di P. Juan José Argandoña fam

 

       Se il Signore si incaricò di mettere opportunamente al fianco della Madre le persone giuste, nel momento giusto perché l’aiutassero a portare avanti le opere impegnative che le assegnava, si potrebbe dire analogicamente che al Padre Serafino il Signore concesse il dono di Fratel Giuseppe perché gli fosse confratello, amico, confidente, braccio destro, consigliere agricolo, sostegno e così via dicendo. Era nato a Motta di Livenza, nel Veneto in ambiente contadino, tanti anni prima. Per lo meno in quell’ambiente giovanile di Villa San Michele sembrava un vecchio, così come il quasi trentenne Bruno Corsetti e il suo coetaneo Alfayate.

       Tutta un’infanzia e una gioventù contadina, all’ombra della parrocchia, con incluso la sofferta esperienza di una guerra mondiale vissuta al fronte senza convinzione, gli ci era voluta per scoprire la sua autentica vocazione di Figlio dell’Amore Misericordioso.

Niente di male d’altra parte se invece di essere un operaio della vigna di primissima ora, si rimboccava le maniche a mezzogiorno. Il lavoro che l’attendeva era ugualmente molto e meritevole. Mise a disposizione la sua sapienza agricola e divenne fin dal principio il general maneger della fazenda. Alto, robusto, sano, faceto, cuore sensibile sotto forme burbere, formò subito con P. Serafino una coppia così indissolubile che se mi si permettesse una malignità di sapore spagnolo, ricordavano quella di Don Chisciotte e Sancio Panza.

       Così come Giuseppe era rispettoso di tutto l’ambiente che spettava al Superiore e Maestro dei Novizi, Serafino dava via libera e si rimetteva lui stesso ai dettami di Giuseppe in tutto ciò che si riferiva al buon andamento dell’azienda agricola.

       Per molti anni intere generazioni di giovani seminaristi hanno imparato la laboriosità e il maneggio degli strumenti agricoli, il tratto con gli animali sotto la guida attenta ed esperta di Giuseppe Tubiana.

Ce n’era tanto di lavoro allora a Campobasso. La tenuta era abbastanza estesa e disponeva anche di pinete e di boschi e si curava perfino di un bel gregge di pecore e di quell’altra variopinta, chiassona mandria o gregge o banda di tacchini che dopo aver vagabondato durante tutto l’anno per i campi, inseguendo cavallette, a Natale, già belli e ingrassati infilavano il furgone di P. Alfredo per tutte le direzioni delle case della Congregazione.

       Fratello Giuseppe era allo stesso tempo un efficiente capataz e un educatore tipo Aristotele con lezioni peripatetiche, alla luce del sole lungo i sentieri dei campi. Sapeva che i ragazzi imparano tanto o più dagli esempi, per l’influsso di una parola buona al momento opportuno e in questo senso si può dire che fu un vero educatore.

       Soprattutto sempre metteva a disposizione l’esempio della sua laboriosità, l’amore alla Congregazione, la fedeltà agli impegni e agli orari della comunità la sua solida pietà. Nonostante le sue giornate fossero veramente impegnative e arrivasse alla sera stanco morto, gli rimaneva ancora vigore per essere attivo alla ricreazione e aveva tanti aneddoti da raccontare una e cento volte alle successive generazioni di novizi. Quel pomeriggio memorabile dell’attesa e celebrata visita della Madonna di Fatima nessuno sapeva a quale influenza avesse ricorso, ma lui era felice nello stringersi al petto la bianca colomba tolta dai piedi dell’immagine che lui si era fatto consegnare dal missionario di accompagnamento.

        Anche in fatto di pietà mariana era infatti un buon alleato di Serafino. Questi la prima cosa che fece nel giungere a Villa San Michele fu nominare ufficialmente la Madonna padrona e Signora della Casa. Una chiave di casa venne collocata ai piedi della statua di Maria che sovrastava l’entrata del noviziato a significare che la titolarità non doveva essere unicamente simbolica.

       Così pure i riferimenti geografici erano per Giuseppe in prevalenza luoghi mariani. Visitò più volte il Santuario di Montevergine e quello di Castelpetroso. Più vicino era quello semiabbandonato, ma sempre suggestivo di Faifoli, tappa obbligata per lo meno una volta all’anno quando con tutto il gruppo degli apostolini si decideva di andare a passare una giornata di riposo sulle sponde del Biferno, a piedi ovviamente.

       La sua forte fibra gli permise di dare tutte le sue risorse fisiche al servizio della Congregazione, senza mai badare alla sua salute, senza concedere alcuna importanza a quello che faceva, alla dipendenza che tutto il lavoro agricolo di Campobasso, aveva della sua persona. Quando però si rese conto che l’età non era uno scherzo e che le forze non erano più sufficienti si dimostrò ancora una volta disposto a seguire la volontà del Signore manifestata dai Superiori e accettò fiducioso di ritornare a Collevalenza ad intonare il Nunc Dimittis.

       Come Serafino in quelle lunghe serate insonni alla Casa del Clero di Perugia, così anche Giuseppe nel Santuario e nelle sue accoglienti adiacenze poté passare lunghe ore di rievocazioni e di vivaci ricordi dei tempi di Campobasso.

L’estate era un brulichio di ragazzi, di vari luoghi di origine: umbri, marchigiani, veneti, siciliani e quegli spagnoli indomabili, buoni nel fondo e buoni lavoratori, ma quanto irrequieti e “tamburri”. Ma chi gli aveva messo in testa a Javier Martínez di mettere la retromarcia del trattore e spiattellare contro il muro il pur robusto Albino Pérez?

Ma quanti angeli custodi si portano dietro questi spagnoli, Padre Serafino? Accorsero a raccogliere la salma del buono Albino e se lo ritrovarono intontito, ma sano, intero, senza una scalfittura. Solo il muro della stalla aveva perso parte dell’intonaco.

       Quell’altra volta il trattorista era lo stesso Padre Serafino ancora giovane e spericolato e Bruno Corsetti per una volta si era rifiutato di salire in alto per aggiustare il carico delle balle di fieno di modo che quell’altissimo castello portava la firma di Antonio Balerdi che in compagnia del pur novizio, Giovannino, da lassù si godeva il panorama, di ritorno verso casa. Giuseppe vide traballare il carico da lontano sussultare prima e poi rovinare a terra lungo il pendio.

       Anche il trattore si capovolse travolgendo l’onorevole conduttore.

       Serafino si rialzò quando e come poté, illeso, i due novizi finirono rotolando nel rigagnolo, ma anch’essi se ne vennero fuori coi propri mezzi ridendo come matti.

Fosse Don Michele Di Penta dalla sua statua marmorea alla porta delle suore, fosse la Vergine Santissima che custodiva la tenuta strategicamente collocata in varie immagini, fosse San Giuseppe, anche lui espressamente incaricato del buon andamento e particolarmente della parte economica della casa, fatto sta che quanto aveva lavorato la Provvidenza a Matrice, quale costante, provvida generosa protezione si era potuta costatare in quella casa, con tanti ragazzi, con tanti pericoli in agguato!

       Giuseppe Tubiana, lo storico, il mitico Fratel Giuseppe di Campobasso, si spense a Collevalenza nel mese di agosto del 1999.

       Conosce qualcuno i motivi che spingono Dio a portarsi via certe persone che sono utili nella terra prima del tempo?

Personalmente, ma poi non saprei come dimostrarlo, credo che il Signore chiama ciascuno nel momento più propizio per l’interessato, sia per il bene come per il male. Perché il Signore si portò via P. Nello prima di compiere trent’anni? E P. Gino quand’era ancor utile e valido? E Padre Umberto, Tosi, Fratel Antonio Alfayate?

       Perugia doveva essere la tappa di preparazione della dipartita di P. Serafino. Sicuramente gli costò obbedire e lasciare Campobasso e trasferirsi nella capitale umbra per incaricarsi della direzione della nuova Comunità nella casa del Clero, in Piazza IV Novembre. Un nuovo, vasto campo d’azione. Tanti sacerdoti da accudire con premure materne, due suoi ex-novizi ora confratelli da stimare, da stimolare da edificare, non più con l’autorità, ma con l’esempio. Quale cambiamento, vero P. Alessandro, nel Serafino che ci ritrovammo nel ’76 a Perugia! C’era tanta tenerezza tenuta in serbo da esprimere, tanta libertà interiore da sprigionare, tanta conversione da espletare.

       Ancora una volta si dedicò ai sacerdoti, aiutò nelle parrocchie, visitò confratelli, modernizzò le strutture, mise a disposizione delle suore i più moderni attrezzi da cucina che andava a scovare nelle fiere di Rimini o dovunque ci fosse bisogno. Ora Collevalenza era a due passi e gli risultavano più agevoli gli impegni di direzione della Congregazione perché da sempre il suo posto era tra i membri del Consiglio. E la Madre pure era, ora, più vicina. Un’altra passione sua intima, indicibile era la Madre. Ed era più vicino anche il suo Padre Spirituale, al quale si era sempre affidato e raccomandato con l’umiltà e la fiducia di un bambino. Pochi anni a Perugia e Gesù lo trovò maturo e non conosco nessun giardiniere più saggio di Gesù in fatto di trapianti di fiori. La malattia, le cure all’ospedale di Perugia, i momenti di ripresa e di speranze, che valore reale hanno in prospettiva divina, di fronte al fatto della salvezza?

       Serafino Romanelli si spense a Perugia il 9 Gennaio del 1981.