Domenico Cancian

smarrimento della famiglia, povertà dell’amore?

 

          Il presente libro ha voluto avvicinare con rispettosa attenzione la famiglia degli uomini, oggi, per vedere come vive e offrirle un modesto contributo che può essere inteso come uno strumento per coloro che vivono e operano per essa.

          Sperando di non essere troppo riduttivo, né soggettivo, mi pare che dagli studi fatti emergano le seguenti indicazioni:

 

1.       Analisi e suo significato

          L’indagine sulla famiglia oggi, sul suo status rispetto al passato e alla sua proget­tualità nel futuro, ha messo in evidenza ricchezze e povertà.

 

1.1     Tra le ricchezze riscontriamo: rapporti più liberi e quindi potenzialmente più autentici; trasformazioni economico-sociali che per certi versi migliorano la situazione di vita; maggior attenzione educativa ― almeno in generale ― riscoperta faticosa di valori rivisitati (dialogo, stima, fiducia, pazienza, tolleranza); coraggio (non sempre) nell’af­frontare situazioni difficili; tentativo di superare paure, frette, individualismi; impegno per un nuovo umanesimo già alle porte, per cui ricordi buoni, sentimenti solidi, desideri coraggiosi si possano condensare in una nuova dignità del vivere, umanesimo che si apre all’impostazione cristiana della vita familiare sul modello trascendente della Famiglia di Dio e dei suoi figli. In questo modo scienze umane ― mai assolutizzate ― e spiritualità cristiana possono e debbono coniugarsi armonicamente: i valori evangelici ne divengono l’anima e il fondamento.

 

1.2     Questa prospettiva positiva non vuol nascondere le reali, dure difficoltà. Costituite dalla strutturale fragilità del matrimonio moderno in crisi di fedeltà (vedi le impres­sionanti statistiche delle separazioni e divorzi) fino a porre seri punti interrogativi: la fedeltà all’amore in libertà e responsabilità è o no reale possibilità, una capacità dell’uomo d’oggi? A quali condizioni? Come ci si prepara a ‘vivere nell’amore’? Altra serie di interrogativi: se la famiglia si ispira al modello del ‘figlio unico’, all’espulsione di fatto degli anziani, all’evasione televisiva, al ripiegamento privatistico, le relazioni di che qualità sono? E per i figli è possibile un’esperienza di fraternità?

          Ed infine l’interrogativo più inquietante: ma non sarà che facciamo proprio una gran confusione a proposito di ‘amore’?

          Un ‘amore parolaio’ che in realtà è ricerca della gratificazione personale invece dell’apertura al servizio, fattivo, umile, meno enfatico ma più vero. Ad esempio: che significato ha il figlio, oggi, se da una parte lo si rifiuta (crescita zero) e dall’altra lo si vuole ad ogni costo e secondo certe caratteristiche (biogenetica)? C’è proprio un diritto ‘onnipotente’ al figlio, a quel figlio, tutto programmato? Più a monte: non vi è forse un esasperato diritto alla propria felicità alla quale si strumentalizzerebbero anche i figli, il partner, gli altri?

          Questo atteggiamento dell’uomo lo possiamo ben chiamare narcisismo. Vale la pena soffermarsi un momento per descrivere la personalità narcisista.

          «...Con la parola narcisismo intendo indicare l’attuale individualismo sganciato dai valori sociali e morali che nel XIX secolo erano ancora dominanti, libero da ogni inquadramento trascendentale, immerso nel mito di una autonomia radicale e la persona sprofondata in un mondo che è stato volutamente ridotto alla sola sfera della vita privata»[1].

          Ecco il volto di un individuo del tutto nuovo, inedito che caratterizza oggi la civiltà occidentale. Come si è arrivato a questo punto? L’uomo narcisista è il risultato di una libertà che rompe ogni legame con la finitezza della verità. Senza alcun legame tra libertà e limite, tra libertà e verità»[2].

          Basti pensare alla ricerca esasperata della propria felicità nel rapporto col figlio e col partner: alla fine si arriva al disprezzo dell’altro, usato, strumentalizzato secondo la logica del consumo «usa e getta». tale antropologia porta al rifiuto di ogni limite e regola, alla rivolta selvaggia contro l’istituzione, ritenuta causa di ogni male, porta ad accarezzare l’ipotesi di una società a carattere unicamente permissivo-edonistico senza padri e madri, senza modelli e senza tradizioni.

          L’uomo si immerge nel regno dell’effimero e si smarrisce in un oceano di possibilità mai approfondite in una scelta definitiva. E così, staccato da ogni trascendenza e da ogni riferimento alla storia, alla tradizione, all’impegno educativo, fa tutto da se stesso per soddisfare se stesso, ricostruendosi un mondo di onnipotenza infantile: avere tutto e subito, salvo poi ad avvertire il panico dinanzi agli inevitabili contrattempi e sofferenze della vita, dinanzi alle quali si trova impreparato. Proprio qui si radica la strutturale fragilità dinanzi agli impegni presi, si inventano delle presunte giustificazioni e si cambia.

          Ci si rifiuta di imparare un linguaggio vero preferendo ripetere slogans; si arriva così alla solitudine esistenziale e allo stato di incomunicabilità, espresso in modo caratteristico dall’«uomo che passeggia con le orecchie tappate in una solitudine annegata, sommersa dal rumore»[3].

 

1.3     Se così fosse, non solo l’etica cristiana, ma la semplice legge di natura ci condan­nerebbe paradossalmente all’infelicità, di cui la noia esistenziale, l’apatia o pigrizia, il nervosismo e i cosiddetti «esaurimenti» dal carattere psicosomatico, sarebbero un segno inequivoco sotto gli occhi di tutti. Si tratta dell’impossibilità di oltrepassare alcune elementari regole dell’«ecologia» della felicità umana per cui non possiamo mai negare il limite creaturale. Abbiamo qui una riprova in negativo della beatitudine evangelica: beati coloro che investono tutte le loro risorse in una prospettiva di reale oblatività, di gratuità e di dono: troveranno se stessi, la pace, il Regno. I santi sono gli uomini e le donne che hanno documentato con la loro vita la verità di questa «legge-beatitudine» del coman­damento nuovo dell’amore[4]. Il Vaticano II la rende così: «L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso il dono sincero di se»[5]. E’ la logica pasquale della morte e risurrezione che da una parte è un dono gratuito dell’Amore di Dio in Cristo (il dono dello Spirito effuso nei nostri cuori)[6], dall’altra è progressiva capacità di «rinnegamento di se»[7], ossia del rinnegamento di quell’egocentrismo che è alla base della logica dell’apparente felicità: logica dell’interesse, del profitto, del pregiudizio, del proprio comodo, del potere.

          E’ chiaro che qui si discriminano due diverse e perfino opposte antropologie: quella della immediata e soggettiva autorealizzazione e quella del dono di sé. Qui si impone una scelta dalle conseguenze davvero decisive. Gli ideali della pace, della giustizia, della libertà e dell’amore sono diversamente serviti a seconda della impostazione antropologica che si fonda su una qualità ben precisa dell’amore: quello autotrascendente.

 

1.4     La questione femminile ha registrato in questi ultimi decenni una contestazione ― a volte violenta in certi movimenti neo-femministi ― del potere del maschio. In tanti casi ne ha fatto le spese la famiglia (vedi l’aborto e divorzio invocati come liberazione della donna). Ora sembra più chiara l’urgenza di rifondare la famiglia superando sia il modello maschilista che quello femminista, tessendo insieme, uomo e donna, nell’eguaglianza della pari dignità e nella diversità complementare dell’essere umano i valori della vita e dell’amore. Dovrebbe nascere una genuina e ricca tensione tra maschile e femminile, sulla base di sentimenti genuini, ideali condivisi, servizio reciproco in ruoli non rigidi... tutte espressioni di un amore maturo, oblativo e costruttivo, che dalla sponsalità matura si allarga alla maternità e paternità. Dall’esperienza comunionale del matrimonio ci si apre quindi ai bisogni della chiesa e degli uomini. La violenza, la rivendicazione esasperata del proprio diritto alla felicità, maschilismo e femminismo che siano, rinviano alla divisione conseguente al primo peccato: proprio lì Adamo ed Eva cominciarono ad accusarsi reciprocamente, non certo per amore e per cercare verità. La categoria del peccato non è quindi così incomprensibile: è ribellione al limite creaturale (disobbedienza); è divisione e rottura con Dio, l’altro e con se stessi; è disarmonia, fuga vergognosa dopo il momento dell’esaltazione delirante. La redenzione o liberazione evangelica della famiglia comincia con il riconoscimento sincero del proprio limite e peccato, con l’invocazione della benedizione divina e della riconciliazione, con l’impegno responsabile a vivere questo tipo di Amore che rifà l’unione, l’armonia, la pace.

 

1.5     Le conseguenze di questo excursus sullo status della famiglia possono così rias­sumersi:

―       se è vero che le luci e le ombre della vita familiare si riconducono alla ricchezza o povertà dell’amore, rifondare la famiglia vuol dire mettere alla sua base l’amore autentico e quindi è decisiva l’educazione all’amore.

―       Ciò suppone una disponibilità a trovare, attraverso la riflessione illuminata della fede, una corretta impostazione antropologica (umana, filosofica, teologica) capace di offrire una completa visione dell’uomo senza riduzioni né spiritualistiche, né mate­rialistiche, né psichiche.

          Disponibilità a riflettere e a cambiare eventuali atteggiamenti che possono essere pregiudizi di comodo, magari di tipo narcisistico o comunque ideologico. I miti e gli slogans sono pericolosi.

―       Ridisegnare alla luce di questa antropologia un’etica generale e particolare dell’amo­re coniugale che, superando utilitarismo ed edonismo, assicuri rapporti veri tra le persone. Etica umana e cristiana dovrebbero convergere.

―       L’etica dell’amore non è una teoria e nemmeno un istinto naturale: è un’arte che s’impara man mano che si ha voglia di mettere in atto i gesti concreti dell’amore-servizio, le virtù umane e cristiane, coltivate in modo permanente, senza le quali l’amore cade alla prima difficoltà[8]. E’ una scuola, un apprendistato lento e faticoso, ma anche bello. Certo, non ci sono sconti per nessuno.

―       Occorre non trascurare l’analisi delle situazioni politiche e sociali perché anche queste hanno la loro rilevanza in ordine al sostegno della famiglia. Particolare attenzione merita la legislazione che concerne la famiglia e le opinioni diffuse dai media. Vi è una domanda urgente - anche se non esplicita talvolta - di strutture più ispirate ai valori e di comunicazione che mirino a suscitare e sostenere l’amore auto-trascendente.

 

2.       La Parola di Dio, la Chiesa, la famiglia

2.1     La chiesa è Famiglia di Dio perché Dio è il Padre, Cristo è lo Sposo.

          E’ questa una delle affermazioni fondamentali dal punto di vista teologico. Il Padre è ancora all’opera della nostra generazione e formazione, ispirate a cure... paterne e materne.

          Cristo, lo Sposo, sta continuamente invitando la Chiesa alle nozze con Lui; Cristo sta preparandosi e abbellendosi la Chiesa con la sua definitiva sposa. L’Amore paterno e materno di Dio diviene amore verginale e sponsale nel rapporto Cristo-Chiesa: per questo ci è stato donato lo Spirito del Padre e del Figlio. L’Amore Misericordioso di Dio acquista la caratteristica della gelosia, perché in Cristo si rivela perdutamente innamorato dell’uomo e quindi non può sopportare altri dei, altri amori.

          Interrogando la Parola di Dio ci incontriamo con il Cristo che si offre a noi quale Sposo. Ce lo dicono i profeti[9] fino al Battista[10], fino a Paolo[11]. «Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo»[12]. Ce lo dice Gesù stesso quando ci parla del regno come delle nozze del Figlio del Re: venite al banchetto![13]. Ce lo ha detto parlandoci della sua accoglienza fino a servirci lui stesso il vino nuovo[14] e quindi noi attendiamo la sua venuta come le vergini pronte ad andargli incontro con la lampada accesa.

          Cristo è la Chiesa: un grande mistero di Amore che conosce le fasi della chiamata seducente, dell’incontro esaltante, dell’innamoramento totale, del matrimonio definitivo. Come in Ez 16 che descrive la storia tra Jahvè e il suo popolo, una storia d’amore stupendo, impensabile, in cui è soprattutto Lui che «perde la testa». Un Amore, ricco di grazia e di bellezza, tenerezza e di perdono invincibile[15].

          La Chiesa vive nella gioia riconoscente di questo Amore e si fa educare dalle parole ammonitrici dell’Apocalisse: «Io sono geloso, ti rimprovero, stai abbandonando l’amore di prima, stai diventando indifferente»[16], per essere pronta a raccogliere l’atteso invito: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui egli con me»[17]. «Sono giunte le nozze dell’Agnello»[18]. Si prepara invocando lei stessa: Maranà tha, ossi: Vieni, Signore![19].

          Tra Cristo e la Chiesa si celebra così il Cantico d’Amore che esprime il desiderio di Lui e di Lei di diventare una «cosa sola», un sogno scritto con la creazione dell’uomo e della donna ed invocato da Gesù nella sua ultima preghiera: Padre, dona loro l’Amore col quale mi hai amato, perché «come Tu, Padre sei in me e io in Te, siano anch’essi in noi una cosa sola»[20].

          Questo libretto che s’intitola “Cantico dei Cantici” è un:

          «poemetto di sole 1250 parole, tempestato di simboli, percorso dalla gioia dell’amore che trasforma in primavera anche l’arido e assolato panorama palestinese. Al centro di questo giardino simbolico ci sono Lui e Lei, l’uomo e la donna, accompagnati qua e là da un Coro: essi rappresentano l’eterna coppia che appare sulla faccia della terra, avvolta nella tenerezza e nella potenza dell’Amore. Perché “forte come la Morte e l’Amore” (8,6)»[21].

          Gesù si è fatto eunuco per fecondare e far vivere l’umanità del suo Amore, per essere lo Sposo di coloro che vogliono far parte del suo popolo, nel quale si compiacerà come il Padre si compiace del Figlio.

          «Ti farò la mia sposa per sempre... ti fidanzerò con me nella fedeltà»[22].

          L’amore sponsale del Cristo illumina la relazione umana sia nella vocazione dell’ordine sacerdotale, sia nella vocazione di consacrazione, sia nella vocazione del laico cristiano sposato e non. Infatti l’unità nella trinità delle Persone divine indica che anche l’amore umano non può essere né fusione, ne tanto meno contratto o generico ‘stare insieme’ - magari a termine - né uno spiritualismo senza attrazione e senza desideri. E’ piuttosto unità nella dualità e pluralità delle persone, avvolte da un mistero di comunione, non facile, ma certo denso. Non facile perché nessuno è «possesso egoistico» dell’altro, oggetto di dominio, di uso, di richiesta affettiva: é una comunione di persone che hanno delle identità differenziate e pur formano «una sola cosa».

          Il poeta G. Gibran Kahlil, così esprime questo mistero riferito alla coppia:

          «Amatevi l’una l’altra, ma non fatene una prigionia d’amore:

          lasciate piuttosto che il mare si muova

          fra le sponde delle vostre anime...

          Cantate e danzate insieme e siate felici, ma lasciate

          che ciascuno di voi sia solo,

          come sole sono le corde dell’arpa,

          sebbene vibrino della stessa musica...

          E state vicini ma non troppo vicini:

          infatti le colonne del tempio si ergono separate,

          e la quercia e il cipresso non crescono

          l’una sotto l’ombra dell’altro»[23].

          E riferendosi al rapporto genitori-figli, scrive:

          «I tuoi figli non sono figli tuoi,

          sono i figli e i fratelli della Vita

          che appartiene a se stessa.

          Essi vengono attraverso di te ma non da te,

          e benché stiano con te non ti appartengono.

          Tu puoi trasmettere loro il tuo amore

          ma non i tuoi progetti, poiché essi hanno i loro progetti»[24].

          La sponsalità con Cristo ci educa in questa difficile e bella comunione di persone invitate alla casa del Padre, addirittura ‘nel suo seno’, lì da dove siamo provenuti ad immagine del Figlio Benedetto. Lì saremo tutti figli suoi, fratelli e amici, senza più divisione e sofferenza, in un Festa Piena.

          Questa promessa è già compiuta perfettamente in Maria, una nostra sorella, sposa e madre di Dio, madre nostra. In lei la Chiesa-sposa è bellissima, uno splendore di grazia. Noi in lei siamo già accanto allo Sposo nel Banchetto di nozze del Regno.

 

2.2     Questa nostra Chiesa «già prefigurata sin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza e stabilita negli ultimi tempi, è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli»[25].

          Questa chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che Egli venga»[26].

          E questa chiesa, grande e povera, bella e con qualche macchia, è proprio un mistero: è partner di Cristo e quindi esemplare riferimento per il matrimonio e per la famiglia umana.

          Nel presente volume è stato evidenziato il cammino ecclesiale di questi ultimi venti anni in merito alla Pastorale Familiare Postconciliare. Un cammino che ha trovato nel Vaticano II e nella Familiaris consortio, più volte citati, indicazioni ispirate. C’è bisogno di rimboccarsi le maniche con umiltà e coraggio, mettendo fuori quanto di meglio possiamo, operando soprattutto in direzione di una terapia dell’amore, che vuol dire rivitalizzare il cuore della famiglia. E l’equivalente cristiano del «caldo focolare domestico» è la «chiesa domestica», l’espressione forse più significativa del Concilio sulla famiglia. La famiglia è chiesa, santuario di Dio, luogo in cui Lui abita. Qui si fonda teologicamente la spiritualità familiare.

          La famiglia cristiana è la casa costruita sulla roccia[27], il tabernacolo, la dimora viva in cui per la fede convive Gesù stesso insieme agli sposi e ai figli. Viene ospitato Colui che poi ospiterà tutti nella sua casa. Ed anche qui si capisce il nesso: perché Dio è comunione di Amore di cui la famiglia ne è l’immagine. «A immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò»[28]. La roccia che dà stabilità a questa casa è proprio la Presenza del Dio-Amore.

 

3. La famiglia stile «amore misericordioso»

          La fondazione teologica della famiglia come «santuario domestico» del Dio Amore comporta una spiritualità «stile amore misericordioso».

 

3.1     Vuol dire una progressiva assimilazione all’interno di quelle mura, e soprattutto dei cuori, dell’Amore di Dio che purifica ed eleva l’amore umano, così che «gli angeli possano scivolare di nascosto tra di noi»[29].

          Stile «amore misericordioso», secondo il pensiero e l’esperienza di Madre Speranza, vuol dire amore appassionatamente fedele, capace cioè di crescere e maturare sempre di più per donarsi di più. Ciò che da una parte richiede il sacrificio e dall’altra la misericordia più ancora del sacrificio[30].

          Ciò avviene attraverso la preghiera e la riconciliazione, l’esercizio quotidiano della capacità di perdono e di donazione, affinando i rapporti nelle virtù quotidiane come l’attenzione, il rispetto, la pazienza... Un itinerario ― è stato detto ― di contemplazione e di incarnazione che porti a quella comunione che è segno sacramentale per il mondo[31], chiamato anch’esso alla pace e all’unità di una sola famiglia aperta cordialmente a tutti gli uomini.

          Il Padre delle misericordie e Gesù lo Sposo possono ridare l’anima dell’amore vero alla famiglia, farle scoprire e vivere la vocazione all’amore fino a penetrarne le pieghe più intime delle debolezze e degli sforzi umani.

          E’ la famiglia in stato di perenne con-versione all’amore e alla misericordia nella piena consapevolezza che Lui, il Signore è proprio lì, per renderci capaci di dialogo con Dio e di servizio agli uomini, capaci di rispondere alla santità e di santificare, ricapitolando tutto nell’Amore.

 

3.2     Quell’amore celebrato nel Cantico dei Cantici e nell’inno di Paolo[32]: amore umano e mistico, gioioso e sofferto più forte della morte.

          Un amore che può essere qualificato con alcuni aggettivi: concreto e non parolaio, gratuito come l’acqua di sorgente, delicato, attento, pulito e casto, tenero... un amore che tocca il corpo, il cuore e lo spirito in direzione dell’Amato: «Il mio amato è mio e io sono sua»[33].

          Un amore fragile il nostro, come quello dei due discepoli di Emmaus che se ne stavano tornando alle loro case delusi e amareggiati per la morte del maestro. Gesù in persona si fece vicino e camminava con i loro passi, «ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo»[34]. Con pazienza egli spiegava loro le Scritture, manifestava se stesso, il suo Amore che l’aveva condotto alla croce. Allora lo invitarono a rimanere con loro e lì, a tavola, nel gesto di dare loro il suo pane come lo dà il padre, l’amico, lo sposo, «si aprirono i loro occhi e lo riconobbero»[35].


[1]        L. MOULIN, in Secolarizzazione ed evangelizzazione oggi in Europa, Il regno - Documenti 19/85, p.581.

[2]        Ibidem.

[3]        Ibidem, p. 582.

[4]        Cf. Gv 13,34ss.

[5]        Cf. gs, n.24.

[6]        Cf. Rom 5,5; 1 Gv 4,7.19.

[7]        Cf. Mt 16,24ss.

[8]        Cf 1Cor 13 con Mt 7,21ss.

[9]        Cf. Is, Gr, Ez, Os,...

[10]      Cf. Gv 3,29ss.

[11]      Cf. Ef 5,21-33.

[12]      Cf 2Cor 11,2.

[13]      Cf. Mt 22,4; cf. Is 25.

[14]      Cf Lc 22,18.27.

[15]      Cf. Sal 44.

[16]      Cf Ap 2,4ss; 3,10.15ss.

[17]      Cf. Ap 3,20.

[18]      Cf Ap 19,7.

[19]      Cf Ap22,20; cf. anche 1 Cor 16,22.

[20]      Cf Gv 17,21.26.

[21]      G. RAVASI, Il Cantico dei cantici, Ed Paoline 1986, p.5.

[22]      Cf. Os 2,21ss.

[23]      G. GIBRAN JAHLIL, Il Profeta, Milano, Guanda, 1980, p.34.

[24]      Ibidem p.36.

[25]      LG, n.2.

[26]      LG, n.8.

[27]      Cf. Mt 7,24-27.

[28]      Cf. Gen 1,27.

[29]      Cf. Nota 22, relazione di L. Alici.

[30]      Cf. Mt 9,13.

[31]      Cf Gv 17,21.

[32]      Cf 1 Cor 13.

[33]      Cf. Ct 2,16; 6,3.

[34]      Cf. Lc 24,16.

[35]      Cf. Lc 24,31.