LA FRATERNITÀ SACERDOTALE

DONO DI GRAZIA PER I SACERDOTI

E TESTIMONIANZA EFFICACE

PER IL POPOLO DI DIO

Collevalenza 13 agosto 2001

Relazione di

don Luciano Pascucci

responsabile del servizio di formazione permanente

del Clero della Diocesi di Roma

Un’ecclesiologia di comunione

Il tema della comunione, che è stato al centro dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, chiamata per l’appunto “ecclesiologia di comunione”, sta ritornando in tutta la sua forza. È soprattutto la lettera apostolica Novo Millennio Ineunte di Giovanni Paolo II che ripropone questa dimensione così importante della vita della Chiesa:

“... la comunione incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa...” (n. 42).

“ Occorre dunque fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la sfida che ci sta davanti nel millennio, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo... Prima di programmare iniziative concrete, occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare...” (n. 43).

Qui è chiara l’allusione al seminario, in cui la formazione alla fraternità sacerdotale deve avere un’attenzione tutta particolare. Anzi, la capacità di autentica fraternità, insieme allo spirito di preghiera, all’assimilazione profonda della dottrina della fede e al carisma del celibato è uno dei requisiti fondamentali per verificare l’idoneità dei candidati al sacerdozio.

S. Gregorio Magno arriva a dire che chi non è capace di dare testimonianza di vera carità non dovrebbe ardire di assumersi il ministero sacerdotale. E possiamo capire perché: la carità pastorale, centro vitale dell’identità del prete, non sopravvive in un cuore incapace di lasciarsi amare teneramente da Cristo, in una vita nella quale non si manifesti quotidianamente e concretamente lo sforzo di amare - per amore di Cristo - i fratelli, a partire da quelli che condividono la stessa chiamata e la solidale responsabilità del popolo di Dio.

Se il tema della carità pastorale sta veramente alla base di ogni altro tipo di discorso che possiamo fare sul sacerdote, il discorso sulla fraternità sacerdotale viene subito dopo.

Ora, poiché l’amore è relazionale, il primo compito è quello di far sì che le relazioni ad intra ed ad extra siano relazioni d’amore, anzi traducano concretamente questo amore.

Ma come si fa a parlare di carità pastorale se noi non riusciamo ad avere con i confratelli relazioni improntate all’amore evangelico, a partire dal nostro Vescovo?

Anche i fratelli nel presbiterato devono essere obiettivo privilegiato della carità pastorale del sacerdote.

Sicuramente su questo punto noi sacerdoti facciamo molta fatica, ma siamo coscienti che è un punto qualificante di tutto il ministero (anche per il discorso vocazionale).

Non possiamo su questo punto far finta di niente o ignorarlo, perché lo sappiamo bene, ne va dell’efficacia del nostro ministero.

Per questo anche se a volte siamo concretamente scoraggiati nella realizzazione della fraternità sacerdotale (del resto non dipende solo da noi!), l’importante è che non vengano mai meno i motivi ideali che, lungi dal frustrarci, ci spingano ogni volta a puntare alto, a tendere verso questo obiettivo. Senza questi grandi motivi ideali, rischiamo continuamente di volare basso e così non arriveremo molto lontano nel nostro ministero.

Fondamento sacramentale

Oltre ai motivi ideali e teologici ben noti, legati all’esempio di Gesù, del collegio apostolico e della chiesa primitiva (che non sto qui ad approfondire), oltre al riferimento alla Trinità, per cui la fraternità sacerdotale è “specchio” della comunione trinitaria, mi voglio soffermare a riflettere soprattutto sul fondamento sacramentale della fraternità sacerdotale.

Il Concilio Vaticano II su questo punto ci ha chiarito molto le idee:

“Tutti i presbiteri costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati sotto il proprio Vescovo... Pertanto, ciascuno è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità...”1.

“In virtù della comunità di ordinazione e missione, tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità”2.

“Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la chiesa!”3.

Oltre al Concilio, c’è anche il magistero più recente del Papa e dei vescovi:

“Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, ha una radicale forma comunitaria e può essere assolto solo come un’opera collettiva”4.

“Non può esistere il prete solitario; con l’ordine sacro egli entra a far parte di una fraternità sacramentale, e la comunione diventa la modalità fondamentale attraverso cui ogni presbitero serve la Chiesa e ne promuove la missione nel mondo”5.

Ciò che unisce noi presbiteri è veramente notevole!:

La relazione personale con Cristo

Certamente la relazione personale con Cristo sta alla base di tutto e quindi anche della fraternità sacerdotale. Ricordiamocelo sempre: non c’è comunione ecclesiale e comunione presbiterale senza il fondamento verticale.

Nel N.T. e nei Padri “Koinonìa” non significa primariamente una comunione degli uomini tra loro. Non è quindi quella rete di rapporti personali, né quell’atmosfera di calore, accoglienza e sicurezza di cui tutti abbiamo bisogno e che sicuramente nei nostri presbiteri si dovrebbe avvertire assai più di quanto non si avverta.

Il senso originario di communio non è “comunione” o “comunità”, ma “comune partecipazione” a Gesù Cristo, alla sua Passione, alla sua Risurrezione, al suo Vangelo, al suo servizio. È solo tale partecipazione comune all’unica realtà di Gesù Cristo a dar fondamento alla comunione vicendevole e dunque alla fraternità sacerdotale. “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

“La nostra comunione si basa solo su ciò che Cristo ha fatto per ambedue e sarò in comunione con l’altro solo per mezzo di Gesù Cristo... Quanto più profonda è la nostra comunione con lui, tanto più svanirà quello che può esserci tra noi...”6.

Nella rivelazione cristiana la comunione è anzitutto realtà teologale. Dio nel suo essere è comunione, lo Spirito è Spirito di comunione e Cristo è persona corporativa, è il capo del corpo che è la Chiesa. Comunione è la vita trinitaria divina, vita fatta di ascolto, scambio e donazione reciproci fra le persone divine. Essendo costitutiva della vita divina, la comunione è essenziale anche alla chiesa e come è fondamentale che i sacerdoti la rispecchino nelle loro relazioni e con il Vescovo, formando un unico presbiterio!

Su questo punto l’esortazione apostolica Pastores dabo vobis ha una bellissima pagina:

“La fisionomia del presbiterio è quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’ordine (una realtà soprannaturale dunque!): una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali...” (n. 74).

Due rischi molto reali che si possono correre nel discorso sulla fraternità:

  1. Rischio di fermarsi alla sola dimensione umana. I legami comunionali nel presbiterio “non sono dalla carne e dal sangue, ma dalla grazia del sacramento dell’ordine”, e quindi non si fondano su simpatie, su mentalità affini, su scelte personali. Nel ministero ci si affratella per scelta di fede, in ragione di qualcosa che è oltre noi, ci antecede e ci supera, per vocazione. La tensione alla fraternità è uno dei compiti spirituali irrinunciabili in un cammino di maturità evangelica nel ministero. Se poi ci dovessero anche accompagnare delle affinità e delle amicizie, sarà un dono ulteriore; ma la chiamata a divenire un presbiterio è inscritta per tutti fin dall’origine, nell’atto stesso in cui nella chiesa si è costituiti presbiteri. Dunque è sbagliato scegliere dove fare fraternità sacerdotale. La scelta del crescere insieme come presbiterio diocesano deve innervare continuativamente tutti i luoghi naturali del ritrovarsi tra preti nelle parrocchie, nelle comunità in cui si opera, nei vicariati. Cardine e motivo propulsore di questo imperativo è la coscienza della comune appartenenza al sacramento dell’ordine.

 

  1. Rischio di fermarsi alla sola dimensione di fede. Espressioni come queste sono molto sbagliate: “La sola cosa che può legare parroco e viceparroco è Gesù Cristo e non l’amicizia!”; o anche: “La comunione non va cercata e fondata sulle iniziative!”. La fraternità non deve limitarsi alle affermazioni di principio, pur così solenni e fondate, ma tradursi in esperienza di vita vissuta e realizzarsi nella situazione concreta. Come non esiste solo una “ecclesia in cordibus”, in senso astratto e solo spirituale, ma esiste una chiesa che è fatta di persone concrete, che entrano in relazione, si incontrano, si amano, si perdonano -e questo per il mistero dell’incarnazione-, così non esiste una fraternità sacerdotale in astratto, ma solo una fraternità che tende a diventare fraternità realizzata, nella ferialità dei rapporti.

Il Vescovo costruttore di Comunione

La fraternità sacerdotale ha dunque un fondamento verticale che parte da Cristo, ma per la sua natura sacramentale non può non passare attraverso la mediazione del Vescovo, al quale il sacerdote è legato per una communio sacramentalis.

Nell’ Instrumentum laboris del prossimo sinodo dei Vescovi, che ha come tema: “Il Vescovo per la speranza del mondo”, si dice che:

“Un necessario atto della comunione è quello dell’unione sacramentale del presbiterio attorno al suo Vescovo. Secondo i testi più antichi della tradizione, come quelli di Ignazio di Antiochia, esso è parte essenziale della Chiesa particolare. Fra il Vescovo e i presbiteri esiste la communio sacramentalis nel sacerdozio ministeriale o gerarchico, partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo e pertanto, anche se in grado diverso, nell’unico ministero ecclesiale ordinato e nell’unica missione apostolica” (n. 86).

Come conseguenza di tutto ciò:

“... La relazione sacramentale-gerarchica si traduce nella ricerca, costantemente coltivata, di una comunione reale del Vescovo con i membri del suo presbiterio e conferisce consistenza e significato all’atteggiamento interiore ed esteriore del Vescovo verso i suoi presbiteri...” (n. 87).

Anche nel documento della Commissione episcopale della CEI per il clero: “La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre chiese particolari”, si afferma a chiare lettere che “la grazia del ministero episcopale sta alla base di un rapporto di comunione con tutti i presbiteri, e incoraggia a stabilire con essi un rapporto personalizzato provocando opportune occasioni... si richiede nel Vescovo una particolare attenzione a tutto il suo presbiterio: perché il servizio episcopale passa necessariamente attraverso la grazia e la modalità di una comunione con i suoi sacerdoti... (n. 27).

Ecco una testimonianza autobiografica molto bella del Card. Hume su questo punto:

“Credo che una delle mie maggiori preoccupazioni come vescovo sia il benessere e la felicità dei sacerdoti, e penso che la mia prima responsabilità sia di occuparmi e di prendermi cura di loro. Come è difficile restare in contatto ed essere sempre disponibile!

Credo che una delle qualità più importanti che un vescovo deve avere sia il tempo. Il guaio per la maggior parte di noi è che non abbiamo tempo. Non abbiamo tempo per pensare, per pregare, né abbiamo tempo per gli altri. Così manchiamo di ciò che i sacerdoti vogliono essenzialmente trovare in noi, il tempo, solo il tempo di essere disponibili. Penso che se come vescovo ho passato la giornata semplicemente a dire “grazie” e “molto bene” ai sacerdoti, ho fatto un bel po’ del mio lavoro, perché credo che molti nostri sacerdoti siano scoraggiati, incerti e abbiano bisogno della nostra dedizione e della nostra guida”.

Certamente è necessario che da parte del Vescovo ci sia un impegno tutto particolare per creare comunione tra i suoi sacerdoti, ma è anche necessario che da parte dei presbiteri ci sia l’impegno a coltivare e ad approfondire questa comunione con il Vescovo.

Per quanto riguarda il discorso sulla comunione il confronto con il Nuovo Testamento, come anche il riferimento al sacramento dell’ordine è fondamentale per ricondurre le nostre questioni agli elementi essenziali e non permettere che elementi non essenziali e anche conflitti marginali assumano spessori troppo grandi e troppo forti.

Ad esempio dobbiamo liberarci da una concezione moralistica della comunione, che rischia di essere troppo riduttiva. È chiaro che dalla realtà teologale della comunione deve scaturire l’impegno a perdonarsi, ad amarsi, a sopportarsi... però non è vero che se non riesco ad avere simpatico il Vescovo, non c’è più nessuna comunione con lui. La comunione è qualcosa di ben più profondo! Dobbiamo ritornare continuamente alle dimensioni profonde della comunione e allora nessun conflitto e nessuna divergenza potrà mai compromettere tale comunione. Solo se abbiamo poca fede e confondiamo comunione “spirituale” con comunione “psichica”, allora certi conflitti superficiali possono diventare talmente grandi da far sembrare che la comunione è finita. Grandi santi hanno fortemente litigato tra di loro, ma la comunione profonda non è stata mai messa in discussione. Basterebbe ricordare sempre che ciò che ci unisce con il Vescovo e con gli altri presbiteri è molto più grande di ciò che ci può dividere. Anche i risentimenti che ci sono tra i sacerdoti come anche con il Vescovo e che spesso compromettono la fraternità sacerdotale, sono sempre segno di vacuità interiore. Infatti il mio atteggiamento esteriore riflette molto bene se io sono interiormente pacificato o se sono interiormente vuoto.

Seminatori di speranza e tessitori di comunione tra confratelli

Inoltre nella lettera ai sacerdoti della Commissione episcopale della CEI per il clero si afferma che “è particolarmente promettente per la formazione permanente la presenza di alcune figure nell’ambito della fraternità sacramentale del presbitero: quelle persone informali di preti carismaticamente dotati sul piano della relazione, o comunque consapevoli che un dono prezioso, soprattutto oggi è il dono dell’incoraggiamento e della speranza. Non va ignorato che soprattutto in alcune epoche della storia è di ritorno una penuria di profezia, sotto il peso di un ministero che sembra avaro di risultati. Ora è proprio questo il tempo dei seminatori di speranza, non solo nel popolo di Dio, che sembra dare segnali di scoraggiamento soprattutto di fronte al suo ruolo storicamente inedito di “piccolo gregge”, ma non meno nei confronti dei confratelli chiamati pur sempre a stare davanti al gregge come Cristo pastore.

Il presbitero non è solo segno di comunione nel vivo della sua comunità, ma è animatore di comunione nel presbiterio, e pertanto promotore di dialogo, di collaborazione e di formazione permanente. Forse sta qui uno dei segreti più efficaci per incoraggiare una buona partecipazione ai programmi pastorali di una Chiesa particolare: che ci siano dei presbiteri consapevoli di essere seminatori di speranza e veri tessitori di comunione” (n. 27).

Quanto ci unisce l’EUCARESTIA!

“Dal momento che vi è un solo pane, noi, che siamo molti, formiamo un solo corpo; poiché tutti noi partecipiamo di quest’unico pane” (1 Cor 10,17).

Ritrovandosi tutti insieme attorno all’altare a celebrare l’Eucarestia con unanimità di sentimenti, insieme con il proprio Vescovo, i presbiteri manifestano l’unità della chiesa, del sacerdozio e del presbiterio.

L’Eucarestia è evento e progetto di fraternità (Dies Domini p.72).

Il cammino verso la comunione parte sempre dalla mensa dove Cristo spezza il pane. La concelebrazione è un segno molto importante per la fraternità sacerdotale.

La pratica della comune meditazione della Parola di Dio

Evitando di fare una lettura di tipo scolastico, di studiare il testo in funzione pastorale, per vedere come prepararci all’omelia e come fare la catechesi su questi testi, l’esperienza di leggere e meditare fra noi presbiteri la Parola, comunicando le proprie difficoltà e le proprie realizzazioni di fronte ad essa, è lo strumento primario per la maturazione della comunione nel presbiterio.

Quanto si parla poco tra i sacerdoti della propria fede! Spesso capita che in un gruppo di amici preti si sia compagni, ma non si parli mai della propria fede e del proprio ministero.

La comune meditazione della Parola di Dio crea comunione perché lì tutti siamo riportati alla radice e le singolarità si sottopongano al giudizio della Parola di Dio. Solo facendoci giudicare tutti dalla stessa Parola, realizziamo la comunione: nessuno è sopra la Parola di Dio.

In At 20,32: S. Paolo consegna gli anziani alla Parola, che ha il potere di edificare (nella comunione).

Se le cose stanno così allora la fraternità non si programma, né si inventa, ma si domanda e si accoglie con animo grato. La comunione presbiterale è un dono da chiedere. Gesù non parla di comunione, ma la prega, la chiede al Padre per i suoi discepoli per i futuri credenti e per la chiesa (cf Gv 17).

Una volta chiarito questo, allora saremo ben motivati per realizzare la fraternità sacerdotale nella ferialità.

E qui dobbiamo lavorare molto per allontanare una certa diffidenza e tanti pregiudizi, così diffusi tra noi sacerdoti.

Lei crede nell’amicizia tra i sacerdoti?

“Lei crede nell’amicizia tra sacerdoti, intendo per amicizia non tanto o, per lo meno, non solo la condivisione delle convinzioni, fede, ideali, problemi, affanni, quanto piuttosto quel piacere sottile indefinibile di rivedersi, stare insieme, scherzare, parteciparsi qualcosa della propria vita? Osservi come si comportano i sacerdoti quando si incontrano per un convegno, una giornata di studio o di preghiera. Terminata la lezione o la meditazione o la celebrazione liturgica tutti scappano incalzati dalla fretta, tutti hanno qualcosa a cui pensare o da fare più importante o dilettevole che stare insieme, tradendo così una triste penosa indifferenza verso gli altri. Non c’è malanimo, c’è di peggio: indifferenza, assenza di sentimenti.

La presenza dei confratelli non risveglia nulla nel cuore, ognuno è semplicemente superfluo.

A volte osservando questi comportamenti di fuga, mi viene un sospetto orribile: il prete non sa amare, non ha voglia di amare. Eppure conosce la voce e i richiami del cuore, l’isolamento, il bisogno del calore umano, ma non gli interessa l’amicizia, forse neppure la cordialità, quel sentimento spontaneo sincero che fa scivolare il cuore nel palmo della mano e cambia, nell’individuo, il suo modo di guardare, ascoltare, parlare e induce alla confidenza. Mi è capitato spesso di ascoltare colti e brillanti conferenzieri, carismatici maestri di preghiera, ma ho dovuto constatare, molte volte, che neppure loro si sottraggono alla regola, non sono capaci di amicizia, spesso non sanno neppure salutare: il loro cuore umano è arido”. (Un sacerdote)

Segni di fraternità sacerdotale

Lavoriamo seriamente per superare una certa sfiducia e una certa scontentezza così diffusa tra i sacerdoti.

Ecco alcuni segni di fraternità sacerdotale molto concreti:

1. Il segno dell’umanità del prete.

Impegniamoci a fare di ogni incontro presbiterale un incontro interpersonale, così che l’altro si senta riconosciuto, stimato e amato.

Nessun incontro fra due e più sacerdoti dovrebbe avvenire senza che in qualche misura, questa dimensione interpersonale si esprima. Essa è il primo segno della nostra umanità e del fatto che non ci annulliamo nella funzionalità.

Consiste nel far sì che quando ci si incontra tra preti, qualunque sia l’ordine del giorno, avvenga anzitutto che degli uomini si incontrano precisamente come tali, come esseri umani che si guardano in volto, si salutano, si accolgono, si aprono gli uni agli altri, escono dal chiuso del proprio individualismo, dall’indifferenza, dai pregiudizi.

Avvenga insomma che, trovandosi per un incontro pastorale, si metta in primo piano l’incontro interpersonale. Mi offende molto quando qualcuno mi dice: “Vengo all’incontro solo se c’è un relatore interessante!” Ma noi confratelli non siamo altrettanto interessanti?

Gli incontri di tipo spirituale e pastorale non sono solo funzionali a “dopo”, per le scelte che vi si operano; bensì hanno un valore per se stessi, quali segni visibili di quella fraternità che è vissuta appartenenza al presbiterio. Per questo va messa in conto una certa ascetica degli incontri, favorendo l’amicizia tra sacerdoti, l’accoglienza e talora anche la sopportazione reciproca dei pesi del ministero.

Gli incontri di formazione permanente aiutano senza dubbio il sacerdote a vivere la dimensione della Chiesa-comunione. Uno può anche formarsi a livello personale, ma ha bisogno di questi incontri per crescere nella dimensione della fraternità e del presbiterio.

 

2. Il segno della corresponsabilità nel ministero

Un altro segno di fraternità sta nel dialogo personale che costruisce il rapporto tra i sacerdoti intorno alla responsabilità che portano, insieme con il vescovo, al lavoro che condividono e alla ricerca comune dei sentieri percorribili e proponibili per la vita cristiana della comunità. Si realizza, quando nelle nostre riunioni di lavoro siamo pronti ad ascoltare gli altri, a lasciarci stimolare, a individuare vie opportune per il lavoro di tutti, evitando sia lo spirito di contraddizione, sia la ricerca di un certo protagonismo personale.

Un altro capitolo molto importante è:

 

3. Fraternità e comunicazione

“Per diventare fratelli e sorelle è necessario conoscersi. Per conoscersi è importante comunicare in forma più ampia e profonda”.

“La mancanza e la povertà di comunicazione generano di solito l’indebolimento della fraternità, per la non conoscenza del vissuto altrui che rende estraneo il fratello e anonimo il rapporto, oltre che creare vere e proprie situazioni di isolamento e di solitudine. Non vi può essere fraternità laddove non c’è comunicazione” (Vita fraterna in comunità ai nn. 29 e 32).

In maniera simpatica potemmo misurare con un comunicometro la capacità e la volontà di comunicazione dei presbiteri:

-2: livello delle accuse incrociate (disistima)

-1: ambito delle polemiche e delle recriminazioni

0: livello del silenzio. Si convive

+1: La buona educazione (saluti e altre banalità)

+2: scambio di informazioni e di ordine di servizio

+3: affrontamento comune e analisi vera dei problemi concreti

+4: messa in discussione in comune dei valori

+5: là dove comincia il problema dell’io e del tu

4. Attenzione ai confratelli che hanno lasciato il ministero

Nel discorso sulla fraternità sacerdotale non va trascurata l’attenzione e l’accoglienza dei sacerdoti che hanno lasciato.

“Penso anche a quei sacerdoti che per diverse circostanze non esercitano più il sacro ministero, pur continuando a recare in sé la speciale configurazione a Cristo insita nel carattere indelebile dell’ordine sacro. Prego molto anche per loro e invito tutti a ricordarli nella preghiera, perché, grazie anche alla dispensa regolarmente ottenuta, mantengano vivo in sé l’impegno della coerenza cristiana e della comunità ecclesiale” (Giovanni Paolo II, 18-5-2000).

La fraternità sacerdotale, dono di grazia per i sacerdoti

Nella vita del sacerdote vi è un tessuto ricchissimo di relazioni umane di ogni genere, all’interno della carità pastorale, sia di tipo discendente che di parità e, anche se notiamo la mancanza dell’esperienza coniugale, tuttavia la “solitudine” di celibe è ben abitata, come ricorda la Pastores dabo vobis, al n. 74: “Si tratta di una solitudine abitata dalla presenza del Signore, che si mette in contatto nella luce dello Spirito, con il Padre... anzi si può affermare che non è capace di vera fraternità chi non sa vivere bene la propria solitudine”...

“... ma si dà anche una solitudine che nasce da difficoltà varie e che, a sua volta, provoca ulteriori difficoltà. In questo senso “l’attiva partecipazione al presbiterio diocesano, i contatti regolari con il vescovo e con gli altri sacerdoti, la mutua collaborazione, la vita comune o fraterna tra sacerdoti, come anche l’amicizia e la cordialità con i fedeli laici che sono attivi nelle parrocchie, sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine che alcune volte il sacerdote può sperimentare”.

Occorre dire che la fraternità sacramentale concorre grandemente alla ricerca della propria identità sacerdotale e della propria maturazione umana. La fraternità sacerdotale favorisce una maturazione serena e feconda in vista di un’affettività adulta ed è efficace per il superamento oltre che della solitudine, anche dei rischi di chi vive in modo represso la sua affettività e che potrebbe dar luogo a nevrosi, aggressività, scrupoli... tutti segni evidenti di una fraternità poco vissuta e goduta.

La fraternità è necessaria per vivere in maniera gioiosa e autentica il proprio celibato.

Una via di comunione fraterna armonica, operosa, ricca di calore umano e soprannaturale, diffonde tra i suoi membri un segno di distensione, di equilibrio e di soddisfazione, per cui gli stessi sono come vaccinati dal cercare compensazioni affettive al di fuori di essa, e rende più difficile il sorgere di rimpianti, per la rinuncia fatta con la scelta del celibato.

A tutto questo si ricollega anche il problema delle vocazioni. Si può invitare un giovane a imboccare la strada che porta al sacerdozio senza offrirgli anche uno stile di vita veramente convincente, che valga la pena d’essere assunto sia dal punto di vista umano che spirituale? Il modo in cui oggi certi preti vivono non può affascinare un individuo che non sia disposto a vivere e a lavorare solo e isolato.

La fraternità sacerdotale, testimonianza efficace per il popolo di Dio

Riflessi immediati della fraternità sacer        dotale si hanno sul popolo cristiano perché il sacerdote, l’uomo della comunione con Dio, è anche l’uomo totalmente coinvolto nelle vicende del suo popolo, l’uomo per gli altri, l’uomo del servizio alla comunità, della dedizione pastorale alla comunità concreta. Ad essi porterà dunque la sua ricca esperienza di comunione e di condivisione, perché la fraternità produce fraternità.

Già “ogni divisione tra vescovo e presbiteri costituisce uno scandalo per i fedeli e quindi rende non credibile l’annuncio; invece nel segno della fraternità l’esercizio dell’autorità diventa realmente un servire...”7.

La testimonianza di unità tra i presbiteri e con il vescovo, l’unione degli spiriti e dei cuori, in particolare dell’azione pastorale, costituisce il primo e indispensabile elemento dell’evangelizzazione. La comunione è la prima forma della missione e la missione non è altro che la comunione che si allarga sempre di più.

“Cari sacerdoti, la nostra vita e il nostro ministero diventeranno, di per se stessi, eloquente catechesi per l’intera comunità a noi affidata, se saranno radicati nella verità di Cristo. La nostra, allora, non sarà una testimonianza isolata, ma corale... È a questo contagio vitale che dobbiamo mirare insieme, in comunione effettiva ed affettiva, per realizzare la “nuova evangelizzazione, che sempre più urge”8.

La fraternità sacerdotale è:

  • dimostrazione che l’uomo è a immagine di Dio-Trinità
  • prova visibile dell’amore del Padre
  • riflesso nel mondo della carità di Cristo
  • dono dello Spirito che continua l’azione degli Apostoli
  • vocazione pienamente realizzata
  • esempio di comunione per tutta la chiesa
  • segno efficace di evangelizzazione
  • fonte di gioia dello stare insieme con i fratelli
  • seme di nuove vocazioni
  • entusiasmo e perseveranza nel cammino sacerdotale
  • fucina di iniziative pastorali
  • spinta continua alla generosità del dono di sé
  • attuazione visiva del Regno di Cristo
  • presenza profetica nel popolo di Dio
  • anticipazione delle realtà future.

Verifichiamoci veramente su questo punto così decisivo per la qualità del nostro ministero, così importante per l’efficacia del nostro ministero.

Quanto è vero per noi ciò che dice Paolo:

“Gareggiate nello stimarvi a vicenda!” (Rm 12,10).

“Non fate nulla per spirito di rivalità ( invidia clericalis ) o per vanagloria ma ciascuno di voi, in tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3).

La comunione vera si ha quando sentiamo l’opera degli altri come opera nostra: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, dice Gesù; io tradurrei: “Ama ciò che fanno gli altri come quello che fai tu”. È naturale che ognuno si impegni in quello che fa personalmente o come gruppo: in una prospettiva di fede sappiamo bene, però, che non si tratta né dell’opera mia né dell’opera dell’altro, ma sempre dell’opera dell’unico Cristo, dell’unico Spirito e dell’unico Dio. Se entriamo in questa prospettiva nasce la comunione autentica, altrimenti resta soltanto una bella parola.

Dobbiamo costringerci alla fraternità per comportarci in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto.

“Vi esorto dunque io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace.

Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,1-6).


1 PO 8

2 LG 28

3 PO 7

4 PDV 17

5 CEI, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostr Chiese particolari, n. 21

6 D. BONHOEFFER, La vita comune, ...

7 Instrumentum Laboris per il Sinodo dei vescovi ottobre 2001, n. 88

8 GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai sacerdoti del giovedì santo del 1993.