Valerio Mannucci

la famiglia alla scuola del signore

 

          Una premessa. Tutto ciò che dicemmo su: «La famiglia alla scuola dell’AT»[1], rimane vero e non va dimenticato. Gesù è venuto «non ad abrogare la Legge e i Profeti, bensì a portarli a compimento» (Mt 5,17). Si rischierebbe - tra l’altro - di perdere la sublime lezione del Cantico dei Cantici su «l’armonia dell’èros con l’agàpe, del piacere con l’amore, del desiderio con la carità, del possesso con la donazione».

          Sviluppiamo il tema in cinque punti

          1)    La santa Famiglia di Nazaret

          2)    La nuova famiglia di Gesù

          3)    Matrimonio e verginità consacrata: due diversi modi di vivere la coesistenza evangelica.

          4)    «L’uomo non separi ciò che Dio ha aggiogato»

          5)    Il vino abbondante e squisito sulla mensa della famiglia cristiana.

 

1.       La santa Famiglia di Nazaret

          Alla fine del secolo scorso la Chiesa Cattolica, istituendo «la festa della santa Famiglia», ha presentato la famiglia di Nazaret come  il modello di tutte le famiglie cristiane. Perché, e in che senso? Per molti aspetti la famiglia di Nazaret è una famiglia singolare atipica, “fuori serie”, e non soltanto perché segnata dalla verginità. Non sembra neppure una famiglia ideale, sotto il profilo umano-mondano, tanto appare travagliata e sofferta.

          Allora, perché famiglia «santa», «esemplare», «ideale»?

 

a)      Il primato della Parola di Dio

          Anche la coppia di Nazaret ha conosciuto il dramma dell’amore e della fatica di vivere: e l’ha risolto nell’obbedienza alla Parola.

          1° ― Il progetto di comunione sponsale rischia di saltare allorquando Giuseppe scopre Maria, sua fidanzata-sposa, incinta: ed egli «aveva deciso di rimandarla in segreto» (Mt 1,19). Soltanto l’ascolto e l’obbedienza alla Parola di Dio rendono capace Giuseppe di accogliere e di amare Gesù come suo figlio (Mt 1,20-25).

          2° ― Giuseppe deve emigrare con Maria e con il figlio Gesù, di fronte ad Erode avido di mantenere il suo strapotere anche a costo del genocidio (Mt 2,13-17). È ancora l’obbedienza alla Parola, quella che permette a Giuseppe di assecondare il progetto misterioso di Dio sulla vita del figlio Gesù.

          3° ― Due donne, Maria e la cugina Elisabetta, si incontrano; i destini di due famiglie si incrociano (Lc 1,39-45) Anche la famiglia di Elisabetta vive della Parola di Dio, nonostante i ritardi di Zaccaria (Lc 1,5-25); ed è la Parola di Dio che fa incontrare le due madri e le apre insieme alla grande storia della salvezza, dai risvolti rivoluzionari per la stessa società: i superbi sono dispersi nei loro tracotanti pensieri, i potenti vengono rovesciati e gli umili innalzati, i ricchi sono ridotti a mani vuote e i poveri ricolmati di beni (il Magnificat di Lc 1,46-55).

          4° ― Ancora una riflessione s Giuseppe, abitualmente qualificato come padre «putativo» (Lc 3,23) di Gesù per sottolineare giustamente il dato che Giuseppe non fu il suo padre «fisiologico». Ma questo significa che Giuseppe non fu padre vero di Gesù? Maria si esprime diversamente in Lc 2,48: «Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo!» Ed in realtà, una persona che accoglie il figlio concepito dalla sua sposa non per intervento umano competitivo, che soffre e si accolla ogni dovere e impegno per la crescita e l’educazione di questo figlio, non è un vero padre umano? A me pare di sì, e come! Anzi Giuseppe è il caso esemplare evangelico dell’accettazione di un figlio non proprio, per amore di lui e dell’altro coniuge, come pure dell’adozione piena di un figlio da parte dei genitori «adottanti». In ogni caso, nella storia di Giuseppe viene posto l’accento sui veri valori, scelte e comportamenti che costituiscono la famiglia della sua solida consistenza interna, ma una consistenza aperta, nella sua serenità capace di dono e di offerta agli altri.

          Sotto questo medesimo profilo si può rileggere la scena giovannea di Maria sotto la croce, la quale - per invito di Gesù - accoglie come suo figlio il discepolo che Gesù amava (Gv 19,25-27). La maternità fisica in riferimento a Gesù si trasforma in maternità spirituale (ma vera) di Maria, simbolo e madre della Chiesa, in riferimento al discepolo prediletto e a tutti i credenti che egli rappresenta. «Donna, ecco tuo figlio!»: stupenda consegna che apre una relazione tutta nuova tra Maria e Gesù, come preannunciava il «segno» di Cana con la categoria de «l’ora di Gesù» (Gv 2,4) che, nel quarto vangelo, è l’ora della morte-glorificazione del Signore.

 

b)      La «fuga» del figlio

          L’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, in occasione della Pasqua (Lc 2,41-52), è molto di più di una incomprensione “generazionale” tra genitori e figlio. Nè intendo, qui riferire del significato molteplice che l’episodio possiede nel contesto del Vangelo dell’infanzia (Lc 1-2), di cui esso costituisce l’epilogo[2].

          Mi limito a poche osservazioni, inerenti al tema che ci interessa.

          1° ― Questo è il primo “esodo” di Gesù adolescente, non solo in direzione della sua maturità ma soprattutto verso la sua libertà, la quale si esplica nell’obbedienza alla chiamata del Padre celeste.

          2° ― Il suo comportamento non può essere interpretato come disobbedienza: contro questo possibile malinteso, Lc avverte - subito dopo - che Gesù condusse a Nazaret una vita d’obbedienza e di sottomissione (Lc 2,51).

          3° ― La risposta di Gesù tradotta alla lettera: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?» (Lc 2,49), fa riferimento al tempio, che è precisamente «la proprietà» e il luogo della Presenza di Dio.

          Per Gesù «essere in ciò che è del Padre» significa, non tanto «rimanere nel tempio», materiale, quanto vivere in comunione con il Padre e la sua volontà, «vivere con totale dedizione ed esclusività per la Parola di Dio, il che è caratteristico del successivo comportamento di Gesù e della sua costante richiesta»[3].

          4° ― «Ma essi non compresero queste parole» (2,50). E ciò, non per mancanza d’intelligenza; il successivo «Serbava tutte queste cose nel suo cuore» (2,51b), detto di Maria, spiega quella non comprensione come un «non comprendere interrogativo, aperto a Dio». Maria comprenderà più tardi. C’è, qui un mistero da comprendere anche per noi: il primato assoluto dell’ascolto della Parola-Volontà di Dio.

 

2.       La nuova famiglia di Gesù

          È ben noto l’episodio della madre e dei fratelli di Gesù che vanno a cercarlo, e la risposta che Gesù dà alla loro ricerca (Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21; cf anche Lc 11, 27-28).

a)      Il racconto lucano

          Leggiamolo nella versione di Lc 8,19-21:

          «E vennero a trovarlo sua madre e i suoi fratelli, e non potevano avvicinarsi a lui a causa della folla. Gli fu annunciato: “Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e vogliono vederti”. Ma egli rispondendo disse loro: “Mia madre e i miei fratelli sono loro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”».

          Luca omette tutto ciò che - nel racconto di Marco - poteva suonare sfavorevole alla famiglia terrena di Gesù: «uscirono per andare a prenderlo con forza, perché si diceva: “È pazzo”» (Mc 3,21); ed anche «lo mandarono a chiamare» (Mc 3,31), molto più imperativo e brusco del «vennero a trovarlo..., volendolo vedere» di Lc.

          Soprattutto, Luca trasferisce questo episodio in un contesto preciso: la sezione di Lc 8,4-21 inizia con la parabola del seminatore, è tutta incentrata sull’appello ad ascoltare la parola di Dio (cf vv. 8.18.21), e l’episodio della madre e dei fratelli di Gesù conclude opportunamente la tematica della Parola di Dio.

 

b)      La nuova parentela fondata dalla Parola

          Anche Lc mantiene il particolare dei parenti che rimangono fuori (èxo), a causa della folla; c’è uno «spazio interno», quello della cerchia dei discepoli di Gesù; c’è uno «spazio esterno» quello di tutti coloro che sono chiamati ad entrare nell’aula in cui si tiene la “scuola della Parola”.

          Ebbene, la nuova e vera «famiglia di Gesù » è la cerchia dei suoi discepoli; essa è composta da tutti «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (v. 21). Luca, sostituendo così la formula di Mc 3,35 («Chi compie la volontà di Dio»), definisce la sua nuova famiglia come la comunità di coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica. D’ora in poi, la Parola di Dio, che raggiunge l’uomo nella predicazione di Gesù, manifesta la sua capacità di costituire i discepoli in famiglia e la sua rilevanza come costitutiva della Chiesa.

          Ciò dicendo Gesù non esclude affatto “a priori” i suoi famigliari. Egli vuole affermare che «i suoi fratelli e i suoi parenti potranno essere tali operando un passaggio dal èxo (fuori) al èso (dentro), dalla vicinanza per legame di sangue alla vicinanza di cui è esclusivo criterio il fare la volontà di Dio»[4], oppure - per esprimersi con il linguaggio di Lc - lo «ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica».

          Lo stesso significato incontriamo nell’episodio Lucano della donna del popolo la quale, sentendo parlare Gesù «alzò la voce di mezzo alla folla e gli disse: “Beato il ventre che ti portò e le mammelle che hai succhiato”. Ma Gesù rispose “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio, e la serbano in sé”» (Lc 11,27-28). La risposta di Gesù non intende affatto escludere dalla “Beatitudine” sua madre; anzi ce la include, non in quanto “madre fisica” di Gesù, bensì come la prima tra coloro che seppero ascoltare la Parola di Dio e “serbarla in sé” (cf Lc 2,19-51).

          Tutto questo è confermato dal fatto che la madre di Gesù e almeno alcuni dei suoi fratelli-parenti entreranno nella nuova comunità del Risorto. Lo stesso Luca registrerà che, dopo la morte di Gesù, «Maria sua madre e i suoi fratelli erano assidui e concordi nella preghiera» nella comunità cristiana di Gerusalemme (At 1,14).

 

c)       La famiglia “naturale” non costituisce un assoluto!

          Addirittura nella radicalità del linguaggio di Gesù, può anche prodursi un abisso tra i legami familiari e il rapporto che lega tra loro e con il Signore i membri della nuova comunità dei discepoli.

          «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me»; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37). In questo caso, il parallelo di Luca - anzichè sfumare - radicalizza all’esterno il detto di Gesù, mantenendone il suo colore semitico: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).

          Commenta Paul Tillich: «Tutte queste parole urtano con forza divina contro il vincolo naturale che lega i membri della famiglia, tutte le volte che esso pretende di essere assoluto. Urtano contro la schiavitù di tradizioni e convinzioni secolari e le loro pretese di assolutezza, urtano contro la consacrazione dei legami familiari mediante leggi sacramentali o di altra natura che li uguagliano ai legami fra quelli che appartengono alla nuova realtà apparsa nel Cristo. La famiglia non costituisce nessun assoluto! I rapporti familiari non sono rapporti incondizionati. La consacrazione della famiglia non consacra lo scopo finale dell’esistenza dell’uomo»[5].

          Ritroviamo in questa pagina del Vangelo il problema già contenuto nell’episodio lucano dello smarrimento di Gesù al Tempio: come comporre, cioè, l’assoluto di Dio e del suo Regno con i rapporti dentro la Famiglia umana. La pedagogia evangelica che promuove l’autocoscienza d’identità tra i vari membri della famiglia cristiana vive di una dialettica non facile per nessuno, talvolta ricca di sofferenze per tutti. Si tratta della ricerca di un equilibrio dinamico, costantemente riproposto e verificato tra libertà, scelte motivate, coscienza della propria identità e vocazione, capacità di progetto, da una parte; e, dall’altra, un rapporto rispettoso, una relazione riconoscente e amabile, una capacità di dialogo e di reciproco ascolto: il tutto, però, sottoposto ad un comune ascolto e ad una comune ricerca della Parola di Dio, della volontà di Dio.

 

3.       Matrimonio e verginità consacrata: due modi di vivere

          la coesistenza evangelica

          È nel contesto de «la nuova famiglia di Gesù» che si comprende la novità evangelica circa la verginità consacrata, come scelta per il Regno.

a)      Le molteplici, necessarie forme della co-esistenza

          Commentando i due racconti della creazione in Gn 1-3[6], dicemmo che Dio ha creato l’uomo come Mit-sein, cioè un essere-con, fatto da Dio per vivere-con. Il Dio creatore è già il Dio dell’alleanza, che si crea l’uomo dell’alleanza. All’esistenza di Dio con il mondo e per il mondo, corrisponde l’esistenza dell’uomo con il suo simile e per il suo simile. Per dirla in altri termini: secondo il progetto di Dio l’uomo in se stesso, cioè nella singola persona - sia maschio o femmina - è un problema aperto. L’uomo non esiste al singolare.

          Certo la co-esistenza, e la co-umanità, trova la sua forma fondamentale ed esemplare nell’incontro sponsale tra l’uomo e la donna. Ma il matrimonio non è l’unica forma della co-umanità. L’essere umano è in gioco anche in altri rapporti interumani: tra le generazioni, tra i gruppi sociali, nel giro di forze politiche, nell’amicizia, ovunque - in una parola - l’uomo viene sfidato, viene chiamato dal suo simile alla responsabilità, alla libertà e all’amore.

          Mi sia consentito - qui - almeno un richiamo al dettato Agostiniano sull’amicizia. «Due cose - dice S. Agostino - sono necessarie in questo mondo: la vita e l’amicizia. Dio ha creato l’uomo perché egli esista e viva: ecco la vita. Ma perché l’uomo non sia solo l’amicizia è pure un’esigenza della vita». E ancora: «Nel caso che sovrabbondassero le ricchezze, che non ci capitasse nessuna perdita di figli o del coniuge, che fossimo sempre sani di corpo, che abitassimo nella patria preservata da sciagure, ma convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e da cui noi dovessimo temere e sopportare inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia e dolcezza proveremmo in essi? Poiché, se non abbiamo amici, nessuna cosa in questo mondo ci apparirà amabile»[7].

 

b)      La verginità consacrata per il Regno

          Dunque, la decisione per il matrimonio è una libera risposta dell’uomo o della donna alla chiamata per la co-umanità, ma non è l’unica risposta possibile. Esistono molte frontiere della pro-esistenza. accanto al matrimonio, esiste il celibato per il Regno, esiste la verginità consacrata per il Regno.

          Le Chiese cristiane non possono dimenticare che tanto Gesù stesso, quanto Paolo non si sono sposati, ed entrambi hanno motivato chiaramente la loro decisione. Per Gesù si è trattato di «amore del Regno dei cieli» (Mt 19,20-12); per Paolo, della piena disponibilità per Cristo e il suo Vangelo, nel tempo incalzante della decisione (1Cor 7).

          Al di là del contesto attuale in cui Mt pone il detto di Gesù sul celibato per il Regno, molti autori pensano che questo detto (Mt 19,11-12) costituisca la risposta di Gesù ai suoi avversari giudei che lo accusavano di essere un eunuco. E ciò equivaleva, più o meno, all’accusa che oggi si rivolge al celibe, considerandolo un tipo strano o un menomato, un mezzo uomo (o una mezza donna). In ogni caso, questo detto riproduce molto bene l’orientamento spirituale che sta all’origine della scelta celibataria di Gesù, omogenea alle altre scelte storiche di Gesù: p.e., la solidarietà attiva con i poveri, i peccatori e i piccoli, che evidenziano in Gesù una totale libertà e un totale impegno per la sua missione[8].

          Dunque, nell’insegnamento di Gesù, c’è posto per la scelta del “celibato per il Regno”, scelta che egli in persona ha compiuto. Ai discepoli che, di fronte al matrimonio dichiarato da Gesù «indissolubile», oppongono il loro pessimismo: «Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10), Gesù rispose: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda!» (Mt 19,11-12).

          C’è qualcosa da comprendere, che non è facile comprendere: è il precedente detto di Gesù sul matrimonio indissolubile (Mt 19, 3-9: vedi av., 4), ma anche il successivo detto di Gesù su coloro che «si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli» (Mt 19,11-12). Lo stesso matrimonio, nella proposta radicale di Gesù, è qualcosa da capire, è una risposta ad una vocazione(«solo coloro ai quali è stato concesso!») ed esige la capacità di entrare nella logica del Regno e della fede. Come il matrimonio - anzi ancor più del matrimonio - «il celibato» è da capire, è risposta ad una chiamata ed ha senso soltanto se si pone al servizio del Regno.

          In altri termini, il valore assoluto è Dio, il definitivo è il suo Regno: vedi la parabola sul regno del «tesoro nel campo» (Mt 13,44) e della «pietra preziosa» (Mt 13,45-46). In questa prospettiva, il Regno dei cieli non è soltanto il nuovo mondo che avanza e incombe (quello del progetto di Dio), il nuovo ordine di rapporti che s’inaugura già ora per effetto della Signoria di Dio accolta nella fede, e che esploderà nella dimensione escatologica del Regno dei cieli è anche la ragione profonda che muove e determina la scelta radicale dei discepoli di Gesù: sia la scelta del matrimonio monogamico e indissolubile, sia la scelta del celibato come libertà per un impegno totale al progetto di Dio, sull’esempio dell’impegno totale di Gesù loro Signore e maestro.

          L’apostolo Paolo esprimerà lo stesso insegnamento di Gesù, dicendo: «Vorrei che tutti fossero come me, (non sposato), ma ciascuno ha il proprio dono (chàrisma) da Dio, chi in un modo chi un altro» (1Cor 7,7). «Il Dio dell’alleanza chiama l’uomo dell’alleanza. Ma alleanza significa, appunto, libera inclinazione, libera unione, libera scelta, libera ubbidienza. Non si può, a priori, decidere con un rigido catalogo di doveri il modo con cui l’uomo realizza la sua chiamata alla “comunità”. Diventa soltanto ascoltando la parola di Dio e facendo attenzione alla situazione, alle doti, al momento. A ragione, quindi nella Chiesa cattolica viene tenuta aperta la scelta del matrimonio e celibato con l’istituzione del monachesimo. Ed è bene che anche nella Chiesa protestante si accetti di nuovo, attraverso il moderno movimento comunitario, il pieno diritto a poter rinunciare al matrimonio in favore di altre forme di servizio ai propri simili»[9].

 

4.       L’uomo non separi ciò che Dio ha aggiogato!

          Conosciamo tutti la discussione al tempo di Gesù sui motivi che potevano rendere lecito il divorzio, legati all’interpretazione unanime del Dt 24, 1-4 che consentiva ad un uomo sposato di consegnare alla moglie «la dichiarazione scritta di ripudio», qualora avesse trovato in lei «qualcosa di vergognoso» (‘ervàt dabàr). La scuola di rabbì Shammay ammetteva la liceità del ripudio in caso di adulterio della moglie: quella invece di rabbì Hillel, più permissiva, ammetteva la liceità del ripudio, anche quando la moglie si fosse dimostrata davvero incapace di una buona arte culinaria!

          La domanda dei farisei a Gesù «Se fosse lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo» (Mt 19,3), si spiega nel contesto di quella disputa. Pur con una diversa formulazione, sia Marco (10,2-12) che Matteo (19,3-9) ci hanno trasmesso la questione posta a Gesù e la sua risposta; Luca, invece, ci ha trasmesso unicamente il detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio (Lc 16,18; cf anche Mt 5,32).

 

a)      La risposta di Gesù

          Gesù non prende posizione in favore dell’una o dell’altra scuola rabbinica del suo tempo. Egli prende, in materia, una posizione originale, nuova e controcorrente[10]. Afferma che «il livello del divorzio» del Dt 24,1-4 fu una concessione temporanea e transitoria, fatta dalla legge Mosaica alla sklerocardia degli Israeliti, in antinomia con il progetto originario del Dio della creazione configurato nei due racconti di Gn 1,27 e Gn 2,18-24. Il dettato “profetico” dei testi della creazione è una protesta rivoluzionaria, non soltanto contro la prassi di Israele (divorzio e poligamia), ma anche nei confronti della legge di Dt 24.

          Ebbene Gesù conferma che «da principio (ap’archès) non fu così» (Mt 19,8b). Il progetto di Dio sul matrimonio è quello di un matrimonio monogamico e indissolubile, in cui il divorzio non ha diritto di cittadinanza. Perché?

 

b)      Ciò che Dio ha aggiogato

          Gesù, dopo aver citato il testo biblico di Gn 2,24, lo conferma con una annotazione ermeneutica apodittica: «L’uomo non separi ciò che Dio ha aggiogato» (Mt 19,6 e Mc 10,9). Che vuol dire Gesù? Egli vuol dire che, allorchè un uomo e una donna si uniscono nel matrimonio, in qualche modo è Dio stesso all’opera. Il verbo greco (syn-zèugnymi) usato dai due evangelisti ha un significato di base plastico: come un contadino mette insieme sotto giogo (zèugos) due animali da tiro, nello stesso modo sono da Dio uniti tra loro i due sposi. Il Dio dell’Alleanza, che lega a sé Israele in un patto d’amore sponsale definitivo e irreversibile, vuole e istituisce il matrimonio-alleanza. E vi si impegna in prima persona, lui che per primo - testimone il profeta Osea - vive una storia di fedeltà assoluta con Israele -suo popolo, alla maniera di uno sposo che lotta instancabilmente per l’amore della sua sposa infedele ed è capace di rifare “vergine” la sposa “adultera”.

          In altri termini: «l’Alleanza mai denunciata» tra Dio e l’uomo, rende il matrimonio inscindibile, quale prima (anche se non unica) ripetizione terrena di questa alleanza. L’alleanza divina pone un uomo e una donna in una co-esistenza e in una pro-esistenza illimitata. Del resto l’idea che il legame intimo della famiglia è un’opera di Dio - tutta la storia del popolo di Dio è opera della mano divina! -, è già presente, non solo nel racconto Jahvista della creazione ma anche nella tradizione giudaica. Un antico racconto rabbinico illustra bene questo fatto[11].

          Una ricca proprietaria va a consultare il rabbì Iosef e vorrebbe sapere cosa mai sta a fare in Cielo il Padre Eterno, dopo che ha portato a termine la creazione. Rispose il Rabbì: «Il Santo sta in cielo e unisce le coppie» E lei: «Tutto qui? Io stessa sono capace di occuparmene. Ho mille schiavi che possono venire subito accoppiati in matrimonio!». Il rabbì replicò: «Ammetto che tu trovi tutto ciò una faccenda molto semplice. In cielo, invece, unire le coppie è ritenuto tanto complicato quanto lo fu dividere le acque del Mar Rosso» Quando il rabbì la lasciò, la donna ordinò il matrimonio immediato di tutti i suoi schiavi. Ma l’indomani del matrimonio - prosegue il racconto di Talmud - vi fu un diluvio di disgrazie: gambe rotte, nasi tumefatti, occhi neri, ecc.

Tutti soffrono a causa delle violenze subite e chiedono all’unanimità di venire separati dal congiunto. La ricca signora dovette allora riconoscere dinanzi al rabbì che sposare la gente è molto più difficile di quanto non pensasse, e che era proprio necessario che i matrimoni venissero decisi nel Cielo!

 

5.       Il vino abbondante e squisito sulla mensa della famiglia cristiana

          Gesù non si è limitato a riconoscere il matrimonio come opera di Dio creatore e a ribadire lo statuto monogamico e indissolubile secondo il progetto di Dio. Il vangelo di Giovanni ci presenta Gesù, in compagnia dei discepoli e di sua Madre, che volentieri accoglie l’invito ad un pranzo di nozze e proprio lì compie il suo primo miracolo-segno, anzi il principio dei segni, come il segno primario e riassuntivo di tutti gli altri (Gv 2,1-11).

          Non intendo, qui, affrontare i molti problemi che presenta la pagina giovannea, e neppure esaminare il profondo significato cristologico e mariologico del primo segno di Cana. Mi limito soltanto ad alcune sottolineature, inerenti al tema della famiglia che stiamo trattando.

a)      La gioia sana e legittima delle nozze

          Gesù aveva promesso a Natanaele, da lui conosciuto già quando «era sotto il fico» (Gv 1,48), e agli altri discepoli che avrebbero visto «cose più grandi» (1,50). Ebbene, la prima cosa più grande che Gesù offre allo sguardo dei discepoli è la gioia del vino (cf Sal 104,15; Qo 10,19), restituita a una coppia di sposi e ai loro amici, in occasione delle nozze.

          Anche il «secondo segno», compiuto da Gesù a Cana di Galilea (4,46-54) avvenne nell’ambito di una famiglia, con il figlio restituito in piena salute al padre angosciato. Niente è casuale negli eventi di Gesù, come sono narrati nel Vangelo. Gesù, inviato a un pranzo nuziale, scoppiettante di gioia «paesana», benedice i due sposi e la loro gioia terrena, riconoscendola sana e legittima. L’amore e la comunione della famiglia vengono consacrati dalla stessa presenza di Gesù; e colui che ha il potere di cambiare l’acqua in vino in un pranzo di nozze avrà anche il potere di restituire sana e salva la vita di un figlio per la gioia del padre e di tutta la famiglia.

          Ancora. Due dei discepoli di Gesù, tra cui probabilmente Giovanni, provenivano dall’entourage del Battista, un asceta che «non mangiava e né beveva» (Mt 11,18) e imponeva il digiuno anche ai suoi discepoli (mc 2,19). Ebbene il Rabbì Gesù, nella sua prima uscita ufficiale come Messia, porta i suoi discepoli ad una festa nuziale, una festa con un vino da capogiro che egli stesso miracolosamente provvede. I discepoli di Gesù non possono digiunare alla maniera dei discepoli del Battista e dei Farisei. E come potrebbero? Essi mangiano e bevono, perché sarebbe ridicolo «far digiunare gli amici dello sposo, finché lo sposo è con loro!» (Lc 5,33-35 e parall.).

b)      La presenza di Gesù nel matrimonio cristiano

          Ma il miracolo di Cana è chiamato da Giovanni segno, anzi il principio dei segni come dicevamo. Il segno è come una freccia, un segnale che indica ulteriori significati da cercare in profondità, sulla scia di dettagli che nel racconto del quarto Vangelo - di per sé notevolmente scarno - hanno il valore di richiamo e di sottolineatura simbolica.

          ―    Non hanno vino (v. 3b). La mancanza occasionale del vino a Cana (v. 3a: «Nel frattempo, venuto a mancare il vino»), diventa nella penna di Giovanni qualcosa di permanente. Infatti la madre di Gesù non dice: «Non hanno più vino», come molte versioni inesatte farebbero capire. Essa dice: Non hanno vino (v. 3b). Questa negazione assoluta sembra intenzionale nell’evangelista. Alla tavola degli umani, assetati di vita e di gioia, manca sempre qualcosa che soltanto il Cristo-Messia è capace di offrire.

          ―    Che c’è tra me e te, o donna? (v. 4a). Si tratta di una frase tipicamente ebraica (màh lì welàk), che ha molti paralleli sia nell’AT che nei Vangeli e che riguarda sempre la relazione tra due persone. Ma è sempre e soltanto il contesto - specialmente la relativa risposta che spesso ne segue - a chiarire il senso della domanda: può confermare e rafforzare una relazione o una opposizione, oppure può rifiutarle.

          A Cana Gesù pone una domanda a Maria sulla relazione che esiste tra sé e sua madre. Il contesto fa capire che, propriamente parlando, Gesù mette in questione la relazione che fino ad allora lo univa a sua Madre. Egli suggerisce che un cambiamento deve avvenire. Infatti non la chiama più “Madre” ma “donna”: senza avere niente di offensivo - lo sappiamo - l’appellativo “donna” mostra tuttavia che Gesù non si pone più di fronte a Maria su un piano familiare. Gesù, a Cana, traccia una chiara linea di separazione tra sé e sua Madre: «L’azione del Figlio di Dio dipende soltanto dalla volontà del Padre» (S. Ireneo).

          Poiché Cana costituisce «l’inizio dei segni», e quindi l’ora messianica di Gesù comincia a scandire i suoi tocchi, anche per Maria è giunto il tempo di una relazione nuova con il figlio Gesù, il tempo dell’ascolto docile e dell’adesione fedele a lui. Siamo in sintonia perfetta con quanto dicevamo prima ( v.s., 2) su «la nuova famiglia di Gesù» secondo il dettato Sinottico. E Maria, a Cana, dopo quella risposta di Gesù, si fa interamente docile all’orientamento suggerito dal figlio: la sua influenza non si eserciterà più su Gesù, bensì al servizio di lui. «Essa dice ai servi: “Fate quello che egli vi dirà”» (2,5). Questa è l’ultima parola di Maria nel quarto Vangelo, è il testamento di colei che fu Mater fidelis  (cf il «Beata colei che a creduto» di Lc 1,45). Essa aprì la strada di tutti i credenti all’obbedienza fiduciosa nel Figlio. Già a Cana di Galilea, la madre di Gesù è simbolo della Chiesa, della nuova parentela che unisce a Gesù.

          ―    Lo sposo vero è Gesù (v. 10) Con quel pizzico d’ironia tipicamente giovannea, il capo-tavola chiama l’ignaro giovane sposo e gli dice: «Tutti servono prima il vino buono, poi quando tutti sono brilli il peggiore. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono fino a ora» (v. 10). Siffatto elogio compete nella realtà soltanto a Gesù, il vero Sposo (cf Gv 3,29), venuto a inaugurare l’era sponsale messianica con relativo banchetto ( cf Is 54,4-8; 62,4-5), bagnato di fiumi di vino eccellente (cf Am 9,13-14; Os 2,24).

          «L’acqua delle purificazioni giudaiche» (v. 6) rimane il simbolo di ogni surrogato della vita e della verità, di tutto ciò di cui le persone pensano di poter vivere e che invece le deludono o almeno non placano compiutamente la loro sete di amare e di gioire. Sulla tavola sponsale degli umani manca qualcosa per poter sperimentare la pienezza dell’amore e della gioia. «Manca il vino», e soltanto la presenza di Gesù può miracolosamente - e ogni giorno - servirlo a coloro che lo richiedono.


[1]     V. MANNUCCI,  Il matrimonio nell’AT, in AA.VV. «Matrimonio e famiglia», I - Comunione di amore e di vita, Ed.Rogate, Roma 1989, pp. 27-50.

[2]     Cf, p.e., H. SCHÜRMANN, Il vangelo di Luca, Parte prima, Paideia, Brescia 1983.

[3]     H. SCHÜRMANN, o.c., p. 26.

[4]     E. BIANCHI, La nuova famiglia di Gesù, in «Parola, Spirito e Vita» 14 (1986), 187-179-192.

[5]     PAUL TILLICH, Il Nuovo Essere, Ubaldini ed., Roma 1967, p.90.

[6]     Cf V. MANNUCCI, Il matrimonio dell’AT, in o.c., pp. 29-34.

[7]     S. AGOSTINO, Sermone, 16,1; Lettera 130,2,4; cf V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio - Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 1988-9, pp. 19-21 (Il linguaggio dell’amicizia e dell’amore).

[8]     Cf. R. FABRIS, Gli eunuchi per il Regno dei cieli (Mt 19,12), in «Parola, Spirito eVita» 12 (1985) 128-142.

[9]     ERNEST LANGE, Matrimonio, in «Dizionario del pensiero Protestante», Herder-Morcelliana 1970, p. 314.

[10]    Prescindo, qui dall’inciso certamente «redazionale» di Mt 19,9 (cf anche Mt 5,32) sull’eccezione: «Se non in caso di concubinato (ponèia)». Sul significato discusso di questa eccezione Matteana, cf la  nota della Bibbia di Gerusalemme a Mt 19,9 e At 15,20.28-29; i vari commentari a Mt; G. BARBAGLIO, L’uomo non separi ciò che Dio ha unito, in «Parola, Spirito e Vita» 14 (1986) 121-141; E. LANGE, Matrimonio, in o.c., p. 317-319.

[11]    Cf  Il Talmud, ed. A. COHEN, 1933, p.215.