Gianfranco Fregni

dall’amore paterno di dio all’amore sponsale di cristo

 

       La formulazione del titolo di questa riflessione prende le mosse dalla lettura del libro: «Il mistero del Padre»[1].

       Il tema della paternità di Dio mi ha sempre catturato ma è altrettanto vero che sempre avvertivo di non essere attrezzato ad illuminarlo. Quel libro mi ha affascinato, aprendomi gli occhi e la mente, a tutto campo come si dice oggi, sulla paternità-materna di Dio. Da Lui perciò trae origine ogni paternità in cielo e in terra, e Lui è «immagine» di ogni amore paterno e materno tra gli uomini. Così possiamo anche affermare che l’uomo e la donna, creati a sua immagine, sono incarnazione del suo amore di padre-madre per noi. E’ altrettanto suggestivo considerare allora l’amore di un papà e di una mamma, una parabola vivente che ci aiuta a conoscere Dio. Infatti «chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio» afferma la Scrittura[2].

       Il primo incontro con l’amore, la prima esperienza d’amore nella nostra vita, ci auguriamo sia datata al primo istante, ai primi minuti della nostra uscita dal grembo materno: le braccia e il seno di nostra madre. Più tardi avremmo scoperto che ci sono altre relazioni d’amore: due amici, due innamorati, lo sposo e la sposa. Viene spontanea una domanda allora: queste altre espressioni d’amore, ed in particolare quella sponsale, esse pure trarranno origine in Dio? Può esserci qualcosa di buono, di stupendo che l’uomo possa realizzare inventando, non partecipatogli da Dio?

       Ecco il secondo passaggio: la scoperta del mistero del Figlio, lo Sposo. Chi conosce questa «via del Signore»? Non sono un teologo di professione. Chi allora mi ha sollecitato ad addentrarmi in questo mistero? Gli sposi che ho frequentato, i giovani fidanzati. Proprio loro mi hanno reso possibile vivere oggi, un’esperienza testimoniataci da Luca negli Atti[3]. Siamo nella Sinagoga di Efeso. Un eloquente biblista di Alessandria, «pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù». Due sposi umili artigiani, lo ascoltano con molta attenzione. Al termine lo prendono con sé, «e gli esposero con maggior accuratezza la vita di Dio». Non attraverso i dotti trattati scritti con l’inchiostro ci si inoltra nella vita misteriosa dell’amore. C’è una conoscenza profonda che si acquisisce dall’esperienza. La riflessione che con molto pudore vi presento è frutto di questo dialogo quotidiano con chi vive lo stato di vita coniugale.

       Dire sposi fa pensare a coloro che vivono nella propria carne la gioia di un’intimità profonda, ma anche la delusione e la sofferenza di una unità infranta, la tentazione di scendere da una croce insopportabile, l’olocausto di un corpo che si dona per far vivere un’altra creatura[4].

       Nel proporre queste riflessioni intendo raggiungere un obiettivo catechetico ed uno più spirituale.

 

Scoprire la cristologia del Matrimonio

       Il primo obiettivo è quello di suscitare il desiderio negli sposi ma anche in coloro che sono consacrati nella verginità, di conoscere più in profondità il mistero di Cristo come «lo Sposo per eccellenza». E’ un aspetto della cristologia lasciato in silenzio dalla teologia professionale, silenzio che è di conseguenza caduto anche sulla cristologia del matrimonio.

       Si tratta infatti di ricondurre tutto al Cristo, anche il matrimonio. Gesù il Cristo non può non essere il centro di ogni discorso di amore nuziale e di alleanza nuziale.

       Infatti «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova che è Cristo Gesù»[5]. In lui tutto è ricapitolato, tutto è riconciliato nel suo sangue: l’amore con la sessualità, l’amore e la sessualità con la vita, l’uomo con la donna; da lui «abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi»[6].

       Il catechismo Romano ai Parroci, del Concilio di Trento, nella prima parte ricca di annotazioni e orientamenti pastorali afferma:

       «Sarà opera principale del pastore far sì che i fedeli desiderino ardentemente conoscere Gesù Cristo, e Gesù Cristo crocifisso»[7]. Inoltre il Signore e Salvatore nostro ha detto, non solo, ma l’ha anche mostrato col suo esempio che la legge e i profeti dipendono dall’amore. Pertanto qualunque cosa venga proposta o da credere o da sperare o da eseguire, sempre in essa deve raccomandarsi la carità (amore) di nostro Signore, così che ognuno comprenda che tutte le opere di perfezione cristiana non hanno altra origine che l’amore e nessun altro fine che l’amore»[8].

       E’ così confermato che non si danno campi paralleli nella dottrina cristiana. E non si può porre fondamento all’amore coniugale che in Cristo. Sarebbe schizofrenia dissociare l’annuncio della Trinità Santissima da una riflessione etica autonoma riguardante l’amore, la sessualità, i doveri del matrimonio.

       Il Rinnovamento della catechesi[9] per l’attuazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II, afferma nel capitolo quarto che porta come titolo: «Il messaggio della Chiesa e Gesù Cristo»:

       «La catechesi deve introdurre i credenti nella pienezza dell’umanità di Cristo per farli entrare nella pienezza della sua divinità. Lo si può fare in molti modi, muovendo da premesse e da esperienze diverse, seguendo metodi diversi, secondo l’età, le attitudini, la cultura, la problematica, le angosce e le speranze di chi ascolta. “Chiunque segue Cristo, l’Uomo perfetto, si fa lui pure più uomo”» (n.60-61).

       Se Cristo è l’Uomo perfetto, è irrinunciabile anche l’Uomo perfetto nell’arte dell’amare l’altro come la propria carne.

       Gesù Cristo come viene preferenzialmente presentato dalla nostra predicazione, dalla nostra catechesi? Come il «buon Pastore», come il «Sommo Sacerdote», come «Il buon samaritano», come il «Profeta», come «l’Agnello pasquale».

       Domandiamoci: perché quasi mai ai nostri giorni viene annunciato, predicato come lo Sposo della Chiesa? Un titolo a lui molto gradito, efficace per la comprensione della categoria biblica dell’Alleanza.

       Un prezioso contributo, e al tempo stesso sollecitazione all’approfondimento del mistero nunziale di Cristo, ci viene dalle 16 tesi Cristologiche sul matrimonio preparate da P. Martelet, nel 1978, e presentate dalla Commissione Teologica Internazionale unitamente alla 5 Proposizioni sul matrimonio.

       Afferma Martelet sulla sua 4a tesi:

       «Gesù sposo per eccellenza. Benché questo titolo sia ordinariamente trascurato dalla cristologia, esso deve trovare per noi tutto il suo significato. Allo stesso modo che Gesù è la via, la verità, la luce, la porta, il pastore, l’agnello, la vigna, perfino l’uomo, poiché riceve dal Padre “il primato su tutte le cose” (Col. 1,18), con la stessa verità e a buon diritto, è anche lo sposo per eccellenza, vale a dire, “il maestro e il Signore” quando si tratta di amare l’altro come la propria carne. Perciò la cristologia del matrimonio si deve iniziare da questo titolo di sposo e dal mistero che esso richiama. In questo campo, come in ogni altro, “nessun può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova che è Gesù Cristo” (1 Cor. 3,11). Ad ogni modo, il fatto che Cristo è certamente lo sposo per eccellenza, non va separato dall’altro che è il “secondo” e “l’ultimo Adamo” (1 Cor. 15,45-47)[10].

 

Diventare artefici di un umanesimo familiare

       Un secondo obiettivo del mio riflettere sul mistero dell’amore sponsale di Cristo, è di aiutare gli sposi a lasciare nella cultura attuale l’impronta della vita familiare, come lo stile di vita più consono all’essere umano. Uno stile di vita che a sua volta si rifà alla realtà misteriosa dell’Incarnazione del Figlio di Dio per una relazione sponsale con l’umanità. Un farsi simile a noi per poter vivere una relazione d’amore fondata su un’alleanza reciproca.

       Giovanni Paolo II, nel maggio 1986, ha ricevuto in visita ad limina i Vescovi dell’Emilia Romagna. Nel discorso pastorale che ha loro rivolto ha affrontato il tema della famiglia. E ha dato orientamenti molto puntuali. Personalmente mi ha colpito, perché l’ho sentito puntuale e storicamente pertinente alla nostra regione, soprattutto una affermazione che ritengo stimolante per tutti:

       «Ma una pastorale che miri solo all’interno di una famiglia non basta. Occorre esaminare la situazione familiare in una cornice più larga, nel contesto storico e culturale, in cui essa vive e opera... La Chiesa non può limitarsi a registrare i molteplici mutamenti, ma deve entrare in questo tessuto storico e trasformarlo. I cristiani devono porsi come coscienza critica di questa mentalità ed essere artefici di un autentico umanesimo familiare. Ciò comporta il discernimento evangelico, cioè la lettura e l’interpretazione della realtà familiare alla luce di Cristo, «lo Sposo che ama e si dona come Salvatore dell’umanità unendola a sé come suo corpo»[11].

       Il termine «umanesimo» è molto impegnativo. Si tratta di una concezione dell’uomo e della donna, della loro relazione vicendevole e verso l’intera comunità. «Umanesimo familiare» significa tenere l’esperienza e la vita coniugale e familiare come verificatore della bontà e validità dell’imposizione della nostra convivenza sociale. Senza disanime specialistiche, è facile a tutti noi percepire che la cultura dominante, anche nell’ambiente cattolico, è una cultura individualistica o collettivistica. Questo lo si avverte anche nelle regioni a più antica tradizione familiaristica. Vi è assente soprattutto una cultura della coniugalità, in proporzione inversa della difesa forte della famiglia come istituzione. Anche là dove sembra affermarsi il modello «coppia» come emergente, permane come sottofondo un’esasperata ansia della propria realizzazione al di là della relazione d’amore che si sta «consumando».

       La dittatura della soggettività, prevarica anche nelle case e la relazione d’amore anziché essere un servizio alla promozione della persona del partner in tutte le sue dimensioni fa della persona «amata» un supporto al tuo benessere. E’ tanto lontana dal: «E voi mariti amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei»[12].

       C’è anche la dittatura del collettivo che non lascia spazio o ritiene debolezza psicologica il tempo della coniugalità. Lo consente come momento privatistico, purché non prenda il sopravvento sull’operare comune. Coppia e famiglia non diventano mai «cellula fondamentale», categoria di lettura interpretativa.

       Le prospettive che ci stanno davanti sono impegnative, più che sul versante morale, sull’orizzonte della conoscenza più intima del mistero di Gesù e del mistero dell’uomo e della donna quando si amano di un amore umano, totale, fecondo e fedele.

       Da dove partire per la nostra riflessione: dal matrimonio? Dalla verginità consacrata? Hanno qualcosa in comune con Cristo lo stato di vita coniugale e quello verginale? Sì l’amore. Se «L’amore è da Dio perché Dio è amore e chi ama è generato da Dio e conosce Dio»[13], la prima riflessione non può che partire dal Dio-AMORE.

 

Dio ama di un Amore-Misericordioso

       La nota 52 dell’Enciclica Dives in misericordia, dell’attuale Papa, ci rende edotti delle due parole semitiche che sono sottese alla parola italiana «misericordia». Dare di nuovo il cuore a chi è in stato di miseria.

       La prima parola è hesed. Fa riferimento ad una promessa, richiama perciò una fedeltà all’interno di una alleanza, come quella sponsale. E’ un amore che parla di solidarietà radicale vicendevole e giurata. E’ un amore che diventa anche esigente e conosce la collera della gelosia. Due amanti sono gelosi. La seconda parola è rahamîn. Alla sua radice troviamo rehem, utero. Ci parla di tenerezza materna, di amore al frutto delle proprie viscere. Ci richiama la paternità di Dio in Osea 11: una paternità amorevole, una tenerezza ferma. Dio ama teneramente come una madre ed è al tempo stesso guida forte come un padre, superando tutte le categorie culturali che tendono ad attribuire separatamente la fermezza al padre la dolcezza alla madre. Non nascondiamoci lo stupore della gente al sentire Papa Luciani parlarci di Dio come «madre».

       Dio è amore. La rivelazione del suo amore è Cristo: come Figlio ci rivela la Paternità del Padre. Come Uomo ci rivela il suo amore sponsale per la Chiesa.

 

Cristo lo sposo per eccellenza

       La rivelazione di Dio-Amore si fa più compiuta allorché dalla contemplazione dell’amore paterno-materno di Dio Padre, veniamo condotti dallo Spirito a scoprire l’amore sponsale del Figlio suo: Gesù il Cristo. Non vi nascondo il senso di pudore che avvolge questa riflessione: ci fa entrare nell’intimità della relazione di Cristo con l’umanità con l’Immagine che aveva di sé. Lui che è Immagine del Dio invisibile, impronta della sua Sostanza.

       «E voi mariti amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa». Questa affermazione che l’apostolo Paolo ha scritto agli Efesini[14], ci induce a riflettere sulla modalità sponsale della relazione d’amore di Cristo verso la Chiesa. Ho pensato infatti che se l’Apostolo avesse voluto soltanto esortare i mariti ad una maggiore benevolenza verso le loro mogli o avesse inteso offrire testimonianze edificanti sull’amore coniugale, avrebbe potuto presentare con più immediatezza l’esempio di uomini sposati dell’AT, così come è stato fatto per la fede nella lettera agli ebrei[15]. Perché senza esitazione ha dato come immagine Gesù, uomo non coniugato? Eppure ha proprio affermato: «E voi mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa». Anzi gli sta a cuore aggiungere: «e ha sacrificato se stesso per lei». L’amore sponsale è amore teologale, comporta un discorso che parte da Dio, Gesù anche nell’amore è immagine visibile dell’invisibile Javhé che ha amato Israele di un amore indicibile, come uno sposo.

       Pertanto Gesù è segno esemplare dell’uomo che vuole amare di un amore sponsale. La sua vita è parabola di un’alleanza nuziale. La sua morte è testimonianza di una solidarietà radicale alla sposa, di una fedeltà a questo patto di solidarietà fino a morire.

       Cristo allora è lo Sposo per eccellenza e ogni sposo che si fa sempre più come Cristo, si fa sempre più autenticamente sposo.

       Ma è solo per allegoria, per esemplarità che noi chiamiamo Cristo «lo Sposo», o può essere un titolo che gli compete proprio perché è il Messia? Perché la Chiesa si definisce «la Sposa»?

       Ascoltate questo brano di omelia di un Arcivescovo di Cartagine del V secolo. Si chiama Quodvultdeus. Morì a Napoli verso il 453, scacciato dalla sua città. Questa omelia ci è stata tramandata tra le carte di Agostino, ed era destinata agli aspiranti al battesimo per sollecitarne la professione di fede. E’ di tale intensità di accenti amorosi da essere paragonabile al Cantico dei Cantici. Ecco:

       «Giubila, giubila o Chiesa, tu sei la Sposa! Se Cristo non avesse sopportato la sua passione, tu no saresti nata da lui. Egli è stato venduto per liberarti, è stato ucciso perché ti ha amata. Poiché egli ti ama infinitamente ha voluto morire per te. Tale unità nuziale è un mistero veramente grande. Le parole umane non hanno espressioni adeguate per esprimere il sublime mistero di questo sposo, di questa sposa. La sposa è nata dall’uomo amato, e l’ora della nascita è l’ora delle nozze. Egli si dona alla persona amata nel momento in cui muore, ed egli l’abbraccia quando si libera dalla sua condizione mortale.

       Chi è lo sposo, lontano e vicino? Chi è lo sposo, vicino eppure così nascosto, che la sposa può riconoscere solo in una fede pura e generare ogni giorno i suoi membri senza un abbraccio palpabile? Chi è costui? Lo volete sapere? Il Signore delle schiere, il re della gloria»[16].

       Una domanda viene allora spontanea: ma nei vangeli abbiamo traccia di questo titolo o è solo linguaggio mistico? Rivisitiamo insieme questo episodio evangelico tramandatoci da Matteo:

       «Allora a Gesù gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: Perché mentre noi e i farisei digiuniamo i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù disse loro: Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno»[17].

       Gesù chiama i discepoli «gli invitati a nozze». Un’altra traduzione più vicina a quella realtà, chiama gli invitati «i figli del convito nuziale». Questa è un’allocuzione semitica per indicare le persone presenti nel cerimoniale di nozze: parenti ed amici personali degli sposi, quelli che facevano brillare la festa.

       I figli del convito nuziale. Ma per chi è quel convito? «Il regno dei cieli è simile ad un re, il quale fece le nozze a suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze; ma questi non volevano venire»[18]. La parabola lo riguarda. Lui è il figlio del re, per lui il re ha preparato le nozze. Lui è lo sposo. Giovanni Battista, nella sua ultima testimonianza prima di morire, lo dichiara entusiasticamente:

       «Nacque una discussione fra i discepoli di Giovanni ed un giudeo a proposito di purificazione. E andarono da Giovanni a dirgli: Rabbì, colui che era con te, quando eri oltre il Giordano, e al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti accorrono a lui. Giovanni rispose: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che vi ho detto: non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta»[19].

       La prima testimonianza che Giovanni aveva dato di Gesù riguardava la sua identità di Messia. Questa seconda rivela il suo rapporto con lui: Gesù è lo Sposo; lui, l’amico dello sposo!

       Una annotazione ambientale aiuta a cogliere immediatamente il senso della parabola raccontata da Giovanni. Il matrimonio ebraico veniva celebrato in due tempi. Il primo tempo o del fidanzamento (gli sponsali, l’impegno di matrimonio) avveniva nella casa della sposa, quando veniva pattuito e pagato il prezzo per la dote con un vero e proprio contratto legale. Il secondo momento, il matrimonio vero e proprio, era quando lo sposo introduceva la sposa nella propria casa, per andare ad abitare insieme. (Ricordiamo tutti l’affermazione di Matteo a proposito di Maria e Giuseppe: «prima che andassero ad abitare insieme»[20]. In tutti e due i momenti del cerimoniale erano invitati parenti e amici, e chiamati, come detto sopra, «i figli dello sposo» o del «convitto nuziale». Ma in mezzo a questi, e con una precisa identità, emergeva una figura con un preciso ruolo: l’amico dello sposo. Non si trattava solamente di rapporti di amicizia personali con lo sposo o la sposa prima del matrimonio, bensì di un rapporto particolare con l’avvenimento stesso del matrimonio. L’amico dello sposo era colui che era direttamente coinvolto nel matrimonio; egli conduceva la sposa, poteva ricevere dallo sposo incarichi particolari in ordine all’organizzazione del cerimoniale.

       Giovanni dichiarandosi appunto «amico dello sposo», viene ad affermare che Gesù sta per celebrare le nozze. Come non pensare alle nozze di Cana? Il Vangelo di Giovanni è conosciuto come il vangelo dei «segni». Non è da interpretarsi come un segno, il fatto che Giovanni abbia riportato questa testimonianza del Battista, poco dopo le «nozze di Cana»? In quella circostanza Gesù dirà: «non è ancora giunta la mia ora»[21], l’ora delle nozze. Ciò non toglie a Giovanni di gioire per la «presenza dello Sposo», lui che è l’amico dello sposo, incaricato di preparargli la sposa (precursore). Che questo sposo sia Gesù è indiscutibile. Ed è altrettanto evidente che lo sposo sia lo «sposo-messia».

       A stretto rigore si potrebbe obiettare che nell’AT è Jawhé che si presenta come lo sposo di Israele. Il Messia invece è preannunciato come liberatore o come servo. Tuttavia nel NT Gesù fa proprio questo titolo e lo abbiamo sentito nella pericope di Matteo 9. E poi, fa pensare questa insistenza di Gesù nelle parabole a presentare il regno come un invito di nozze, come nel caso dell’attesa dello sposo da parte di dieci vergini[22]. In questa parabola sembra prefigurarsi già il secondo momento delle nozze: quando lo sposo introduce la sposa nella propria casa. E’ un anticipo della contemplazione finale del libro dell’Apocalisse: «E lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni...” Colui che attesta queste cose dice “Sì, verrò presto!” Amen»[23].

       La Sposa-Chiesa attende ormai con l’impazienza della fidanzata, dopo tanti anni di forzata attesa, di essere finalmente introdotta nella casa del suo sposo, per abitarvi definitivamente in un’intimità indicibile e sazia di amore.

Ma «chi possiede la sposa è lo Sposo»[24].

       E noi, per la fede, abbiamo conosciuto e creduto che Gesù è l’adempimento di ogni promessa del Padre al suo popolo. Gesù infatti si presenta come «il pastore buono» cioè lo stesso Iddio che viene a pascere il suo popolo come aveva promesso per mezzo del profeta Ezechiele: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare»[25]. La speranza futura di Israele riposa in questa promessa. Dio si coinvolge come un pastore e si fa carico della situazione di ogni singola pecora e di tutto il gregge.

       In questa prospettiva viene spontaneo ritenere che Gesù come Messia è l’adempimento anche di un’altra promessa fatta da Jawhé a Israele, per infondergli nuova speranza, ridargli la gioia e il senso del vivere. Mi riferisco alle affermazioni di Isaia:

       «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo.

       Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto, come gioisce lo sposo per la sposa così il tuo Dio gioirà per te»[26].

       Il Signore fa rinascere la speranza nel cuore di Israele annunciandole che non sarà lasciata più in balia del proprio destino e di quanti potrebbero approfittarne. Ma questa speranza è legata non ad una promessa generica di intervento divino ogni qualvolta Israele si trovasse nei guai, bensì ad una solidarietà fondata su un patto nuziale: «come un giovane sposa una donna...». Gesù risorto farà rinascere la speranza nei due discepoli di Emmaus spiegando loro in tutte le Scritture: «ciò che si riferiva a lui», cominciando da Mosè e da tutti i profeti[27]. Pertanto siamo autorizzati  a pensare che anche la pagina di Isaia si riferiva a Lui. Ed egli è «l’architetto» dell’uomo che diviene suo sposo. E’ il Dio-Amore, il Dio-Sposo in forma umana.

       Fino a Gesù l’amore umano fra marito e moglie era la parabola vivente per rivelare il rapporto di Dio con Israele. Con l’Incarnazione del Figlio di Dio, Gesù è la parabola vivente che rivela la verità di ogni rapporto d’amore nuziale fra marito e moglie. Infatti parliamo di validità per quanto riguarda il matrimonio-istituzione, mentre parliamo di verità quando ci riferiamo al matrimonio come intima comunità di amore.

       Per dare rilievo a questa presentazione di Gesù come «sposo» è di aiuto ripensare alla parabola del «buon Samaritano». Gesù è identificabile anche con il Samaritano. Ma nella parabola sponsale di Isaia, il Signore ci lascia intuire una speranza molto più forte e meravigliosa. Se avesse detto: «Sarò per te come il samaritano», ci avrebbe assicurato che trovandosi di passaggio nel momento di una disgrazia, si sarebbe fermato e avrebbe preso cura di noi. E se non passasse di lì? E poi il Samaritano è sì altruista, non esita a perdere tempo e denaro per l’uomo ferito, ma prosegue la sua strada, e le due storie personali non legano insieme. Il samaritano non dà all’altro dei diritti su di lui, non gioisce per la sua presenza, e tutto il suo essere è proteso altrove. Un marito non è un samaritano. Non si prende cura della moglie solo quando è ammalata o ferita, ma i suoi interessi non sono altrove. Egli lega la sua storia personale a quella della donna amata, con una promessa che le dà il diritto di pretendere il suo intervento, che le conferma la sua gioia quando lei è presente e... sta bene! Gesù dicendo di essere lo «sposo» intende dire di se stesso: io sono Colui che incarna la promessa fatta da Jawhé, pertanto sono il Messia. La speranza per il popolo non è legata semplicemente alla bontà «misericordiosa» del nostro Dio che ascolterà il grido di dolore della sua gente. La speranza è legata «al patto nuziale» che il Signore ha fatto col nuovo Israele e che ha suggellato con il suo sangue. Patto per una gioiosa presenza. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»[28]. Ma proprio per questo «patto», Gesù non vuole solo amore di gratitudine bensì «reciprocità d’amore», fedeltà. Noi gioiamo della sua presenza e Lui della nostra. E’ un dialogo d’amore quale il Cantico dei Cantici ci presenta. Anzi, sembra non mettere in contro che possano esserci momenti doloranti.

       «E voi mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa»: gioite con loro; siate fedeli a questo modo di amare perché l’avete promesso con un patto! E amatele anche con amore di tenero affetto, come un padre, come un fratello, come un amico, come una figlia. L’amore coniugale conosce tutte queste espressioni d’amore simultaneamente e in una continua successione di tempi e momenti.

       E’ segno di benedizione e di fedeltà al Signore che per le strade e per le piazze si incontrino coppie di sposi «in gioioso dialogo». Ed è altrettanto segno del castigo del Signore quando questa gioia verrà a mancare. Come evocare le dure parole di Baruc: «... farò cessare nelle città di Giuda e nelle vie di Gerusalemme il grido di gioia e di letizia, il canto dello sposo e della sposa e tutto il territorio diverrà un deserto»[29]. Mi ha colpito l’insistenza di questa minaccia. Quando non si udrà più il dialogo gioioso del popolo con il suo Dio, è venuto meno «il canto dello sposo e della sposa», cioè non ci fossero più «nozze», è segno che è venuto anche meno il dialogo gioioso dell’uomo con il suo Signore.

 

Ci fu uno sposalizio a Cana: fu invitato alle nozze anche Gesù

       Giovanni, «l’amico dello sposo» è venuto a preparare le «nozze dell’agnello». La sua sposa non è ancora pronta e per lo Sposo la «sua ora non è ancora giunta». Chiudete gli occhi e per brevi istanti rappresentatevi la festa di nozze:

       «Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho da fare con te, donna? Non è ancora giunta la mia ora»[30].

       I fidanzati quando sono invitati a nozze, anticipano con la fantasia il loro futuro matrimonio. La ragazza vede nella sposina se stessa, il ragazzo guarda allo sposo, al suo impaccio... Io immagino Gesù assorto in questo tipo di pensieri. I due sposini non possono non evocargli il Cantico dei Cantici, o la promessa del Signore annunciata dal profeta Isaia (sopra citata). Quella festa di nozze è figura anticipata delle sue nozze: non l’acqua deve essere cambiata in vino, ma il vino in sangue. Maria, la Madre sua è la Donna, la Chiesa. Come si risvegliasse bruscamente da un «sogno» drammatico, Gesù sembra vedere non la Madre ma la «sua sposa», la «cena pasquale», la croce e grida: «non è ancora giunta la mia ora». La sua festa di nozze comporta il passaggio per l’agonia dell’angoscia. La Madre non gli sta chiedendo un prodigio di favore per degli amici, gli sta chiedendo di manifestare con un segno la sua messianicità. Lui a Cana è il vero Sposo. Alcuni Padri e oggi alcuni esegeti spiegano il senso globale del testo giovanneo come un segno, un simbolo della nuova alleanza. Nel mistero delle nozze di Cana tutto consiste nella presenza di questo sposo che è nascosto o piuttosto comincia a manifestarsi.

       Perché la cristologia ha trascurato questo titolo messianico di Gesù? Se Gesù è lo sposo per eccellenza, e proprio perché è il Messia, allora dobbiamo riconoscere che la cristologia moderna ordinariamente ha trascurato questo titolo. Occorre invece fargli ritrovare tutto il suo significato.

 

La Chiesa: la sposa, già ma non... ancora!

       Il Cantico dei Cantici dell’Antica Alleanza ha nella nuova Alleanza il suo corrispondente nel libro dell’Apocalisse. Infatti nell’Apocalisse è particolarmente presente e sentita quella originale dimensione della persona umana che si realizza quando essa entra in un rapporto di amore vicendevole come quello di due sposi. Come nel Cantico anche in questo libro ispirato il rapporto di amore assurge a termine simbolico del rapporto fra il Cristo Sposo e la comunità-chiesa come sposa. Proprio perché assume come categoria l’amore coniugale, questo rapporto fra Cristo e i cristiani chiede con forza reciprocità, intersoggetività, collaborazione vicendevole già qui sulla terra (primo tempo del matrimonio) e poi compimento definitivo (secondo tempo del matrimonio ebraico) quando farà entrare la sposa nella casa del Padre, per abitare per sempre con lei.

       «A colui che ci sta amando e ci sciolse dai nostri peccati nel suo sangue e fece di noi regno e sacerdoti a Dio e Padre suo»[31].

       A colui che ci sta amando di un amore appassionato, geloso perché sponsale. Pertanto si rivolge alla chiesa volendo da lei una eguale appassionata risposta. Sentite alcune testimonianze.

       «All’Angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova ― quelli che si dicono apostoli e non lo sono ― e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome senza stancarti.

       Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima»[32].

       E’ innegabile che il bilancio di attività pastorale è riconosciuto positivo e lodato. Ma il dialogo non fa pensare ad una «verifica operativa» quanto un dialogo geloso e melanconico di due fidanzati: «Non mi ami più come prima!»; «Sì mi vuoi bene, ma non è più l’amore” quello di prima”, quando ero “il tuo primo amore”». Chi non risente in queste parole evocato il dialogo del profeta Osea? E che si tratta non soltanto di nostalgia di un innamorato che si rassegna a lasciar perdere lo si avverte dalle successive frasi: «Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima, altrimenti verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto»[33]. Solo uno sposo ha diritto di esprimere così la propria collera e la propria «gelosia». O tutto o niente, sembra dire il Signore. Basti pensare al messaggio alla chiesa Laodicea:

       «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo! Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché tu sei tiepido... sto per vomitarti dalla mia bocca»[34].

       L’amore coniugale non si accontenta di non essere formalmente tradito, non sopporta l’indifferenza, la mediocrità. Non è forse constatazione quotidiana che molte crisi coniugali attecchiscono e arrivano a rottura quando la fedeltà è presente senza un reciproco desiderio? Se l’intervento amoroso del Cristo fosse semplicemente quello altruista, da samaritano, non si comprenderebbe l’affermazione successiva:

       «Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo.

       Mostrati dunque zelante e ravvediti»[35].

       Dove il rimprovero non è tanto «il rinfacciare», ma il confutare un tale atteggiamento come incoerente per chi ama e quindi ingiusto: Tanto è vero che la parola italiana «zelante» è riconducibile nella sua radice a «gelosia», ossia uno che «ama appassionatamente» come avviene tra amanti.

       Ma come uno sposo, Cristo sembra temere la fragilità emotica della sposa, la sua permalosità; teme che poi fugga. Abbandona il tono brusco e fa balenare la possibilità di un momento di intimità:

       «Ecco, sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»[36].

       Nell’ascoltare queste parole, il mio pensiero va subito alla scena del Cantico, quando il diletto infila la mano nella maniglia della porta chiusa... e l’innamorata tarda ad aprire!

       Gli innamorati, i fidanzati, gli sposi conoscono bene questo parlare in codice amoroso; il valore simbolico e comunionale, «com-promettente», di un invito a cenare insieme nell’intimità. Riempie di commozione interiore pensare che il Signore abbia assunto fino in fondo la nostra natura umana, e parla anche nel suo Amore divino, il linguaggio dell’amore umano, perché abbiamo ad avvicinarci e lasciarci amare.

       Ma l’Apocalisse prosegue questa liturgia nuziale. Il primo tempo del matrimonio (quello del fidanzamento, quando lo sposo va nella casa della sposa e questa offre il prezzo della sua dote) sta per finire. E’ venuto lo sposo nella casa della umanità-sposa, ha pagato con il suo sangue il prezzo di questo sposalizio. Ora sta per compiersi il secondo momento. La celebrazione solenne delle nozze.

       «Alleluja. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino puro splendente.

       La veste di lino solo le opere giuste dei santi»[37].

       La promessa sposa sta per andare ad abitare definitivamente con lo sposo nella sua casa, dove non ci sarà più lutto, morte, dove ogni lacrima sarà tersa dai suoi occhi. Si è preparata da discepola con le «opere giuste», ha conosciuto l’infedeltà per il logoramento, l’incomunicabilità e la sterilità. Il suo amore l’ha fatta rivivere. «Vieni ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello»[38]. «Vidi la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo»[39].

       Già sposa, per diritto, ma non-ancora! Il grido dell’innamorata del Cantico:

       «Oh, se tu fossi mio fratello... Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; mi insegneresti l’arte dell’amore... La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia»[40],

       diventa il grido della Sposa, animata dallo stesso Spirito dell’Amore: «Vieni!»[41]. Portami finalmente nella tua casa, per sempre!

       «Colui che attesta queste cose dice: Sì, verro presto! Amen!»[42]. E’ lo stesso Spirito dell’Amore che si esprime nell’amore paterno-materno del Padre e nell’amore sponsale del Figlio.

       Quello stesso Spirito che abitando in noi ci fa gridare in quanto figli: «Abbà» e in quanto «chiesa-sposa»: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore».

 

Si dice Adamo ed Eva ma pensiamo a Gesù e alla Chiesa

       L’Adamo del libro della Genesi, inseparabile da Eva, non è pienamente comprensibile se non si vede in lui «la figura di colui che doveva venire»[43]. Afferma Martelet nella 5a tesi: «Adamo non è comprensibile senza Cristo, ma anche Cristo, a sua volta, non è comprensibile senza Adamo, vale a dire senza l’umanità intera. Di conseguenza la coniugalità che costituisce Adamo nella sua verità d’uomo, spetta anche a Cristo attraverso il quale viene realizzata, essendo stata ristabilita»[44].

       Nella predicazione dei Padri, le nozze di Adamo ed Eva sono figure di quelle di Cristo con la Chiesa. Ascoltate questo brano tratto dall’Omelia di Giacomo Sarug, Vescovo di Batna in Siria, morto nel 521. Il linguaggio è mistico ma ci introduce in questa visione:

       «Il Figlio di Dio e il mondo stanno faccia a faccia. Il Padre nascosto dall’eternità, ha fidanziato col suo figlio unigenito una vergine ed ha additato fin dall’inizio del mondo con immagini profetiche il futuro giorno della festa. Egli ha edificato una casa di bellezza principesca per la sposa della luce. E le gaie stanze sono ornate con immagini dello Sposo. L’esperto artista è stato Mosè. Egli ha raffigurato la sposa e lo sposo, però ha coperto il quadro con un velo che lo avvolgeva. Egli infatti annota: “L’uomo lascerà il padre e la madre per aderire totalmente alla donna in un unico amore”. Cerca di comprendere in modo profetico queste parole. Mosè parla soltanto della donna e dell’uomo, però egli intende la Chiesa e Cristo.

       Ma la parola è rimasta oscura in quanto non c’era nessuno che interpretasse il quadro. Solo dopo lo sposalizio è venuto Paolo il quale ha tolto il velo che ricopriva la bellezza, spiegando al mondo intero quest’immagine, indicata dallo spirito profetico...

       Ora il velo sul volto di Mosè è scomparso. Venite tutti a vedere questo splendore che non ci possiamo stancare di ammirare! Gli invitati gioiscano, vedendo la bellezza dello sposo e della sposa. Egli si dette a lei, si abbandonò e a colei che si trovava nell’indigenza e ne fece suo possesso. Unita a lui, ella partecipa delle sua gioia. Per esaltarla, egli si abbassò al suo umile livello perché essi sono una cosa sola: dov’è lui è anche lei.

       Il fidanzato ha condotto la Figlia della luce in un nuovo seno materno; l’acqua del battesimo l’ha concepita e partorita. Egli si trova nell’acqua e la chiama a sé; ella discende, lo attrae, esce dall’acqua e lo riceve... Grazie all’acqua si annoda tra lo sposo e la sposa un legame di purezza e di santità: essi diventano una cosa sola nella unità dello Spirito Santo per mezzo del battesimo. Le donne non sono strettamente legate ai loro mariti quanto lo sono la Chiesa e il Figlio di Dio. Quale Sposo all’infuori del Signore nostro è mai morto per la sua sposa? E quale sposa ha mai scelto per sposo un crocifisso? O chi ha mai dato il suo sangue come dono alla sua sposa, se non colui che è morto in croce e che sigillò con le sue ferite l’unione nuziale?... La morte separa le spose dai loro mariti, qui invece è la morte che unisce la Sposa al suo Amato... Morto lo Sposo sulla croce, ella non andò a cercarne un altro, ma amò la sua morte perché sapeva che grazie a quella morte aveva ricevuto la vita»[45].

       L’annuncio dei Padri ci offre la speranza che quella coniugalità che è stata distrutta per un’infedeltà all’amore e ha costituito l’uomo nello stato di «durezza di cuore» ― davanti alla quale anche Mosè ha dovuto arrendersi ― essa può ritrovare in Cristo l’iniziale verità e dignità.

       Nel suo potere di amare senza limiti e di realizzare con la sua vita, morte e risurrezione, un’unione senza pari con l’umanità intera, Gesù ritrova il vero significato della parola della Genesi: «quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi»[46]. Per lui, d’ora in poi, l’uomo e la donna possono amarsi nel modo che Dio da sempre vuole che facciano, poiché in Gesù si manifesta la stessa sorgente dell’amore che è il fondamento del Regno. Così il Cristo riconduce tutte le coppie del mondo alla purezza iniziale dell’amore promesso: abolisce la prescrizione che aveva creduto di dover ratificare la propria miseria, non potendo eliminarne la causa».

       Il modo di essere Sposo di Gesù ci porta ad un umanesimo coniugale. Infatti la sponsalità come la vive Gesù è una relazione d’amore tra persone che si danno e si accolgono nella totalità del loro essere, come una realtà resa definitiva da un patto di alleanza. E questa concezione aiuta a superare sia una concezione ambigua dell’amore, ossia di una sua spiritualizzazione che annullerebbe il valore del corpo; sia del narcisismo erotico che non permette alla coppia di percepire che l’amore costruisce una storia che salva l’altro. Si tratta di realizzare se stessi come partner, accogliendo l’altro come nostra parte integrante, come condizione per stabilire una comunione intima d’amore. La via coniugale dell’amore diventa comprensibile allora, se messa accanto all’altra via, assolutamente personale, di accesso al Regno: la via verginale, scelta per il regno. Non si danno due amori, quello divino e quello umano, ma solo due aspetti dello stesso amore. Pertanto affermare che amore sponsale e amore verginale sono due volti dell’unico amore di Gesù Cristo.

       Si è sposi per appartenere unicamente nell’amore coniugale al Signore (castità), per essere diretti dal Signore (obbedienza) e per fare affidamento solo nel signore (povertà). Così prendiamo atto che i consigli evangelici sono vivibili anche nello stato di vita coniugale. La piena comprensione della vita coniugale aiuta la piena comprensione dello stato di vita verginale e viceversa. Un amore che si fa storia quotidiana e definitiva nel prendersi a cuore una persona per salvarla; un amore che tenta di farsi tutto a tutti. L’amore coniugale da Cristo impara a coinvolgersi totalmente nella salvezza dell’altro, lasciandosi espropriare; dai vergini è richiamato a no rinchiudersi in un egoismo a due. L’amore verginale impara da Cristo a coinvolgersi nella salvezza del mondo, lasciandosi espro­priare; dagli sposati è richiamato a non scambiare amore in episodici atti di altruismo.

       L’amore divino è partecipato all’uomo ma con modalità diverse. Cristo è lo Sposo per eccellenza, vero Uomo ma anche vero Dio. Abbiamo allora esigenza di cogliere alcune modalità diverse che ha l’uomo nell’attuare la capacità d’amore che Dio gli ha partecipato infondendogli il suo Spirito.

 

Dio è amore: ma come ama?

       Prendo a prestito le nostre parole umane per tentare di descrivere questo amore divino, o più precisamente di mettere a fuoco alcuni caratteri essenziali più facilmente confrontabili con l’esperienza dell’amore fra gli uomini.

       Anzitutto se Dio «è Amore», vuol dire che «ama qualcuno», «è amante», esiste in una realtà d’amore in «un ambiente d’amore», in eterna relazione d’amore. Non è pertanto un Essere solitario, «non è solitudine ma comunione». Dio è Amore a partire proprio dalla sua vita trinitaria: intima pure  umilmente: siamo tutti, poco o molto, handicappati nella capacità di esprimere l’amore che ci portiamo dentro.

       Intorno a quattro parole-chiave fermerei la nostra riflessione. Queste sono unità, fecondità, totalità, esaustività.

       All’uomo Dio ha «partecipato» questa sua perfezione d’amore così che l’uomo può dire di possedere in sé questa «energia d’amore». Ma questo avviene in modo limitato da creatura e con modalità diverse, che pur nella sinteticità tento di illustrare.

       In Dio l’amore è UNO, cioè UNIFICANTE. E’ già in partenza UNA COSA SOLA: IL PADRE, IL FIGLIO E LO SPIRITO SANTO. L’uomo e la donna che si amano sono chiamati a DIVENIRE faticosamente una cosa sola a partire dalla diversità, dalla diffidenza e dalla concupiscenza. Sì anche noi parliamo di unità del matrimonio. Ci riferiamo ad «una sola donna», ad«un solo uomo» come modello monogamico. Il passaggio cristologico ― «mariti amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa» ― comporta non solo «avere una sola moglie» (questo è anche per i pagani) quanto essere una cosa sola con la moglie. E’ l’impegno di comunione, difficile per l’uomo che arriva all’amore attraverso la stagione del bisogno di possesso e stadi molto complessi. Un amore unificante può essere possibile solo a chi è abitato dallo Spirito del Signore. Essere sposi nel Signore, oggi, è dare testimonianza di questa capacità di comunione fino alla profondità del proprio essere.

       Seconda parola: fecondità. Dio è Amore fecondo. L’amore di Cristo è generante la vita. Dio amando comunica la vita all’altro. Il suo amore fa risuscitare anche chi è morto. La nostra passione umana di amore può far morire chi è vivo. La fecondità è iscritta nella corporeità e dalla corporeità riceve una qualifica particolare. E’ fecondità che è segnata dalla «morte»: conosce la sterilità, il travaglio del partorire, perfino la paura di convivere con la propria fecondità. Il valore e la ricchezza della propria fertilità e fecondità viene addirittura considerato un ostacolo alla realizzazione piena dell’amore. Basti pensare a quanto sia tormentata oggi la vita sponsale dei cristiani, proprio nel riconciliare sessualità, amore e apertura alla vita.

       Terza parola: totalità. L’amore di Cristo come quello di Dio è un amore totale. Il Padre dona al Figlio tutto se stesso, tutto quello che Egli è, al punto che nulla c’è nel Padre che non sia presente anche nel Figlio e viceversa. Annunciare la fedeltà di Dio, il suo amore fedele, è annunciare questo loro donarsi e accogliersi totalmente.

       Anche fra l’uomo e la donna sposati parliamo di fedeltà. E normalmente viene intesa al negativo: non tradire fisicamente e sentimentalmente il coniuge. In Dio fedeltà è equivalente a dedizione totale all’altro, per tutto ciò che siamo e per tutto quello che l’altro è. Al tempo stesso è anche accoglienza dell’altro. Ma il nostro amore umano è molto complesso. E’ un continuo divenire, articolato e ramificato in tanti rivoli. Pensiamo all’amore da marito e moglie; all’amore da padri e madri; all’amore da fogli e/o da fratelli; all’amore da amici. Essere fedeli a tutti e a ciascuno comporterebbe per noi donarci nella totalità del nostro essere a tutti e a ciascuno secondo le loro esigenze. La stessa modalità della sessualità non lo permette. Intuiamo che a questo punto si situa l’intuizione della verginità come amore totale e tuttavia aperto a molti (nell’eroicità a tutti!).

       Quarta parola: esaustività o definitività. Dio ama di un amore unificante, totale, fecondo, perfetto, senza limiti di tempo; il suo possesso completo e immutabile. E’ solidarietà radicale con l’amato che ha carattere della definitività, dell’eternità, dell’assoluto.

       O quanto invece è relativo, provvisorio, sempre incompiuto e bisognoso di compiutezza il nostro amore umano, sia di un uomo verso la sua donna, sia fra amici. Avvertiamo l’esigenza di un amore assoluto, definitivo, completo, ma l’avvertiamo come l’esigenza irrealizzabile. Infatti siamo portati a vivere la vita come un bisogno di amore, sebbene diveniamo presto consapevoli che il bisogno di amore non esaurisce la vita di un uomo e di una donna. Anzi ciascuno di noi ha sperimentato nella propria pelle che ogni qual volta ha conosciuto la più piccola e povera esperienza di amore, proprio da quella gli è nata dentro la fame di essere amato ancor di più. E ogni uomo e donna dal momento che ha cominciato ad amare l’altro come la propria carne, ha scoperto che la potenzialità della propria capacità d’amare non può esaurirsi nella persona dell’altro. Vorrebbe andare oltre... forse aprendosi ad altre persone, cercando altre sorgenti d’amore. Solo quando scopriremo che questo bisogno di assoluto in amore, di fame di sete d’amore può colmarsi solo in Gesù, lo Sposo per eccellenza, capiremo anche che l’espressione dell’amore umano è limitante e al tempo stesso trascendente. Cominciamo ad amare sotto il segno del peccato, impariamo ad amare sotto il segno della Misericordia. Vivremo l’amore in pienezza quando lo Spirito griderà in noi, come la vergine del Cantico: «Mi baci con i baci della sua bocca!... Mettimi come sigillo sul tuo cuore... perché come la morte è l’amore»[47].


[1]     AA.VV., Il mistero del Padre. Atti del II Convegno Inter., Ed. «l’A.M.», Collevalenza (PG), 1983

[2]     I Gv 4,7b.

[3]     At 18,1-3; 18,24-26.

[4]     E nasconderei una parte di verità, se tacessi anche del dialogo avuto, tramite i loro scritti con altri fratelli di fede che hanno interrogato in questa prospettiva le Scritture. Mi è stato di aiuto Antonio Sicari col suo libro «Matrimonio e verginità nella Rivelazione»(Jaca Book, Milano 1978), scoprendomi la ‘gelosia di Dio’ . Germano Pattaro, il teologo ecumenico che è stato il maestro di quanti in questi ultimi anni si sono addentrati nella teologia del matrimonio e che dopo tanti anni di sofferenza lo Sposo ha chiamato ad entrare nella sua gioia. Di lui ricordo il libro «Gli sposi servi del Signore» (Dehoniane, Bologna 1979). Un aiuto grande l’ho avuto da Enzo Bianchi Barzotti, Mannucci, Ravasi e altri commentatori recenti del Cantico dei Cantici. Aggiungo anche i contributi preziosi contenuti nei quaderni di «Parola Spirito Vita» (edb-Bologna) sulla Verginità (n.12) e Lo sposo e la sposa (n.13) per rivisitare alcune difficili e al tempo stesso suggestive pagine bibliche e patristiche.

[5]     I Cor. 3,11.

[6]     I Gv. 3,16.

[7]     I Cor 2,2

[8]     Don G. FREGNI, Il matrimonio e il mistero di Cristo, Centro di documentazione e promozione familiare «G.P. DORE» Bologna, p. 48.

[9]     Documento base del progetto catechistico della CEI, 1970.

[10]    Don G. FREGNI, Il matrimonio e il mistero di Cristo, Centro di documentazione e promozione familiare «G.P.DORE», Bologna, p.48

[11]    GIOVANNI PAOLO II, Ai Vescovi dell’Emilia Romagna in visita «ad limina», 2 maggio 1986, in ‘La Traccia’ n.5, giugno 1986.

[12]    Ef 5,25.

[13]    I Gv. 4,7.

[14]    Ef 5,25.

[15]    Eb 11.

[16]    Don G. FREGNI, Il matrimonio e il mistero di Cristo, Centro di documentazione e promozione familiare, «G.P.DORE», Bologna, p.25.

[17]    Mt 9,14-15.

[18]    Mt 22,2-3.

[19]    Gv 3,25-30.

[20]    Mt 1,18.

[21]    Gv 2,4

[22]    Mt 25,1-13.

[23]    Ap 22,17-20.

[24]    Gv 3,29.

[25]    Ez 34,15.

[26]    Is 62,4-5.

[27]    Cfr. Lc 24,25.

[28]    Mt 28,20.

[29]    Ct 2,23; cfr. Ger 7,34; 16,9; 25,10; Ap 18,23.

[30]    Gv 2,1-4.

[31]    Ap 1,4.

[32]    Ap 2,1.2-4.

[33]    Ap 2,5.

[34]    Ap 3,15-16.

[35]    Ap 3,19.

[36]    Ap 3,20.

[37]    Ap 19,6-8.

[38]    Ap 21,9.

[39]    Ap 21,2.

[40]    Ct 8,1-3.

[41]    Ap 22,17.

[42]    Ap 22,20.

[43]    Rm 5,14.

[44]    Don G. FREGNI, Il matrimonio e il mistero di Cristo, Centro di documentazione e promozione familiare «G.P. DORE», Bologna, pp.35-36.

[45]    Ibidem p.33.

[46]    Mt 19,6.

[47]    Ct 1,1; 8,6.