Maria e Gigi Avanti

itinerario di santità coniugale e familiare

 

          Quando Gesù disse: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), forse pensava anche a noi sposati!

          Nella Bibbia tuttavia il concetto di santità va raramente a braccetto con quello di coniugalità (a parte il caso sospetto di Maria e Giuseppe di Nazaret...).

          Anche nella storia della Chiesa si trovano pochi esempi di coniugi «canonizzati» in quanto tali (forse anche per la spiegabile difficoltà da parte dei familiari a raccogliere documentazione...).

          Anzi, talvolta è perfino sembrato che fosse fatto santo qualche laico sposato o qualche laica sposata, «nonostante» il matrimonio.

          Non è questo il contesto adatto per perdersi in sterili analisi storiche sommarie, ma non si può ignorare che può aver pesato su tutto questo un fatto innegabile che è il seguente: la valenza «sacramentale» della realtà matrimoniale ha fatto molta sala d’aspetto prima di entrare a pieno titolo nel bel mezzo dei sacramenti...

          Questo può anche spiegare come non esista una documentazione precisa relativa al tema in questione. Esiste invece tutta una serie di ricerche, anche curiose, sugli argomenti più disparati (esempio, titoli come: «Movimenti spirituali del Medio Evo tra eresia e ortodossia», oppure «L’inconscio spirituale»), ma poco su tale tema.

          Va anche detto che l’attenzione alla coniugalità e alla famiglia è proprio di questi ultimi vent’anni... A meno che tale «ritardo» non possa interpretarsi come voluto da Dio, quasi che Egli giochi l’ultima carta (si fa per dire...) così come giocò la prima all’inizio della storia creando uomo e donna «a sua immagine», giochi cioè l’ultima carta per ricordare al mondo la sua esistenza e soprattutto la sua natura «familiare».

          Comunque sia, dove cercare una «teologia della coniugalità» o «della famiglia» o una «spiritualità della coppia» e «della famiglia?». Forse più che nei testi esse vanno cercate nel «libro vivente» dell’amore umano vissuto nel Signore, nel libro parlante dell’amarsi nel Signore (anche se è giusto che qualcuno solleciti una sistemazione dottrinale della materia magari per facilitare ai candidati al sacerdozio dei vari seminari e dei vari studentati teologi la conoscenza non soltanto «moralistica» di tali complessi argomenti).

          Un ambito dove reperire buon materiale sono i Convegni che le chiese locali diocesane o parrocchiali più sensibili o le varie commissioni regionali, nonché qualche Centro di Preparazione al matrimonio, o Istituto, o Ufficio, o Servizio Famiglia, dedicano a questo argomento.

          Ottimi spunti si trovano comunque in contesti di studio e di ricerca più generali (quelli dedicati alla «spiritualità dei laici», ad esempio) e si auspica, da parte delle università, l’indicazione agli studenti di questo ambito per la ricerca teologica e spirituale.

          Stanti queste premesse, da dove e come partire per fondare in modo accettabile il tema?

          La partenza a me più congeniale è quella di giocare a carte scoperte dichiarando subito la inadeguatezza personale e coniugale. Chi vi parla non ha altro titolo che quello di curioso e di avventuriero dello spirito. Ma c’è un altro titolo che potrebbe rappresentare la partenza metodologica più adatta ed è il titolo di «fratello». Mi vorrete accogliere come fratello? Ci vorrete accogliere come fratelli?[1].

          Ecco un sillogismo d’apertura: la fraternità è un segno di riconoscimento di Dio; la santità è il vertice di tale segno di riconoscimento; la coniugalità e la familiarità sono i modi più legati al secolo in grado di offrire tale segno di riconoscimento; quindi la coniugalità e la familiarità sono via secolare alla santità in quanto creativi di fraternità.

          Perché tale immediato collegamento «fraternità--coniugalità-secolarità-santità? Forse perché non piacendo a Dio le mezze misure e dovendo Egli comunque rispettare le dimensioni della discrezione e della riservatezza, nel suo rivelarsi (Deus absconditus) ha ritenuto opportuno forse, di assegnare alla nostra epoca il compito specifico di testimoniarlo attraverso la fraternità coniugale santa. Non tanto quindi la persona singola «fratello» di tutti, ma «coniugi fratelli d’amore» testimoniano l’Amore

          Uno spunto sulla attualità della santità in genere e della santità coniugale in specie come «segno» di rivelazione di Dio.

          Dio, è vero, è sempre attuale e i modi di rivelarsi all’uomo non vanno classificati cronologicamente in modo rigido, purtuttavia, umanamente parlando, possiamo distinguere una certa qual successione di questi modi da Lui scelti per rivelarsi (oltre all’appello interiore e alla predicazione del vangelo).

          Tali modi sono: il miracolo, la profezia, la santità[2].

          Con il miracolo Dio opera i segni nella natura trasfigurandola.

          Con la profezia Dio opera i segni nella storia trasfigurandola.

          Con la santità Dio opera i segni nella persona trasfigurandola.

          Di «segni» di Dio è piena ogni epoca. Anticamente il segno maggiormente in uso era la profezia, specie per gli ebrei. Poi più avanti il miracolo, che oggi sembra subire una certa concorrenza da parte dei miracoli della scienza e della tecnica. Oggi il segno che sembra esercitare maggiore richiamo è la santità. (In Cristo abbiamo la sintesi di tutto ciò...).

          A cosa si deve, da parte del distratto uomo moderno, di avvertire questo fascino o richiamo di santità? Si deve prevalentemente alla crisi di identità di relazione (che unite diventano crisi di «senso vitale») che l’uomo di oggi esperimenta. È stato detto che «l’uomo è le sue relazioni». La difficoltà, o la paura dell’uomo a entrare in relazione profonda, deriva dal fatto che egli non ha ancora interiorizzato esistenzialisticamente che egli è «fratello» di vita di tutti (perlomeno, anche se ontologicamente si è fratelli perché «figli del Padre») e ciò lo porta ad intessere relazioni superficiali, di rito.

Questa titubanza ad entrare in intimità con i suoi simili si ripercuote, come un boomerang, sul piano della sua identità facendo sì che egli non capisca neppure più chi è. Da qui la «vertigine esistenziale» e le varie patologie nervose e mentali...

          Da qui anche il fascino per la santità. Ogni crisi infatti attesta il bisogno di valori. Sotto la scorza della derisione o della contestazione c’è l’autenticità del bisogno: sincerità, essenzialità, lealtà, verità, senso.

          L’uomo di oggi non apprezza le mezze misure e la santità lo attira perché esperienza di estrema coerenza, di equilibrio e di stabilità esistenziale con baricentro nel trascendente, di relazione a tutto campo...

          Se è vero che la santità attira l’uomo d’oggi è anche vero che egli soffre di non poterla vedere «trasparente» attorno a lui.

          Con Cristo la «trasparenza» della santità di Dio era tangibile (chi vede me vede il Padre...). Con la Chiesa (che i Padri della chiesa descrivono ricorrendo alla immagine della luna, stupenda quando di notte riflette la luce del sole, ma arida e desertica quando sorge il sole...) un po' meno.

          Scrive in proposito E. Schillebekx: «Gli uomini di oggi ne hanno abbastanza di prediche. Essi cercano una forza per la loro vita e un significato che le doni questa forza. Non si fanno stimare dei valori ed una forza superiore se non rendendoli presenti attraverso l’azione. I cristiani devono mostrare agli uomini che il cristianesimo è una forza che trasforma la vita: la nostra vita deve essere un dogma incarnato. Gli uomini reclamano non dei predicatori ma dei testimoni silenziosi di Cristo, degli uomini nei quali il dogma appaia in atto».

          Questa «forza» che trasforma la vita e che è un potenziale di santità, è la adesione alla volontà di Dio.

          Tale regola generale di santità, che vede in prima linea Cristo, diventa accettazione semplice e quotidiana del disegno di Dio nella propria vita (Gv 4,34; Gv 8,42; Gv 10,17; Mc 3,35; Mt 6,10).

          Ed ecco il passaggio alla coniugalità e alla famiglia. Essi divengono “luoghi di santità” a partire da questa accettazione del disegno di Dio su noi come coppia e come famiglia.

          A partire da questo, ma a patto di rispettare la caratteristica principale della coniugalità che è quella della laicità. Mi spiego.

          Si legge nel Vaticano II, ripreso al n. 15 della Chistifideles laici: «L’indole secolare è propria e peculiare dei laici» (L.G., 31).

          Da questa affermazione perentoria perché non ricavare che, essendo il matrimonio la realtà creaturale più legata al secolo (infatti Cristo disse in proposito il famoso «neque nubent, neque nubentur») è l’ambito privilegiato di testimonianza dei laici?

          Uno spunto amichevole critico: il numero 23 della citata Chr. laici dopo aver detto che i laici «in virtù della loro condizione battesimale e della loro specifica vocazione, nella misura a ciascuno propria, partecipano all’ufficio sacerdotale, regale e profetico», conclude l’invito ai Pastori a «riconoscere e promuovere i ministeri, gli uffici e le funzioni dei fedeli laici che hanno il loro fondamento sacramentale nel battesimo e nella confermazione, nonché, per molti di loro nel matrimonio» Perché molti? Non è la maggioranza assoluta? Perché da ultimo con quel «nonché»?

          E poi, perché più avanti, tra le esemplificazioni di come e dove esercitare tali misteri e funzioni viene ancora al primo posto la Liturgia? Anche poco dopo, citando la Evangelii nuntiandi, la citazione della coniugalità e della famiglia segue quella della politica ecc.

          Non è forse prioritario affermare, anche in contesto di esemplificazione, che il mistero coniugale e familiare è ambito naturale dove esercitare la testimonianza e la santità? L’ambito liturgico, infatti, strettamente parlando non attiene all’ordine secolare (Cf L.G. n. 35).

          Fortunatamente in contesto di impegno sociale della famiglia, al n. 40 della Chr. laici, viene messo al primo posto proprio l’impegno nella famiglia.

          La tendenza a clericalizzare i fedeli laici e anche «il rischio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella fondata sul sacramento dell’ordine» sono esplicitati sempre al n. 23 e rappresenterebbero la liquidazione del carisma laicale in quanto secolare.

          Si tratta cioè di insistere con sempre maggiore limpidezza e briosità sulla «peculiarità» secolare della testimonianza coniugale.

          Occorre interiorizzare veramente da parte di tutti che non è tempo rubato alla liturgia o alla santità quello dedicato allo «habitare fratres in unum»... (Dove sono due o tre riuniti nel nome mio lì ci sarò anch’io». «E Dio pose la sua tenda in mezzo a noi»; i trenta anni di Nazaret vengono dopo un’eternità di vita familiare divina; Dio è famiglia...).

          Ecco pertanto già abbastanza delineata la traccia dell’itinerario di santità coniugale e familiare:

          ―    l’amarsi è già, se in Dio, santità... («evangelizzare l’amarsi»);

          ―    vivere la tenerezza dell’umano redento è santità...;

          ―    vivere le relazioni interfamiliari in fraternità è santità...;

          ―    umanizzare le relazioni extra-familiari è santità.

          Affinché questa dinamica di vita possa però svilupparsi occorre interiorizzare profondamente che il matrimonio è nel secolo il sacramento più eucaristico (dopo l’eucarestia che non è del secolo) che ci sia.

          Nel matrimonio e nella coniugalità vissuti «nel Signore», infatti avviene questa continua trasformazione (transustanziazione?) dell’amore umano in amore «per il Regno».

          Sotto le apparenze dell’amore di uomo e donna e figli c’è l’amore di Dio[3].

          Così come nell’eucarestia (pane) ci si nutre, così anche nella coniugalità sacramentale ci si nutre (amore). Con una suggestione che mi è cara: il pane è la sintesi di parola e carne (tale è perlomeno la «successione» offertaci da Dio in Cristo, Parola-Carne-Pane). Il cibo dell’amore nutre veramente se fatto di parola e carne. (E c’è anche il companatico che è rappresentato dal «godimento» interiore che dà tutto ciò...)

          Naturalmente quando si parla di amore come cibo non si intende soltanto l’eros (generato da attrattiva esterna a sé), né soltanto la filìa (consistente in una gratificante reciprocità) ma si intende soprattutto agàpe (generata dall’interno della persona e della coppia come dono di una gratuità assoluta... per il Regno). Niente però di evanescente e spiritualistico, bensì tutto con «spiritualità incarnata»; così almeno ci indica lo Spirito Santo... Ecco qualche specificazione. Amore come «santità coniugale» è relazionarsi con il coniuge, è vivere il legame, la relazione come modo consueto di vivere, tenerci come fosse «lo spirito santo» della coppia (1 + 1 = 3). Coniugalità santa è sposare la relazione, quasi prima ancora che sposare la persona... Coniugalità santa è vivere la relazione come dono reciproco (accetto e dò). Tale dono diventa poi servizio (il termine latino «famulus» è indicativo di tante cose).

          La santità coniugale passa attraverso il dono reciproco che simultaneamente diventa servizio reciproco, ma per il Regno.

          Il regno di Dio è la realtà più grande (più grande della coppia e della pur stupenda invenzione della famiglia...) cui riferirsi sempre. È vivere lo spirito del Regno a far diventare santi...[4].

          Tentativo di dare una base teologica a queste affermazioni. In Dio «essere» ed «essere dono» coincidono, ma l’essere di Dio è santità, quindi santità è essere dono. (Sul piano esistenziale ciò si traduce nel non fare pesare di vivere come «regalo» permanente rispetto all’altro e di accogliere il suo; i calcolatori o i collezionisti di prestazioni non saranno mai santi).

          Il vivere con l’altro come dono diventa, più o meno marcatamente, un vivere «per» (questo passaggio include la dimensione del sacrificio non nel senso vittimistico, ma nel senso pregnante del termine). Il discorso del «Servus Jhave» in Isaia 42 e l’Incarnazione dove Dio «per» noi uomini e «per» la nostra salvezza discese dal cielo, è illuminante circa questo vivere «con» che diventa vivere «per».

          Attenzione ad un particolare sottile: quando si dice vivere «per» includendo la dimensione «sacrificale», non si allude tanto agli immancabili sacrifici reciproci dei gusti, delle pretese dell’io da tenere a bada per risorgere quotidianamente nel «noi», ma ci si riferisce al vivere la coniugalità «per» il Regno (sacrificio, etimologicamente parlando è fare sacre le cose, sacrum facere).

          Questo riferirsi «coniugalmente» e «familiarmente» al Regno comporta la rinuncia alle comode pretese del nostro piccolo regno «provinciale».

          Una annotazione di ordine psicologico. Vivere «per l’altro sacrificando tutto a lui potrebbe nascondere un pericolo in quanto che l’altro non realizza ed esaurisce la dimensione dell’assoluto. Vivere con l’altro per il Regno è anche garanzia di santità mentale! È bello «sposati» «sposare» la causa del Regno. Santità è vivere per il Regno, essere a servizio delle esigenze del Padre che vuole creare umanità attraverso il nostro essere amanti.

          In una parola l’itinerario di santità è creare spazio al Regno di Dio vivendo la naturalezza della relazione coniugale e delle relazioni umane in fraternità.

          Qualcuno si chiederà più o meno sorpreso: ma allora, perché se sembra così facile essere santi (basta riferirsi al Regno) sono soltanto pochi quelli che vengono canonizzati? Non è facile essere santi, perlomeno quanto non è così facile «essere» (si recrimina, si sospira, si vegeta, si è parassiti...). In secondo luogo la chiesa, in quanto anche umana, deve rispettare “criteri” storici per arrivare a dichiarare la santità di qualcuno. In terzo luogo, vogliamo lasciare a Dio la libertà di cogliere nel giardino del suo Regno i fiori che imperscrutabilmente predilige?

          Il concetto-realtà di spazio sollecita altri spunti di riflessione. Si dice che l’amore è fare «spazio». L’idea di spazio richiama quella di vuoto, di vuoto spazioso o di vuoto che fa paura... Si dice anche «più la vita è vuota, più diventa pesante».

          L’idea di spazio richiama quella di deserto dove di spazio ce n’è. E l’idea di deserto ci introduce in una riflessione sulla tentazione. Se no, pare veramente che diventare santi assomigli ad una discesa sullo scivolo!

          Il deserto è spazio immenso di biblica memoria abitato solamente da esseri malefici ma anche sede dell’alleanza...

          Gesù è condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo.

          Stabilendo una strumentale analogia fra «deserto» e «vita» possiamo vedere la coppia e la famiglia dibattuti fra due alternative.

          ―    o dare spazio al Regno di Dio (spazio cosmico);

          ―    o dare spazio al «principato» di Satana (spazio provinciale).

          Per dare spazio al Regno di Dio occorre «allearsi» con Lui. Per dare spazio al principato di Satana non serve alcun patto... Scrive Davide Maria Turoldo: «Tutta la storia corre sulla traiettoria di queste due proposte: la proposta di Dio (proposta della divina alleanza) “voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e la proposta di Satana “sarete voi stessi come Dio”»[5]. Che noia e che fregatura essere il Dio di se stessi! Che tristezza essere figli di nessuno! Anche in psicologia l’autocentrismo è biasimato...

          La tentazione da vincere è quella di vivere una coniugalità «provinciale», rattrappita, rinchiusa nell’io, tu e le rose, limitata alla sistemazione, casa e macchina, figli e lavoro...

          La tentazione da vincere è quella di “piacere” soltanto al coniuge. A proposito, quando Paolo parla di amare «corde indiviso» ci dà una bella lezione perché ci dice che il Partner dei due deve essere Dio, ma la medesima lezione potrebbe darla anche a qualche sacerdote o religioso «tentato» di piacere al confessore, alla maestra delle novizie, al monsignore di curia, al vescovo, al Papa... così da essere lui medesimo «diviso». Scusate.

          Dove sta una coniugalità espansiva, missionaria?

          In questo senso i santi di ogni genere ci danno una mano. Essi sono state persone capaci di «gestire» bene il vuoto. A proposito di vuoto, il vuoto visto dall’alto dà le vertigini e può fare cadere (sarà per questo che Satana ha condotto Gesù sul pinnacolo del tempio e sarà anche per questo che Gesù ci ha insegnato a pregare: «fa’ che non cadiamo in tentazione»...). Il medesimo spazio di vuoto visto dal basso non dà le vertigini, anzi suscita desiderio, desiderio di riempirlo (sarà per questo che il vuoto del sepolcro non fa più paura a chi lo riempie di fede e che il vuoto dal basso in alto dell’ascensione non paralizza, ma incoraggia a vivere la fede «nell’attesa della sua venuta» facendo sì che perché ritrovi la fede quando «tornerà sulla terra» ci si dia da fare, coniugalmente e familiarmente, affinché «Lui cresca e noi si diminuisca...» Ma le tentazioni non ci daranno scampo. Scrive ancora Turoldo: «Là dove c’è Dio non può esserci la tentazione. Importante sarebbe in senso negativo, e cioè quasi un segno di essere davvero soli, abbandonati da Dio, sarebbe precisamente il non essere tentati»[6].

          Talvolta può accadere di cedere alla tentazione della «provincialità» satanica quando facciamo delle nostre vite coniugali o di gruppo una serie di bicchieri mezzi vuoti, ma sui quali abbiamo messo «vistose» etichette, quasi a tranquillizzare le nostre coscienze. Una certa concorrenza fra questi bicchieri poi è deleteria per la causa del Regno. Mi riferisco alle varie forme di spiritualità proposte ai laici che talvolta danno l’idea di una sfilata di moda dove ciascuno si pavoneggia con il suo look.

          Al numero 9 della Chr. laici c’è un forte richiamo a cercare il Regno di Dio. Questa semmai è l’etichetta... Non a cercare questa idea di Regno, non il Regno della mia ideologia spirituale, ma la realtà del Regno... Se no finiamo per entrare nel numero dei «cercatori di pelo», anzichè in quelli di coloro che si nutrono dell’uovo.

          Altra tentazione tipicamente provinciale è quella di ritenersi a posto in coscienza per il fatto di non fare del male a nessuno, neppure a una mosca. Ma del bene lo si fa? Ma la vita la si dà o la si tiene stretta con due pinze ed una tenaglia? Ma lo si è capito che «chi perderà la propria vita la salverà? Ma non si è ancora capito che anche a essere troppo seri «dalla vita non si esce vivi»?

          Anche una lettura attenta della strategia pedagogica di Dio nella Bibbia ci conferma che dal Primo al Nuovo Testamento c’è un salto di qualità per quanto riguarda la questione etica del non fare il male e del fare il bene. Anche nella Bibbia c’è una questione morale. Per quanto attiene alla vita i due paramenti sono i seguenti: dal «non uccidere» del Primo Testamento per fare capire che la vita valeva in quanto accolta come dono, si passa al «dare la vita» del Nuovo Testamento perché Gesù vuole fare capire nella sua carne che la vita vale in quanto spesa («Non c’è amore più grande...»). I coniugi passano dal dono di amare all’amare di donare... Il livello paradossale potrebbe essere: «darei la vita pur di non morire».

          Altra sottile tentazione provinciale incorporata in una falsa umiltà è l’inoperosità dovuta al «non sentirsi all’altezza»... L’altezza congeniale al cristiano è quella della croce issata in piedi... la croce della derisione, dell’incomprensione del «nemo propheta in patria», dell’essere presi per fuori tempo, cretini...

          Comunque sia... a questo vertiginoso vuoto (guardando giù dal pinnacolo del proprio palazzo o della propria villetta...) potenzialmente popolabile di tentazioni, la coppia può rispondere con il vuoto affascinante e vincente del sepolcro e dell’ascensione (guardando in su dalla propria casa coniugale, dalla propria abitazione d’amore).

          Il vuoto del deserto si riempie con il vuoto del sepolcro, se no è alienazione... La santità coniugale passa, in questo senso, attraverso «l’attesa della sua venuta» nel quotidiano «diminuire» affinchè Lui «cresca» fatto di fede vera (e non di buona volontà filantropica o di sforzo umano di pelagiana memoria...).

          La santità coniugale passa attraverso la fede in Lui che tornerà. E quando ci chiederà, più o meno sorionamente, «in che cosa avete creduto», Dio voglia che tutti si possa rispondere quasi in coro «abbiamo creduto nell’amore» («credidimus charitati»...).

          Ed in conclusione qualche sottolineatura per poter presentare senza errori e cancellature il proprio certificato di vita e di amore coniugale... sempre in linea con la laicità.

          Prendo spunto dagli Atti del IV Convegno di pastorale familiare della Chiesa di Basilicata del 1985. Il titolo era «Famiglia, ministero laicale nella Chiesa» Tra i relatori P. Luciano Cupia, oblato Maria Immacolata, fondatore a Roma del CIPM e del Consultorio per la Famiglia negli anni sessanta. Egli, dopo aver richiamato le basi conciliari per una corretta impostazione della riflessione, (Lumen gentium, Gaudium et spes, Apostolicam actuositatem), si avventura in queste considerazioni.

          Il carattere laicale, nella teologia, viene riconosciuto soprattutto nella prima parte della Genesi, quando Dio crea l’uomo. Qui siamo in stretto regime laicale, in cui nulla è ancora stato consacrato nel ministero sacerdotale, ancora nulla è stato definito, ma esiste l’uomo con la sua natura e con le forze della natura a disposizione, per cui è questa la prima connotazione che il laico ha; l’uomo come laico nasce da questo progetto di Dio per osservare il mondo, per rendersi conto del mondo che è intorno a lui.

          Il primo aspetto quindi di questa sua funzione laica è l’osservazione della natura, intesa non soltanto come osservazione razionale, ma anche come disponibilità affettiva che è accoglienza della natura. «Non solo vedo, ma accetto, amo quello che Tu, o Signore, hai creato». È importante che l’uomo totale si metta di fronte a questa osservazione. Egli è l’osservatore della natura in senso pieno. Ci sono delle conseguenze infinite. Essere osservatori in questo modo significa: amare la natura, amare l’uomo, amare tutto ciò che è il creato. Nello stesso tempo, da un punto di vista di accettazione, tutto ciò che è creato è buono.

          Il secondo aspetto è che il creato viene affidato al laico. Dio consacra la natura e l’assoggetta all’uomo, anzi l’affida all’uomo. Il verbo assoggettare deve essere interpretato a mio avviso come affidamento, una parola più comprensibile per noi.

          Mentre l’assoggettare, con il peccato, è diventato sfruttamento indiscriminato e di conseguenza l’uomo viene portato ad esasperare il suo dominio sulla terra fino all’autodistruzione con tutto ciò che abbiamo in mano di tecnologia.

          Come possiamo ora arrivare ad una analogia fra la laicità in senso generico e la laicità all’interno della famiglia?

          Già nel primo documento CEI, «Matrimonio e famiglia oggi in Italia» del 1969, vengono poste le basi per il ministero laicale all’interno della famiglia inteso come spinta a dialogare con il mondo.

          Un punto frenante è che il ministero laicale nei documenti della Chiesa è sempre visto come un dovere, come un compito. Non è messo in luce sufficientemente il ministero come un diritto che il laico ha in quanto laico di esprimersi nella Chiesa di Dio.

          L’altro documento dei Vescovi «Evangelizzazione e sacramento del matrimonio» del 1975 al numero 104 parala di missione ecclesiale dei coniugi (è una visione profetica che questo documento dà) e al n. 105 parla di esercizio cristiano dell’ospitalità. E con questo si intende ogni genere di ospitalità: l’accoglienza, la paternità e maternità responsabile... Si ha quindi una accentuazione di questo ministero. E poi il campo più naturale in cui si compie l’opera evangelizzatrice dei coniugi è costituita dalle altre famiglie. Paolo VI nella «Humanae vitae», al n. 26 la chiamava «l’apostolato del simile da parte del proprio simile». Sono gli sposi stessi che si fanno apostoli e guide di altri sposi (...).

          Abbiamo detto che da un punto di vista teologico il laico nasce con la creazione. Sappiamo che anche la coppia nasce con la creazione. Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, «maschio e femmina li creò». Quando questo laico e femmina, è creato, è creato prima solo perché faccia esperienza di solitudine. È da questa esperienza che nasce un aspetto fondamentale del ministero della coppia che è il ministero della comunione, che è l’essere in comunione. Dall’uscita dalla solitudine ecco la comunione.

          E subito in questa comunione noi abbiamo un altro aspetto fondamentale ministeriale che è l’aspetto del confronto, la capacità del confronto che diventa poi capacità di dialogo. Fino a che punto noi siamo stati capaci di uscire dalla nostra solitudine e di operare un dialogo?

          Il ministero coniugale è ministero di confronto per la realizzazione di una relazione interpersonale. Il laico umanizza il creato e le strutture del creato, il laico sposato umanizza le relazioni interpersonali che sono in ribasso indubbiamente nel mondo d’oggi. C’è una mancanza di umanizzazione nei nostri rapporti, c’è una distanza. Il ministero laicale è ministero di umanizzazione di questi rapporti interpersonali. Da rapporto nasce rapporto ed ecco allora l’umanizzazione della vita che nasce. È chiaro che il ministero laicale è ministero di umanizzazione della vita. Questo concetto non è legato solo alla vita di mio figlio. Umanizzare la vita significa osservare più lontano di mio figlio; ci sono altri figli e ci sono altre persone ancora e c’è tutta una vita, una vita che ha bisogno di essere umanizzata dallo stile laicale delle nostre famiglie. Uno degli aspetti fondamentali, sempre continuando nell’analogia con la prima pagina della Genesi, è una dichiarazione sulla parità dei diritti tra uomo e donna. La Bibbia è indiscutibilmente categorica nell’affermare la dignità paritaria tra uomo e donna. E così tutta la cultura cristiana. Il magistero è sempre stato molto chiaro in questo.

          Ci sono altre parole che invitano ad un ripensamento dello stile laico delle nostre famiglie ed è lo stile della libertà. «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen. 2,24). Fin quando non abbandonerai la casa di tuo padre e di tua madre non creerai questo stile di libertà. Ora questa lotta per la libertà nella famiglia ha un suo valore ministeriale importante perché umanizza la struttura stessa della società. Una famiglia che non è dipendente, che rispetta i valori nei propri figli, è una famiglia che dà lo scatto alla umanizzazione delle relazioni macro-sociali. Una famiglia che nel suo piccolo ha la capacità tollerante ecumenica di rispettare le idee e i componenti è una famiglia che diventa umanizzante di un sistema più grande, più politico di umanizzazione.

          Questo è un valore immenso poche volte considerato. Un altro aspetto: il ministero della coppia e della famiglia è il ministero dell’affettività e della tenerezza. La famiglia è la sede della tenerezza, è la sede della catalizzazione più profonda degli affetti; vale a dire le tensioni, le difficoltà con la crescita della maturazione dell’individuo vengono sintetizzate nell’affettività familiare. Chi opera nel campo della psicologia si rende conto come una famiglia «affettiva» è una famiglia che protegge dalle ansie, dallo stress, da tutti i disturbi della vita d’oggi. Dio è tenerezza profonda; c’è da scoprire tutto un messaggio di tenerezza che ci proviene dall’Antico Testamento, una rivalutazione di un Dio che noi abbiamo definito per antonomasia il Dio del terrore, il Dio della legge. Non è affatto vero è un Dio di tenerezza che abbraccia, che non ha paura di toccare, che è tollerante, che si avvicina. E la famiglia ha questo compito: essere portatrice di tenerezza nei rapporti. Come sono i nostri rapporti, non solo tra marito e moglie ma con gli altri? Con i nostri sacerdoti? Con i nostri Vescovi? Alcuni sanno solo criticare. Siamo in un atteggiamento di non tolleranza e di non affetto.

          Senza pretendere ora di mettere il «cappelletto laicale» a questa considerazione di un prete, vorrei sintetizzare in due parole queste suggestioni. Esse potrebbero essere considerate come le due sponde o le due linee entro le quali percorrere, da parte dei coniugi e delle famiglie, tale itinerario di santità.

          Le due «parole» sono:

          ―    discrezione (in linea col Dio nascosto e con la secolarità);

          ―    amabilità (per regalare agli altri la chance di amarci...)

          La santità passa cioè attraverso la discrezione e l’amabilità. Discrezione, in campo educativo ad esempio, dove occorre essere attenti e discreti nel «tirar fuori» dagli altri quello che Dio ha seminato più che a «metter dentro» quello che noi vogliamo.

          Dovremmo imparare ad essere più «seminatori di mistero» che «fornitori di spiegazioni», e il più grande mistero è l’amore.

          Ultimissima provocazione: si può improvvisare tutto questo? Certo che no. Non è fuori luogo quindi, in questo contesto, un richiamo alla fase della preparazione al matrimonio, seria, adulta e mirata, in modo che il dopo-matrimonio non venga ad assomigliare ad un dopo-cresima...

          L’ultimo documento-sussidio della Cei «La preparazione dei fidanzati al matrimonio e alla famiglia» lamenta nel finale che «l’area del fidanzamento sembra non trovare invece interesse pastorale e opportunità di avangelizzazione che vadano oltre i corsi di prepara­zione immediata»... Io non condivido tale considerazione perché tutto dipende dal modo e dall’atteggiamento con cui ci si accosta a tale «area»...

          Possiamo dire che la santità coniugale vive il suo periodo di incubazione proprio durante il periodo di fidanzamento e che il suo terreno «laico» è costituito dalla graduale interiorizzazione di quella formula che i due pronunceranno davanti alla chiesa e davanti al Signore e che soltanto pronunciata in lealtà potrà scatenare la benedizione di Dio... «Io prendo te come mia/o sposa/o e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel do­lore, nella salute e nella malattia e di amarti ed onorarti tutti i giorni della mia vita».

          Questa formula, che possiamo definire veramente «laica», racchiude la determina­zione di vivere la propria coniugalità come una «piccola alleanza» a somiglianza della Grande Alleanza...

          E così siamo in orbita, nell’orbita di Dio, ma per non uscire dall’orbita e per far sì che la vena del servizio coniugale e familiare per il Regno non si esaurisca, occorre inces­santemente pregare, pregare con la vita, e talvolta insieme, recitare questa richiesta di una mistica araba vissuta prima dell’anno mille: «Mio Dio, se ti servo perché mi dia il Paradiso, non darmi il Paradiso; se ti servo perché ho paura dell’inferno, mandami all’inferno; ma se ti servo solo perché tu sei il mio Dio, o Signore, lasciami che ti serva».

 

Nota Bibliografica

ballestrero antonio, Famiglia e vocazione cristiana, (ldc).

balthasar h.u. von, Piccola guida per i cristiani, (Jaca book).

balthasar h.u. von, Stati di vita del cristiano,

brtetto domenico, Siate santi.

carretto carlo, Famiglia, piccola chiesa, (a.v.e.).

curti antonio, Famiglia e spiritualità (o.r.).

cupia luciano, La piccola chiesa domestica, (e.p.).

de britta a., Prospettive sulla santità della vita familiare nel Vaticano II, (p.u.l. 1971).

gatti gaetano, Famiglia, chiesa in preghiera, (Ancora).

micci costanzo, La famiglia di tutti i giorni, (e.p.)

knigt giovanni, A sua immagine e somiglianza: il piano di Dio per un popolo santo (E.Nazarena).

mohana joao, Pienezza umana, (Queriniana).

de mello a., Il canto degli uccelli, (e.p.).

de mello a., Un minuto di saggezza, (e.p.).

de mello a., Alle sorgenti, (e.p.).

de mello a., La preghiera della rana, (e.p.)

panzeri carlino, Capitolo sulla spiritualità coniugale nel Libro degli sposi, (prossimamente e.p.).

Comunità di Caresto (Milano o.r. 89) I santi sposati.

E naturalmente Familiaris consortio (56 e 2ª e 3ª parte) Christifideles Laici (16). Documenti e dichiarazioni  cei reperibili anche in Enchiridion: 1) 238, 1274, 2137, 2187, 2192, 2200. 2) 2091, 2244. 3) 1341,2490.


[1]     Cf ENCHIRIDION, I, n. 238: «Lettera al clero sulla formazione ascetica dei laici», 1960.

[2]     Cf LATOURELLE «Santità, segno di rivelazione». Gregorianum 1 (1965).

[3]     Cf ENCHIRIDION, I, n. 1274: Direttorio del 1967 su rapporto Matrimonio - Eucarestia.

[4]     Cf ENCHIRIDION. I, n. 2137: Matrimonio e Famiglia 1969; ed anche n.2187.

[5]     Il diavolo sul pinnacolo, ed. Paoline.

[6]     Ibid.