoro.

Il ministero della riconciliazione come annuncio profetico che giunge agli uomini e li conduce ad una salvezza efficace. Solo in Cristo è la salvezza che annuncia la Chiesa e dal suo ministero pasquale nasce la vera riconciliazione, sia dell’uomo con Dio, sia degli uomini tra loro. Il mistero di Cristo è garanzia di autenticità e di efficacia; la riconciliazione, infatti, porta a quella novità di vita che produce nell’uomo la grazia dello Spirito. Non sono le nostre capacità che purificano e drizzano ciò che è sviato, bensì lo Spirito di Dio. Se gli uomini sono ogni giorno più uniti e riconciliati, non è semplicemente perché si sono meglio conosciuti ed hanno armonizzato le loro differenze, ma piuttosto perché Dio, in Cristo, ha loro concesso la grazia di essere più fratelli.

Reazione valida e positiva alla contro-cultura (fatalismo, materialismo in tutte le sue forme, sostituzionismo religioso, agnosticismo, secolarizzazione della vita, ecc.) con una testimonianza cristiana attraverso una non equivoca proclamazione della fede nel Vangelo e in una condotta di austerità.

Il dialogo tra fede e cultura non suppone, in alcun modo, cedimenti nella propria fede, bensì apertura per l’arricchimento di quella stessa fede con i valori che Dio manifesta agli uomini di ogni epoca.

Però la sfida maggiore è quella di accettare il Vangelo come salvezza-soluzione, con la sicurezza probante che la Buona Notizia è l’unica via per ottenere un uomo e una città interamente nuovi.

 

L’annuncio pasquale

"Quando giunsi nella vostra città – dice San Paolo agli abitanti della grande metropoli – non venni ad annunciare il segreto di Dio con ostentata eloquenza e sapienza; con voi decisi di ignorare tutto, eccetto Gesù il Messia, e questo crocifisso. Pertanto mi presentai con un sentimento di impotenza e pieno di timore; i miei discorsi e il mio messaggio non si avvalevano di argomentazioni sottili e persuasive; la dimostrazione stava tutta nella forza dello Spirito, affinché la vostra fede non si basasse sulla saggezza umana, ma sulla forza di Dio" (1 Cor. 2,1-5).

Questa è la buona Notizia della salvezza che Dio ha posto nelle nostre mani. Però questo tesoro lo portiamo nel vaso della nostra fragilità. Siamo impastati di fango e portiamo il fuoco dello Spirito. Servi inutili, ma comunichiamo la grazia di Dio.

Ecco la nostra dignità e il nostro servizio. Soggetti costantemente alla sottile tentazione di considerare più l’onore che il ministero, di cercare la sicurezza personale più che l’impegno con il Vangelo.

E giunge la tentazione del fariseismo, della gioia effimera nell’esaltazione di chi crede di aver raggiunto la meta, di poter insegnare senza imparare, di dirigere senza studiare, di annunciare la Parola di Dio con la propria saggezza. L’affanno orgoglioso del perfezionismo o del culturalismo, unito al disprezzo per la passione missionaria.

La tentazione del numero e della quantità, con il conformismo della chiesa piena e della giustizia beffata, con una fede superficiale e l’oblio della carità. L’illusione del piccolo gruppo di scelti, con l’allontanamento degli emarginati; l’orgoglio dei "buoni" e l’abbandono dei peccatori.

Un affanno d’impegno senza fede, o l’evasione di voler vivere una fede spiritualizzata senza inserimento nel mondo, per il quale Cristo morì.

La tentazione dell’egoismo che isola, della compensazione e dell’anticipazione affettiva, della sicurezza materiale nella povertà teorica.

Sacralizzazione e battesimo di tutto il profano o secolarizzazione indiscriminata di tutto il sacro.

Di fronte alla grandezza del problema sorge la tentazione dello scoraggiamento e della scusa falsa. Se il problema è complesso, la pigrizia consiglia di non lasciarvisi coinvolgere. Se è lontano, l’egoismo argomenta che non ti riguarda. E viene la fuga nella comodità della contemplazione per la contemplazione, quando l’aggressività e il peso del lavoro quotidiano in mezzo agli uomini fanno soffrire. Fuga nell’attività frenetica quando la coscienza non sopporta l’interpellazione della Parola di Dio, che spinge ad una donazione di sé più giusta e meno capricciosa.

Tentazione del facile messianismo di chi rivendica per sé il diritto di presumere che tutto il bene comincia con lui ora, dimenticando il lavoro di quelli che lo hanno preceduto.

Soddisfazione dell’egemonia (leadership) nella innovazione o nello snobismo della contestazione, con la manipolazione del Vangelo e della Chiesa in favore di una opzione personale.

Consegna di sé al potente o demagogia del povero, orgoglio della superiorità e della prudenza, o disprezzo verso chi è impegnato.

Però la tentazione più grande è quella di volersi inventare un Cristo personale, che non è il Cristo del Vangelo e volerlo trasmettere agli uomini così falsificato. E’ facile cadere nella tentazione di piacere agli uomini, di transigere con l’ingiustizia dei protettori, di collaborare con la prudenza della carne, di dimenticare la spiacevole incombenza profetica o l’incomodità della correzione fraterna.

Noi non abbiamo altre mani che quelle che ci dà il Vangelo: preghiera, umiltà, misericordia, sacramenti, la carità, la fedeltà alla Parola di Dio e soprattutto Cristo risorto e vivo in mezzo a noi.

 

Con gioia e di tutto cuore

Come annunciare il messaggio pasquale in una metropoli moderna? Nella stesso forma in cui lo viveva la prima comunità cristiana: con gioia e con tutto il cuore (Atti 2, 47), testimoniando la risurrezione del Signore (Atti 4, 33). Cioè:

Optando per l’uomo, impegnandosi per la trasformazione di ogni realtà ingiusta in giustizia secondo il Vangelo. Non si può pensare nella pace di Cristo senza pensare ad una pace sociale. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte ad una società ingiustamente strutturata. La conversione sociale non è un fatto politico, estrinseco, lasciato all’arbitrio del cristiano, ma espressione necessaria ed elemento intrinseco della conversione personale. Il Verbo di Dio ha unito indissolubilmente l’umano e il divino. Perciò non possiamo separare Dio dalle esperienze umane. Nell’intimo di ogni realtà storica c’è una presenza di Dio.

Con umiltà, che non consiste in vuote dichiarazioni di inutilità e di poco valore, bensì nella convinzione che, pur essendo vasi di fango, possediamo la grazia che viene dal Signore. Perché non è umiltà pensare che sono o non sono niente, ma uscire da se stesso e pensare che gli altri sono i miei padroni e io li devo servire.

Umiltà è dare con generosità, senza attendere nulla in cambio. E’ la semplicità di dare anche la vita per gli altri, ma senza rumore, senza che si noti…

Prima di addentrarci nel cammino dell’umiltà, emergono tre accuse alle quali si deve porre rimedio: la tentazione che il servire con generosità diventi trionfalismo, che la carità sia evasione, che la speranza sia incantesimo.

Del trionfalismo. San Paolo a Timoteo (2 Tim. 1, 8-10): "Non vergognarti di testimoniare nostro Signore… Al contrario, soffri con me per il Vangelo, con la forza di Dio: Egli ci ha salvato e ci ha chiamati ad una vita consacrata, non per i nostri meriti, ma per quella sua decisione e per quella sua grazia che ci concesse nel Messia Gesù prima dell’inizio dei tempi, e che si è manifestata ora con la venuta in terra del nostro salvatore Gesù; egli ha distrutto la morte ed ha irradiato la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo".

Godere non è presumere, bensì ringraziare. Raccogliere la spiga non è compiacersi del frutto, bensì constatare che se il chicco di grano non si fosse spaccato nel solco, ora nulla si avrebbe nelle mani. Se giunge al cento per uno è perché prima ha lasciato dietro di sé casa, affetti e molte lusinghe…

Dell’evasione. Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli (1 Gv. 3,14). La carità non simpatizza con l’ingiustizia. Sa molto bene che l’uomo può anche darsi vivo alle fiamme, ma a nulla gli servirà se non possiede amore (1 Cor. 13). La gioia infatti, è frutto dell’amore fattivo. E Dio ci ha chiamati ad essere testimoni dell’amore con cui Dio stesso ama gli uomini.

Dell’incantesimo. Alcuni chiedono a noi segni meravigliosi e altri fantastici prodigi, ma noi predichiamo la croce (1 Cor. 1, 22). L’incantesimo fa sì che l’uomo rimanga inerte nella contemplazione di qualcosa d’insolito, che avviene per arte magica, senza motivo. Noi abbiamo fondati motivi per la speranza: vivere con Cristo per risuscitare con Lui. La croce, segno di ignominia e tristezza, si è convertita in segno di gloria e di salvezza. Non per arte magica, ma perché su di essa Cristo donò la sua vita. Dalla croce viene la luce…

Con gioia perché la trasparenza della Buona Notizia non resti offuscata dalla tristezza, che toglie credibilità al messaggio.

Certamente non siamo stati chiamati come giusti, ma come peccatori (Mc. 2, 17), eppure Egli, Cristo, non si vergogna di chiamarci fratelli (Eb. 2, 11) e amici (Gv. 15, 15). Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza… e sappiamo che in tutte le cose interviene Dio per il bene di coloro che lo amano (Rom. 8, 26-28).

Pertanto, come figli di Dio, fratelli redenti in Cristo e uniti dallo Spirito, è la nostra caratteristica la gioia, non la tristezza; la speranza non la delusione; il bene, non le tenebre.

La parabola dei talenti. C’è un talento particolarmente prezioso che sarebbe un delitto sotterrare: il dono della gioia.

La gioia è un composto molto ricco di contenuti: pace, serenità, pazienza, rischio nella lotta quotidiana per il bene, misericordia, partecipazione, preghiera, perdonare ed essere perdonato… Di tutto questo, in gran parte, è artefice il sacerdote. E’ suo compito. Il risultato deve essere la soddisfazione del dovere compiuto; la gioia e l’allegria sono il salario, la ricompensa del lavoro realizzato.

La povertà alla quale siamo stati chiamati esige, però, che questo talento della gioia si partecipi e si comunichi agli altri. Farsi poveri per arricchire. E non ti preoccupare, perché avviene un miracolo di moltiplicazione: quanto più si partecipa gioia, tanto più se ne possiede; più si dà, più si riceve. In fondo, la gioia è rendere partecipi gli altri della Resurrezione di Cristo e insieme della speranza in una creazione interamente nuova, in un uomo completamente nuovo.

 

Torniamo all’allegoria

Il profeta fu inviato alla grande città. Poiché il vizio corrompeva il cuore degli uomini, che nell’anima si erano induriti, era molto difficile parlare del regno di Dio.

Se ci fossero cinquanta poveri di spirito, perché di essi possa essere il regno dei cieli…; o quarantacinque con fame e sete di giustizia, perché possano essere saziati…; o quaranta con il cuore puro, perché possano vedere Dio…; o trenta misericordiosi, perché possano ottenere misericordia…; o venti in cerca della pace, perché possano chiamarsi figli di Dio… (Gn. 18,20 ss; Mt. 5,1 ss).

E se ce ne fosse solamente uno? Ebbene giungeremmo fino a lui e, con gioia e semplicità di cuore, gli annunceremmo quello che abbiamo ricevuto: che il Signore Gesù morì e fu risuscitato e che vive per essere via di salvezza per tutti.


*     Amigo S. E. Mons. Carlos Vallejo, Arcivescovo di Sevilla (Spagna)