Fiorino Tagliaferri

FEDELI LAICI E FAMIGLIE CRISTIANE PER DARE UN’ANIMA ALLA SOCIETÀ

 

«Sulla famiglia si gioca oggi uno degli appuntamenti più decisivi della missione». È questa una autorevole dichiarazione dei vescovi italiani (C.E.I., Comunione e comunità missionaria, n. 43), la quale riecheggia quanto già afferma Giovanni Paolo II esprimendo «la certezza che l’evangelizzazione, in futuro, dipende in gran parte dalla Chiesa domestica» (Familiaris consortio,  n. 65).

Non è retorica. È, invece, responsabile discernimento di queslla realtà socio-culturale con la quale la missione di evangelizzazione deve oggi fare i conti.

 

1)    La missione della Chiesa si incontra oggi con una mentalità ed una prassi di vita che possiamo definire ambivalenti. Per un verso, nella civiltà contemporanea più diffusa e più comune, c’è, purtroppo, «rottura tra Vangelo e cultura» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 20) o, più concretamente, tra fede e vita. E per un altro verso, rimane i riemerge una nostalgia di Vangelo:

«In questo stesso mondo moderno... paradossalmente, non si può negare l’esistenza di veri addentellati cristiani, di valori evangelici, per lo meno sotto forma di un vuoto o di una nostalgia. Non sarebbe esagerato parlare di una possente e tragica invocazione ad essere evangelizzato» (ivi, n. 55).

          Questa sopravvivenza, forse nascosta ma tutt’altro che spenta, di Vangelo e questa nostalgia di valori evangelici induce, non di rado, anche chi se ne è allontanato a pensare che forse è proprio vero che:

«la fede cristiana costituisce l’unica risposta pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata, dei problemi e delle speranze che la vita pone ad ogni uomo e ad ogni società». (Christifideles laici, n. 34).

          Invece, purtroppo, tra non pochi che si dichiarano credenti e praticanti, la fede sembra assente non solo dal comportamento esistenziale, ma anche dalla mentalità. Pregano con fede, ma non pensano non valutano, non decidono secondo i criteri della fede.

          Per questo, occorre:

          «raggiungere e quasi sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita».

          E occorre farlo

          «non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici» (Evangelii nuntiandi, nn. 19-20).

          Questa è certamente la missione della Chiesa: compito di tutta la Chiesa. Ma la penetrazione capillare dell’umanesimo evangelico nel vissuto dell’esistenza non avviene senza l’opera dei fedeli laici, cioè di quei cristiani che per vocazione vivono la consacrazione battesimale e la partecipazione alla missione della Chiesa, attraverso una esistenza coinvolta con le responsabilità e le condizioni comuni agli uomini in quanto tali. Proprio per questo, sono nella Chiesa la parte maggioritaria.

          «Si trovano nella linea più avanzata della vita della Chiesa; per loro la Chiesa è il principio vitale della società umana. Perciò essi, specialmente essi, debbono avere una sempre più chiara consapevolezza, non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa... Essi sono la Chiesa» (Pio XII, 20 febbraio 1946, cit. in Christifideles laici, n. 9).

          Se — come dice il Papa — «urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana», i fedeli laici «sono pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa» (Christifidelis laici, 34) a tal punto da diventare indispensabili. Il loro «essere ed agire nel mondo sono una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificamente teologica ed ecclesiale», perché «nella loro situazione intramondana, Dio manifesta il suo disegno e comunica la particolare vocazione di cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (ivi, n. 15): in altre parole dare un’anima cristiana alla società umana.

          Tutto questo essi possono e debbono fare primariamente con la testimonianza della vita.

          Dal momento che si tratta di superare la frattura tra il Vangelo e la vita, è vivendo il Vangelo nella quotidianità dell’esistenza e nella ordinarietà delle situazioni che è necessario mostrare con i fatti quanto è possibile e bella la vita cristiana: anche se costa, è una vita che vale.

          «Con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi?» (Evangelii nuntiandi, n. 21)

 

          2)    Impegno di annuncio e di testimonianza: a partire dalla famiglia, perché «la coppia e la famiglia costituiscono il primo spazio per l’impegno sociale dei fedeli laici» (Christifideles laici, n. 40). Si tratta ancora di quel primato in ordine alla evangelizzazione che abbiamo messo in evidenza a principio.

          Il motivo sta nel fatto che se vogliamo — come è irrinunciabile — «rifare il tessuto cristiano della società umana», bisogna centrare l’attenzione su due obiettivi fondamentali: il senso fiducioso e impegnato della vita e il valore promozionale dei rapporti interpersonali. Perché, di fatto, è principalmente su queste frontiere della cultura e del costume che si verificano le conseguenze della frattura tra Vangelo e vita. Ed è su queste frontiere che occorre operare una rinnovata saldatura.

          Ma non c’è dubbio, che il recupero dei convincimenti e delle scelte comportamentali connessi con questi obiettivi passa necessariamente attraverso l’esperienza della vita familiare: possiamo ben dire che incomincia proprio da quella esperienza.

          A questo riguardo, credo importante che, parlando di priorità della famiglia, se ne debba mettere in evidenza il ruolo di soggetto responsabile piuttosto che di destinatario, per una reale ed efficace opera di rinnovamento. La famiglia, cioè, «protagonista attiva e responsabile» non solo «della propria crescita», ma «della propria partecipazione alla vita sociale» (Christifideles laici, n. 41).

          Non si fa demagogia familiare dicendo questo. Perché, nonostante tutto, la famiglia, fra le varie realtà sociali, è una tra le più sane. E se, purtroppo, in molti casi viene meno non solo alla sua funzione ma alla sua stessa consistenza, o è al di sotto della sua autenticità, ciò dipende in gran parte da pressioni culturali esterne che ne snaturano l’immagine proponendo falsi modelli, dallo scarso interesse delle pubbliche istituzioni per le necessità ed i problemi familiari, dalla stessa legislazione che ne ha tradito la stabilità.

          Famiglia evangelizzatrice, famiglia soggetto attivo per la promozione di umanesimo cristiano nella vita sociale: a questo occorre mirare, sapientemente e decisamente.

          Non basta una azione pastorale verso la famiglia. È necessario suscitare famiglie missionarie: comunità familiari, cioè, che con tutti i propri componenti e con la loro compagine unitaria si sentano chiamate da Dio a ridare un’anima cristiana alla società.

          La famiglia cristiana, che si riconosce tale ed intende esserlo davvero, può offrire un esempio convincente di quella vera comunione che coinvolge la vita di fede e quella fisica e sessuale, gli affetti umani, le necessità materiali e gli interessi economici. E tutto questo, attraverso un tessuto di rapporti, che non è occasionale né convenzionale, ma continuo ed allo scoperto, senza maschera, perché in famiglia nessuno ha la possibilità di sembrare quello che non è: in famiglia non si è personaggi che recitano, ma persone che vivono.

          C’è bisogno di famiglie che rendano credibile l’amore fedele tra marito e moglie, la responsabilità di procreare ed educare, il rapporto di affetto cristiano tra genitori e figli, l’integrazione evangelica tra giovani e anziani, la gioia di vivere insieme.

          Solo vedendole, ci si convince che sono davvero possibili e che vale la pena esserlo o diventarlo.

 

          3)    Il senso della vita e la vita di rapporto interpersonale: sono — come dicevamo — le due componenti dell’esistenza che urge oggi recuperare. Ed è indispensabile recuperarle secondo quella identità cristiana che sola può dare loro vera consistenza.

          L’apporto della famiglia è talmente decisivo che, mancando questo, o diventa vano l’impegno per il recupero del senso della vita e della vita di rapporto, o l’eventuale recupero rischia di essere solo apparente o innaturale.

          Non solo quindi è da promuovere il protagonismo della famiglia, ma occorre anche aiutarla ad assumere realmente «il compito di essere il luogo primario della umanizzazione della persona e della società» (ivi, n. 40).

          Là dove si comincia a vivere e dove il vivere si esprime nelle forme più elementari, si scopre o non si scopre il senso della vita, in quel modo esperienziale che precede e condiziona la sua concettualizzazione.

          Il primo impatto col senso della vita avviene, infatti, attraverso l’intuizione affettiva per la quale un bimbo, che ancora non parla, si sente o non si sente amato.

          Il poeta Virgilio, in una sua famosa poesia, canta questa prima intuizione affettiva, che è anche la prima gioia della vita che si schiude: «incipe parve puer risu cognoscere matrem» (incomincia, o bambino, a riconoscere la madre dal sorriso). È la gioia del bimbo che incomincia a riconoscere la madre da come lei gli sorride e, al tempo stesso, dimostra di riconoscerla dal modo con cui le sorride.

          Che la vita è dono lo si esperimenta sentendosi amati là dove si nasce e cresce. E la si accoglie come impegno responsabile se, là dove si è uniti dai vincoli della consanguineità e della parentela, si sperimenta davvero che è bello ed è possibile vivere gli uni per gli altri con serena gratitudine. Dalla riconoscenza per ciò che vivendo si riceve gratuitamente, nasce la generosità di impegnarsi a fare della vita una risposta a ciò che ci è chiesto.

          Non poche delle devianze psicologiche e morali sono connesse con la mancanza di questa esperienza familiare o con una esperienza familiare deludente, che determinano frustrazioni, asocialità, o ricerca di false compensazioni, per le quali si può giungere alle conseguenze più assurde o drammatiche, oppure si finisce per ristagnare nella durezza del cuore o nell’indifferenza per ogni norma morale.

 

          4)    Altrettanto decisiva è l’esperienza familiare per sostituire, ai vari livelli sociali, una vita armonica di rapporti interpersonali. Non solo: ma la famiglia è il primo spazio dove si è chiamati ad animare di fede questi rapporti. Per questo, è un grosso errore quello nel quale cadono, a volte, certi cristiani impegnati. Sono generosi, disponibili, operosi in parrocchia o nell’associazione e nel movimento, nell’ambiente sociale e, viceversa, diven­tano litigiosi, individualisti, assenti o estranei nella vita familiare.

          Gesù ha dato alla carità dimensioni universali, mettendoci in guardia dall’impri­gionare l’amore dentro i rapporti tra i vicini, i parenti, gli amici, le persone simpatiche o affini. Ma come è possibile amare i nemici se non ci si ama davvero tra persone della stessa famiglia?

          Rinchiudere l’amore tra le pareti domestiche è condannarlo a morire. Ma un amore che pretende sottrarsi a questa sua prima proiezione rischia di essere illusione: l’amore va lontano, solo se parte da vicino.

          E credo non ci sia dubbio che il comandamento «amatevi come io vi ho amato» ha come primi destinatari marito e moglie, genitori e figli, familiari. Di qui si parte per quella espansione dilatante che suscita nel mondo la civiltà dell’amore.

          Tant’è vero che i fondamentali rapporti sociali sono espressi comunemente con categorie familiari. Si parla della universale «famiglia umana», di cui tutti i popoli fanno parte, uniti da «umana fraternità». Ma, prima ancora, Dio stesso ha voluto che i rapporti degli uomini con Lui siano di tipo familiare: Egli è Padre e tutti noi siamo Suoi figli, «generati da Dio» (Gv 1,13). Vuole fare di tutti la «Sua famiglia» (Ef 2,19) e Cristo insieme alla vita nuova che ci comunicò con la Sua morte, ci ha donata per madre Maria.

          Come la famiglia è «Chiesa domestica», così la Chiesa è «la famiglia» dei credenti in Cristo.

          Le conseguenze sono irrinunciabili: la grande famiglia della fraternità si realizzerà a livello sociale e mondiale, se ha il suo fondamento in quella realtà primaria che ne è la fonte e l’esempio.

          E la comunità ecclesiale vivrà come famiglia dei figli di Dio se ha come alleate le comunità familiari dei figli degli uomini.

          È compito, sopra tutto, dei laici realizzare una vita familiare che risponda a queste attese ed a queste speranze. Compito degli sposi e genitori, ma anche dei figli che sono anch’essi responsabili della vita familiare. Compito dei giovani, degli adulti, degli anziani: in ordine alle famiglie già esistenti ed in vista di quelle alle quali ci si prepara. Compito di tutte le età: in quella complementarietà intergenerazionale che è alla base della vera comunità.

          Ed è compito delle famiglie cristiane aperte ad un costante rapporto formativo tra di loro, dal momento che nessuna può considerarsi autosufficiente o destinata solo a sé stessa. E, perciò, protese all’amicizia comprensiva ed accogliente verso le famiglie in difficoltà.

          Il compito non è facile, ma è splendido, di questo servizio ha bisogno oggi il mondo per diventare più umano, e Cristo chiede di collaborare con Lui a renderlo tale.