L’UNITÀ di SACERDOTI e CONSACRATI
PER L’UNITÀ DELLA CHIESA ED IL MONDO

Collevalenza 13 agosto 2001

Relazione di
don Angel Matesánz Rodrigo
dell’Istituto Del Prado
e Vicario episcopale di Madrid

 

Introduzione

“Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Questo non lo disse Caifa per proprio impulso, chiarisce l’evangelista, bensì per ispirazione di Dio. Caifa stava profetizzando. Si faceva eco della profezia di Ezechiele sugli israeliti nella diaspora: “Ecco, io prenderò gli Israeliti dalle genti fra le quali sono andati e li raduneró da ogni parte e li ricondurrò nel loro paese; farò di loro un solo popolo nella mia terra” (37,21-22). Questa profezia esprimeva inoltre, con molta chiarezza, la vera finalità della missione di Gesù, il Buon Pastore che vuole riunire in un solo ovile anche le pecore che non provengono da Israele (cf Jn 10,16). E, se si accetta una traduzione più letterale - “per riunire in uno solo i figli di Dio allora dispersi ” - Caifa si sta riferendo anche all’unione che sarà esplicitata da Gesù stesso nel discorso di commiato: l’unione di tutti nel Figlio e, in lui, col Padre, l’unione perfetta affinché il mondo possa riconoscere l’Inviato.

Neanche noi parliamo dell’unità della Chiesa e del mondo per nostro impulso. In realtà è Dio che ci spinge a desiderare l’unità della Chiesa e del mondo, e collaborare con tutte le nostre forze alla sua realizzazione. Questo è un dono dello Spirito Santo. Solo Lui può aprirci l’udito per ascoltare la chiamata di Dio. Lo Spirito ci va mostrando la Verità e ci dà generosità per farci aderire ad essa.

L’unità di sacerdoti e consacrati non è per noi un problema di organizzazione. Non pretendiamo, almeno direttamente, regolamentare le varie situazioni, problematiche a volte, nelle quali devono contribuire, ognuno a suo modo, ad edificare la Chiesa. Nonostante, nel caso in cui raggiungessimo quella regolamentazione ed ognuno avesse chiari i suoi diritti e doveri, la delimitazione del proprio compito, le regole per lavorare, i criteri per stabilire alleanze, potremmo continuare a non vedere con chiarezza la cosa essenziale.

Dell’unità di sacerdoti e consacrati c’interessa il suo fondamento: la vocazione cristiana, la con-vocazione ad aderire a Gesù Cristo, a configurarci a lui, a collaborare nella sua opera; c’interessa la forza interna, spirituale che si lascia intravvedere nell’organizzazione degli elementi esterni, e li mette in tensione verso la realizzazione piena di quell’unità alla quale siamo chiamati, unità che include l’unione della Chiesa e del mondo. L’unità tra sacerdoti e consacrati ha un valore sacramentale rispetto all’unità della Chiesa e del mondo. Deve essere, pertanto, talmente reale e autentica da lasciar trasparire l’unità a cui la Chiesa e il mondo sono chiamati; tanto reale ed autentica da essere come un anticipo di quell’unità e come un strumento fedele ed efficace che la va costruendo.

I doni ministeriali e carismatici che abbiamo ricevuto dallo stesso Spirito, sono differenti in ognuno, ma ci uniscono tutti più strettamente a Gesù Cristo. Fatti membri vivi e fecondi del suo Corpo, siamo chiamati a mettere i nostri doni al servizio dell’edificazione di tutta la Chiesa e, nella Chiesa, al servizio del mondo.

 

I. Il mondo diviso

Forse quello che si percepisce in primo luogo nella nostra società è l’accellerazione con cui è avanzata la scienza, la rapidità con cui si sono diffuse le nuove tecnologie, i cambiamenti che si sono prodotti nelle mentalità e nelle abitudini. I campi dell’informatica o la biotecnologia offrono esempi indiscutibili.

Le applicazioni scientifiche mettono alla nostra portata cose che fino a poco tempo fa neppure sognavamo. Accanto ai progressi di cui ancora si avvantaggiano molto pochi, vi sono quelli che garantiscono comodità domestiche, ordinarie, dalle quali non sapremmo prescindere. C’è chi, per diventare ricco, stimola artificialmente la necessità di acquisire i nuovi beni che si producono. Ma questi beni costano denaro, ed il denaro, per spenderlo, bisogna averlo. Così si determina una spirale di produzione e mercato, nella quale la persona è stimata solo per la sua capacità di produrre e di comprare.

Nella mentalità dominante una persona è rispettabile se possiede i beni che si devono possedere secondo gli standard che dominano la società. Chi non li possiede, rimane al margine. Come se la rispettabilità e la dignità potessero acquisirsi con denaro. Appoggiandosi a una base così ambigua, l’uomo d’oggi immagina di essere praticamente onnipotente (o che lo diverrà molto presto), e reclama tutta la libertà per godere di quel potere. È una libertà individuale che entra facilmente in conflitto con la libertà di altri individui. È una libertà ingannevole, perché vieta di mostrare le opzioni davvero decisive per la vita; queste devono rimanere nascoste nella zona privata della coscienza, come se fossero manie particolari verso le quali occorre mostrare tolleranza. Vi è chi sogna di essere libero perché tra un centinaio di possibilità può scegliere un determinato canale televisivo. Quando certe dimensioni fondamentali della persona, come l’affettività o il diritto alla vita, vengono trattate nella stessa maniera superficiale e capricciosa, il deterioramento umano è grave ed evidente.

La persona, ridotta alla dimensione materiale ed economica, tende a disprezzare tutto ciò che non sembra utile o produttivo. Si può dire che perde la sua anima. Le domande sul senso della vita e su quello che, alla luce del senso della vita, deve essere fatto, risultano superflue. Non c’è posto, pertanto, per la domanda su Dio. Chi la pone è trattato con cortese indifferenza. L’affermazione di Dio Padre di tutti, risulta, ovviamente, sospetta di infantilismo.

Il posto di Dio è stato occupato dall’uomo che, autosufficiente, è arrivato a porsi come l’Assoluto, come fondamento e riferimento di ciò che conviene o non conviene, di ciò che è giusto o ingiusto, del fatto se una vita deve essere promossa o distrutta. Questo modo di intendere e situare la persona nell’insieme della realtà, ha delle conseguenze innegabili.

Quando si analizzano i tratti che caratterizzano la società attuale, sorge a volte la tentazione del pessimismo: che ne sarà di noi? dove andremo a finire? Questa tentazione non si vince semplicemente con un ottimismo volontarista. Solo la fede può alimentare la speranza. Gli uomini e donne che abitiamo il mondo siamo stati creati da Dio a sua immagine, siamo stati fatti capaci di accogliere il suo amore, di ascoltare la sua chiamata a vivere in comunione con lui. Lo sappiamo o no, solo in lui troveremo la verità e la felicità che in un modo o nell’altro cerchiamo incessantemente. La vocazione cristiana è, dunque, inserita nel nostro essere persone, in tensione verso una realtà ultima che ci fa uscire da noi stessi e ci fa essere-per un Assoluto che ci trascende. La fede cristiana ci dice che Cristo, morto e risorto per tutti, dà all’uomo la sua luce e la sua forza attraverso lo Spirito Santo affinché possa rispondere alla sua massima vocazione (cf GS 10).

Orbene, il riconoscimento della grazia iniziale, per mezzo della quale ogni persona è resa capace di comunione con Dio, non impedisce di riconoscere le insufficienze, deviazioni o perfino le perversioni che disturbano lo sviluppo di quella grazia. La rottura della comunione con Dio, provoca uno squilibrio dell’uomo stesso nel suo interno. Non è mai abbandonato al potere della morte, ma si trova disorientato nella sua ricerca di Dio, soffre la tensione tra il bene che vuole ed il male che fa, “soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società” (GS 10), constata la distorsione delle relazioni coi suoi simili e con l’insieme della creazione.

Tuttavia, proprio la presenza attiva del peccato nell’umanità è stimolo per l’azione missionaria della Chiesa. L’unione di presbíteri e consacrati non va pensata in funzione di se stessa, bensì in funzione dell’unità dell’intera famiglia umana, coi suoi affanni, fallimenti e successi; in funzione di questo mondo, fondato e conservato dall’amore del Creatore, reso schiavo dalla servitù del peccato, ma già liberato dalla morte e resurrezione di Cristo e in attesa della sua consumazione secondo il disegno di Dio (cf GS 2).

 

II. Cristo, Inviato del Padre per riconciliare e riunire quello che era disperso

Riconciliare, riunire, restaurare questa umanità creata per amore, questi uomini e donne destinati da Dio ad ascoltare la sua Parola ed accogliere il suo amore, è la missione affidata dal Padre a suo Figlio. Il Figlio, secondo la lettera agli Ebrei, manifesta, entrando in questo mondo, la sua completa disponibilità: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà” (Eb 10,7). A questo compito Gesù Cristo consacra la sua vita intera.

Consacrare la vita a riunire i fratelli dispersi porta Gesù ad andare loro incontro, dovunque essi si trovino. In ripetute occasioni si ricorda nei vangeli che il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare quello che era perduto (cf Lc 19,10), che non è venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (cf Mt 9,12). Gesù soffre per la sofferenza dei suoi fratelli che vivono senza conoscere suo Padre, senza riconoscere, e molte volte senza che venga loro riconosciuta, la dignità che corrisponde ad essi come figli di Dio, deteriorati nel più intimo della loro persona. “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36).

In Gesù la compassione è autentica solidarietà. Vuole che i pubblicani e i peccatori sperimentino l’amore che Dio ha per loro, e per questo non dubita di condividere con essi la tavola. Ai farisei che rimproverano ai discepoli la cattiva fama dei commensali del loro maestro, spiega: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque ed imparate che cosa significhi: “misericordia voglio e non sacrificio”” (Mt 9,12).

Come figlio ubbidiente, Gesù conosce bene la volontà del Padre del cielo: “Non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (Mt 18,14). Per questo motivo il suo amore è tenace: la ricerca dell’ultima pecora, o della moneta perduta, dura fino a che non la trova. Il suo amore è audace: di fronte ad un’organizzazione della società basata sull’oppressione e sull’esercizio dispotico dell’autorità, Gesù presenta l’atteggiamento totalmente contrario del servizio (cf Mc 10,42-45), e mette l’adorazione del Padre del cielo come base della fraternità universale (cf Mt 23,8-11). Il suo amore è portato all’estremo e passa al di sopra del rifiuto e della persecuzione che scatenano contro di Lui i responsabili della dispersione, del deterioramento e della indegnità; deve nascondersi per evitare che lo lapidino, e quelli che si mettono dalla sua parte vengono espulsi della sinagoga (cf Jn 9). A volte Gesù è respinto dagli stessi che egli vuole liberare e riconciliare. L’evangelista lo dice con chiarezza: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).

Riunire e guarire i figli di Dio dispersi porta Gesù alla morte. “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore” (Gv 10,10-11). Consegnare la vita, consacrare la vita al compimento della volontà di Dio, questo è l’autentico atto di culto offerto da Gesù per glorificare veramente il Padre. Nel vangelo di San Giovanni (capitolo 17) si sviluppa più pienamente quest’idea. La volontà del Padre è dare la vita eterna a quanti egli stesso ha affidato a suo Figlio. La vita eterna consiste nel conoscere il Padre, unico Dio vero, e suo Figlio, l’Inviato, e partecipare così alla loro comunione.

Con l’offerta della sua vita Gesù culmina la missione che il Padre gli aveva affidato: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti é la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia... per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare entrambi con Dio in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo in se steso l’inimicizia” (Ef 2,13.15-16). Il Padre, nell’impegno di riunire la sua famiglia, sta attraendo l’umanità verso suo Figlio: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6, 44). E nella morte di Gesù si compie la sua promessa: “Ora é il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31-32).

I dispersi vengono riuniti. O meglio, sono vincolati a Gesù Cristo e configurati a lui, sono resi anche partecipi della sua consacrazione. “Ed é appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Eb 10,10). È come dire che, per il fatto di essersi rivelato egli stesso come il Figlio di Dio ed averci rivelato al Padre, per averci riuniti, per averci fatto entrare nella comunione che essi hanno tra loro e lo Spirito Santo, per averci fatto condividere la gioia che egli stesso riceve dalla sua unione col Padre, per aver presentato la sua vita come offerta dedicandola a questo scopo, anche noi siamo stati santificati, consacrati a Dio.

Mentre stiamo nel mondo, la nostra comunione è minacciata; per questo motivo Gesù prega: “Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi una sola cosa” (Gv 17,21). “Consacrali nella verità” (Ib, v. 17). È come se Gesù dicesse: Fa’ che vivano completamente dedicati a te per mezzo della verità, consacrati a fare la tua volontà. “Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Ib, v. 19). la Tua parola è la verità, dichiara il vangelo. La Parola è Gesù Cristo, cammino, verità e vita per quanti credono in lui.

 

III. Sacerdoti e Consacrati, servitori della riconciliazione e dell’unità

Tutti noi che siamo stati incorporati a Cristo per il battesimo, siamo stati consacrati e partecipiamo all’unzione dello Spirito con la quale egli stesso fu unto. Nessun membro del suo Corpo, pertanto, rimane al margine della sua missione (cf PO 2), sebbene non tutti partecipiamo allo stesso modo.

La consacrazione, comune a tutti i battezzati, è, in primo luogo, unione alla persona di Cristo. Chiunque è consacrato a Cristo, gli appartiene, si inserisce nella nuova famiglia composta da quelli che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica (la Parola di Dio è Lui stesso). Questa appartenenza alla famiglia di Gesù Cristo è prioritaria, totalizzante, incompatibile con altre appartenenze che si pretendesse vivere sullo stesso piano. Ma la famiglia dei discepoli è solo l’inizio della grande famiglia di Dio che sarà congregata alla fine dei tempi. Per questo motivo è una famiglia aperta; innanzi tutto a quelli che la società esclude: i poveri, ignoranti e peccatori; aperta anche alle diverse culture e mentalità. Quando qualcuno pretende vincolare Gesù ad una determinata città, sollecitandolo: “Tutti ti cercano!”, egli risponde: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto”! (Mc 1,39).

Quelli che, più da vicino, abbiamo seguito la vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata, siamo stati orientati verso una configurazione speciale con Gesù Cristo. Partecipando alla sua consacrazione, si richiede da noi che contribuiamo singolarmente anche a riunire la famiglia di Dio.

A proposito dei presbiteri, il concilio Vaticano II dice espressamente: “I presbiteri, in virtù del sacramento dell’ordine, sono consacrati quali veri sacerdoti del nuovo testamento. Esercitando, per la loro parte di autorità, l’ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d’unità, e per mezzo di Cristo nello Spirito la portano a Dio Padre” (LG 28).

Sui consacrati si esprime più ampiamente Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica del 1996 Vita consecrata: “La vita consacrata ha sicuramente il merito di aver efficacemente contribuito a tener viva nella Chiesa l’esigenza della fraternità come confessione della Trinità. Con la costante promozione dell’amore fraterno anche nella forma della vita comune, essa ha rivelato che “la partecipazione alla comunione trinitaria può cambiare i rapporti umani”, creando un nuovo tipo di solidarietà. In questo modo essa addita agli uomini sia la bellezza della comunione fraterna, sia le vie che ad essa concretamente conducono. Le persone consacrate, infatti, vivono “per” Dio e “di” Dio, e proprio per questo possono confessare la potenza dell’azione riconciliatrice della grazia, che abbatte i dinamismi disgregatori presenti nel cuore dell’uomo e nei rapporti sociali” (VC 41).

 

La vocazione

Bisogna segnalare che l’iniziativa non è nostra: la consacrazione va preceduta dalla elezione da parte di Dio, dalla vocazione. La grazia di Dio precede, accompagna e fortifica la vita che gli si consacra. Ma la consacrazione non è un’operazione puramente spirituale, incide sull’esistenza concreta di chi è chiamato e la modifica. Chi vuole rispondere a questa vocazione, va adottando liberamente nuovi modi di relazione interpersonale e di relazione col mondo. Non si limita a trapiantare in un nuovo contesto forme di vita precedenti, ma inizia una vita completamente distinta.

Man mano che la conoscenza del Signore che chiama diventa più intima e profonda, cresce una speciale configurazione a lui, si vanno profilando i tratti della “creatura nuova.”

 

L’Incarnazione

Il mistero dell’Incarnazione è un riferimento obbligatorio per quanti condividono la missione di Gesù Cristo. Il concilio Vaticano II lo propone come principio del processo evangelizzatore. “La Chiesa quindi, per essere in grado di offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita che Dio ha portato all’uomo, deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso movimento con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali visse” (AG 10). E a proposito del ministero presbiterale: “Così infatti si comportò Gesù nostro Signore, Figlio di Dio, uomo inviato dal Padre agli uomini, il quale dimorò presso di noi e volle in ogni cosa essere uguale ai suoi fratelli, eccettuato il peccato” (PO 3).

Così, dunque, i consacrati, seguendo il Verbo di Dio nella sua Incarnazione, devono uscire anche da se stessi per potere “divenire simili agli uomini” (cf Fil 2,7), e condividere la vita dei fratelli che hanno la missione di riunire. È come un esodo liberatore: l’abbassamento e l’umiltà, eliminando qualunque tipo di rivalità, dispongono per l’incontro fraterno. Ma non è solo questione di umiltà. È anche questione di obbedienza, di consacrazione. Nei piccoli o grandi avvenimenti che condividiamo col nostro prossimo, Dio sta mostrando i segni della sua opera di salvezza. Noi consacriamo la vita, secondo la nostra vocazione, a collaborare in quest’opera di salvezza. Giovanni Paolo II ce lo ricorda in Vita consecrata: “In realtà, negli avvenimenti storici si cela spesso l’appello di Dio ad operare secondo i suoi piani con un inserimento attivo e fecondo nelle vicende del nostro tempo” (VC 73). Spesso, la sequela di Gesù, sotto questo aspetto, é più disturbata dalle resistenze personali che dagli intoppi istituzionali.

È chiaro che seguire Gesù Cristo nella sua Incarnazione differisce molto da un cameratismo compiacente. “I presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della propria chiamata e della propria ordinazione, sono in un certo modo segregati in seno al popolo di Dio: ma non per rimanere separati da questo stesso popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente all’opera per la quale li ha assunti il Signore” (PO 3). La loro condizione di “segregati” non li separa dal mondo, ma modifica la loro presenza; vivono la stessa vita degli uomini e donne con i quali trattano, ma in mezzo ad essi sono testimoni e dispensatori di una vita distinta da quella terrena. Per quel che riguarda la vita religiosa, lo stesso Concilio avverte: “Non si pensi che i religiosi con la loro consacrazione diventino o estranei agli uomini o inutili nella città terrena” (LG 46). La consacrazione non isola, ma rende i consacrati profeti e testimoni dell’amore misericordioso di Dio. Per questo motivo non si “mondanizzano”. La loro testimonianza, se è autentica, non può ridursi ad opere assistenziali e di supplenza né ad una leadership puramente sociale. I consacrati discernono e proclamano il lavoro di Dio nel mondo - “Il mio Padre opera sempre”, diceva Gesù - e mantengono viva la speranza segnalando la pienezza che ci aspetta.

Nella vita dei sacerdoti e dei consacrati incarnazione nel mondo, appartenenza e consacrazione a Dio, fedeltà alla missione affidata, non sono dimensioni contrapposte, ma si richiamano e si illuminano a vicenda. L’esperienza vissuta di questa unità interna, li libera da qualunque sentimento di inferiorità mentre realizzano il loro servizio all’umanità.

 

I consigli evangelici

La vita consacrata si concretizza esistenzialmente nel seguire più da vicino Gesù Cristo, imitando i suoi gesti ed adottando il suo stesso stile di vita. La professione dei voti religiosi o la promessa di vivere i consigli evangelici esprime l’accoglienza di quella vocazione particolare ed il desiderio di viverla. La vita dei sacerdoti è ugualmente consacrata, non dal punto di vista giuridico con l’emissione di voti nel caso dei sacerdoti secolari, ma sì con la configurazione a Cristo conferita dall’ordinazione sacerdotale. “I sacerdoti sono specialmente obbligati a tendere a questa perfezione, poiché essi - che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l’ordinazione - vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha restaurato con divina efficacia l’intera comunità umana” (PO 12).

Di fronte all’ansia di possesso, all’affanno di dominare e al desiderio di godere, il sacerdote e il consacrato mettono al centro della propria vita le beatitudini proclamate dal loro Signore e Maestro, insieme agli autentici valori della persona umana. La pratica dei consigli evangelici mostra fino a che punto coloro che li professano, non solo non si separano dalla vita della società, ma vivono più profondamente inseriti in essa e, ad imitazione di Gesù Cristo, contribuiscono a liberarla di tutto ciò che la deteriora e la divide. La povertà, l’obbedienza e la castità stimolano gli altri cristiani a vivere più pienamente la loro fede, perché sono come un anticipo della fraternità piena che ci è promessa in futuro, ma che è già inaugurata nel nostro tempo. Le persone consacrate testimoniano le meraviglie che Dio realizza nella loro fragile umanità, più che con le parole, con il linguaggio eloquente di un’esistenza trasfigurata (cf VC 20).

Il futuro dell’umanità, che altro non è se non il futuro di Dio, è stato già introdotto nel mondo dalla vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Malgrado l’individualismo, l’edonismo, il materialismo, la ricerca della massima efficacia facciano pensare il contrario, ciò che veramente cerchiamo –spesso senza saperlo- è la fraternità, e solo questa può veramente saziarci, più di quanto riusciamo a immaginare. La rinuncia ai propri interessi, la gratuità, il perdono, la passione per la giustizia, la fiducia piena nel Padre che pienamente la merita e che sostiene questi valori, non è solo qualcosa di possibile, ma è reale. Noi sacerdoti e consacrati, attraverso una vita coerente con la nostra vocazione, siamo testimoni qualificati di questo futuro certo, benché attualmente non sia evidente per tutti. Non si tratta di volontarismo o di ostinazione, ma della certezza che offre la conoscenza di Gesù Cristo nella fede. Non è un’alienazione spiritualistica, perché la nostra vita attraversa le stesse circostanze e noi ce la giochiamo negli stessi eventi dei nostri vicini. Dobbiamo osare condividere con essi il senso nuovo che, alla luce della fede, acquista la vita: la loro e la nostra.

Gli uomini e le donne del nostro tempo tendono a trasformarsi ognuno nell’Assoluto, nel riferimento ultimo del bene e del male. Non si affidano a nessuno, non attendono alcun futuro pieno di significato, non si compromettono a nessuno sforzo duraturo che richieda pazienza e perseveranza. Le mete a lungo termine sono prive di senso ai loro occhi. Tuttavia, Dio non ha cancellato in essi la sua immagine, e continua a rivolgersi a loro come a suoi interlocutori, destinati alla comunione con Lui.

Noi sacerdoti e consacrati ci sentiamo come sfidati: la nostra vita deve essere come una luce che offre risposte a quelle domande ultime, inevitabili, che non cessano di riproporsi perennemente al cuore umano. La vita consacrata può provocare decisioni definitive, mostrare il senso degli impegni irreversibili. “Quanti abbracciano la vita consacrata, uomini e donne, si pongono, per la natura stessa della loro scelta, come interlocutori privilegiati di quella ricerca di Dio che da sempre agita il cuore dell’uomo e lo conduce a molteplici forme di ascesi e di spiritualità.... Le persone consacrate, vivendo con coerenza e in pienezza gli impegni liberamente assunti, possono offrire una risposta agli aneliti dei loro contemporanei, affrancandoli da soluzioni per lo più illusorie e spesso negatrici dell’incarnazione salvifica del Cristo (cf 1 Gv 4, 2-3), quali, ad esempio, vengono proposte dalle sette.

Praticando un’ascesi personale e comunitaria, che purifica e trasfigura l’intera esistenza, esse testimoniano, contro la tentazione dell’egocentrismo e della sensualità, i caratteri dell’autentica ricerca di Dio ed ammoniscono a non confonderla con la sottile ricerca di se stessi o con la fuga nella gnosi. Ogni persona consacrata è impegnata a coltivare l’uomo interiore, che non si estranea dalla storia né si ripiega su di sé. Vivendo in ascolto obbediente della Parola, di cui la Chiesa è custode ed interprete, essa addita nel Cristo sommamente amato e nel Mistero trinitario l’oggetto dell’anelito profondo del cuore umano e l’approdo di ogni itinerario religioso aperto alla trascendenza” (VC 103).

Nella fede, la pratica dei consigli evangelici è fortemente trasformatrice. È il risultato dell’azione dello Spirito Santo nel cuore di coloro che li professano e, come insegna Giovanni Paolo II, attraverso il cuore dell’uomo, da dentro, mirano alla trasformazione del cosmo.

Dio ha posto tutta la creazione ai piedi dell’uomo, affinché la famiglia umana la domini e ne goda. Nell’umanità nuova, ricreata dallo Spirito Santo, dono del Risorto, si condividono i beni in modo che nessuno soffra necessità. In una società marcata dalla distribuzione ingiusta dei beni, dall’enorme quantità di denaro usato negli armamenti, dalla idolatria del benessere, la povertà evangelica è il segno sconcertante della nuova umanità, di una vita che non si lascia determinare dal denaro né da nulla che si possa comprare; è un gesto di protesta silenziosa che permette, inoltre, di lavorare liberamente e disinteressatamente per una ripartizione più giusta dei beni della terra, per una fraternità reale tra i popoli.

Dio sta sempre dalla parte dell’uomo. Non vuole esseri sottomessi. Vuole farci suoi figli, ma rispettando sempre la libertà. L’obbedienza di suo Figlio Gesù è un’obbedienza libera, amorosa e fedele che lo conduce alla glorificazione. In una società nella quale si esalta l’autonomia personale fino al disprezzo della verità e della norma morale, si dà culto alla libertà individuale e si lotta per sottomettere le volontà altrui, l’obbedienza al disegno salvifico di Dio continua a sembrare sciocchezza e pazzia, ma è un’offerta incisiva di libertà di fronte a violenze ed inganni, un’offerta di gratuità di fronte ad ostinate lotte egoistiche, un’offerta dell’indiscutibile gioia che nasce dall’abnegazione e dal sacrificio per il prossimo.

Dio è un Padre che ama. Ama il suo Figlio Gesù e mette tutto nelle sue mani. Ama tanto il mondo da consegnargli suo Figlio. Ama i discepoli e dà loro quello che chiedono nel nome di Gesù. L’amore di Dio è gratuito, indipendente dall’amore che noi abbiamo per Lui. Dio ama per primo ed ama senza misura. Prende le difese degli emarginati, ma offre la riconciliazione e la salvezza a tutti. In una società organizzata in modo tale che sembra inevitabile la creazione di emarginati (per il fallimento scolastico, la malattia, le condizioni di lavoro, la dissoluzione familiare, la solitudine...), la castità consacrata diviene segno di un amore aperto, disponibile per abbracciare quelli che nessuno vuole, di un amore fedele e libero che non vuole appropriarsi di ciò che appartiene allo Sposo. La castità consacrata diviene un contributo alla riconciliazione, alla fraternità universale a fianco dei poveri e apartire dai poveri.

 

La gioia promessa

La trasformazione che a poco a poco si va determinando nella vita dei consacrati con la pratica progressiva dei consigli evangelici, che suppone certamente rinunce e sacrifici, è condizione della fecondità apostolica. Non si tratta di registrare risultati positivi, bensì della realizzazione misteriosa del Disegno di Dio. “In verità, in verità vi dico: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). È proprio vero: l’uomo, che in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé (cf GS 24). “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (GS 22).

Quando il Risorto si lascia vedere dai suoi discepoli, mostra loro le sue ferite che sono divenute ferite gloriose, segni della sua obbedienza e fedeltà, e dà loro la sua gioia e la sua pace. Chi partecipa all’obbedienza del Figlio, alla sua consacrazione, all’offerta della sua vita, partecipa anche, come Lui ha promesso, alla sua gioia pasquale e alla sua signoria. Si tratta di una gioia che predispone sempre a una nuova donazione senza riserve ai fratelli, ai più bisognosi di amore, di assistenza e di consolazione.

 

La conoscenza di Gesù Cristo, nostro Signore

Vocazione, sequela, consacrazione, missione, tutto inizia e culmina nella conoscenza di Gesù Cristo, fuori del quale niente conta veramente. Da Lui, e non dallo sforzo umano, viene la riconciliazione e la fraternità. Conoscere Cristo, sperimentare il potere della sua resurrezione, condividere i suoi patimenti e morire la sua morte, per raggiungere così la resurrezione tra i morti (cf Flp 3,10): questo è l’itinerario che si apre davanti a chi è stato segregato per il Vangelo (cf Rom 1,1), eletto fin dal seno materno (cf Gal 1,15), fatto ministro della riconciliazione (cf 2 Cor 5,18). Sacerdoti e consacrati non lavoriamo per conto nostro ma per conto altrui, ed è per noi di fondamentale importanza conoscere la Persona che tanto ci attira e c’invita a realizzare la sua opera.

Cristo possiamo conoscerlo lì dove egli stesso si fa conoscere a noi. Nella misura in cui lo conosciamo cresce, anche, la comunione con Lui e la sua missione. Incontriamo, dunque, Gesù Cristo nella meditazione della Sacra Scrittura, letta nella fede, secondo la tradizione della Chiesa e sentendoci uniti alle persone e ai popoli ai quali siamo stati inviati. Lo incontriamo, ancora, nella vita della Chiesa, nel cui seno si sviluppa la nostra vocazione. Dato che lo Spirito Santo “previene visibilmente l’azione apostolica, come incessantemente, sebbene in varie maniere, l’accompagna e la dirige” (AG 4), Cristo si fa conoscere a noi e ci chiama anche attraverso le persone di cui condividiamo la vita. Contemplando la loro storia con uno sguardo di fede, ci verrà mostrata l’azione ammirabile che Dio sta già realizzando in loro, ed anche gli impedimenti che frenano la loro crescita e le strade da percorrere per la realizzazione completa.

Questa conoscenza di Cristo, raggiunta nella preghiera, diviene fonte di dinamismo apostolico e missionario; fa più viva l’adesione e la comunione con Lui, fortifica il desiderio di seguirlo più da vicino e in modo irreversibile, illumina i diversi compiti della missione e dà l’audacia che si richiede per portarli a compimento.

 

IV. Unione dei Sacerdoti e Consacrati

Siamo convinti che il Disegno di Dio è quello di riunire i suoi figli dispersi. Da sempre sta Dio attirando a sé l’umanità. Quest’opera è culminata in Gesù Cristo che, con la sua Morte e Resurrezione, ci ha riconciliati con Dio e ha fatto di noi un nuovo popolo.

Abbiamo menzionato i gruppi umani coi quali conviviamo. Questi sono chiamati a raggiungere la loro felicità piena nella comunione con Dio, e, tuttavia, sono minacciati dal fallimento – lo stanno già soffrendo -, frutto della pretesa di costruire il mondo prescindendo da Dio. Vogliamo rimanere, come dice san Paolo, fermi e radicati nella fede, senza tradire la speranza contenuta nel vangelo che abbiamo ricevuto (cf Col 1,22-23). La speranza, nel nostro caso, è rafforzata dalla vocazione a partecipare nella consacrazione e nella missione dell’Inviato.

L’ultima riflessione che facciamo è quella sulle relazioni tra sacerdoti e consacrati, con-vocati a lavorare insieme per l’unità della Chiesa e del mondo. In quello che è stato detto finora troviamo, senz’altro, criteri che orientano anche questa riflessione.

Le relazioni tra sacerdoti e consacrati si fondano su quello che ci è comune e che sta alla base di tutto: il vincolo alla famiglia di Gesù offertoci dalla fede e dal battesimo. Questa è la prima realtà che dobbiamo condividere ed aiutarci a vivere. Sappiamo, per dolorosa esperienza, che è più facile tra noi discutere idee e strategie pastorali che non “raccontarci” il perché ci riempie di gioia l’aver conosciuto Gesù Cristo; o comunicarci le difficoltà che attraversiamo nel cammino della fede. Tutto ciò è quanto di più personale abbiamo ed anche la realtà più esposta al rischio, ma è anche l’esperienza più fondamentale e autentica della nostra vita. Se i concetti, senza dubbio necessari, e le concrezioni istituzionali non esprimono una profonda esperienza personale di fede, è grande il rischio di fare attenzione più a quello che ci separa che alla comune vocazione che ci unisce.

Credere in Gesù Cristo e seguirlo non è una funzione che svolgiamo; è un “carattere” che segna il nostro essere: siamo discepoli ed apostoli. Condividere la fede, riconoscere che anche l’altro ha ascoltato la chiamata di Gesù Cristo, contare su di lui come discepolo ed apostolo, costituisce un processo di avvicinamento a livello delle relazioni interpersonali, non tanto nelle articolazioni istituzionali. Diciamo che la famiglia dei discepoli che ascoltano la parola di Dio e la compiono è una famiglia aperta: a pubblicani, peccatori, lebbrosi, samaritani.... Noi sacerdoti e consacrati siamo sinceramente disposti ad accogliere la vita delle persone alle quali siamo inviati. Come non disporci, anche, ad accogliere la vita delle persone che sono inviate insieme con noi? Questo suppone, indubbiamente, avere e dare fiducia. Ma si tratta di una fiducia che non concediamo a delle persone qualunque, bensì a qualcuno che previamente è stato stimato degno di fiducia da parte di Dio stesso, e che ha ricevuto da Lui un incarico e la grazia per realizzarlo.

Le relazioni tra sacerdoti e consacrati si basano anche sul riconoscimento gioioso della diversità dei carismi. Tra di noi, in effetti, non esiste solo un comune denominatore. Lo Spirito Santo ci ha concesso, a beneficio di tutta la Chiesa, carismi diversi, che specificano il nostro ministero e la nostra partecipazione alla missione di Gesù Cristo.

La specificità non deve cercarsi nel compito apostolico concreto (sicuramente sono molti di più i carismi che i compiti), e neanche nel metodo, bensì in ciò che li ispira. Lo Spirito Santo concede di contemplare il mistero di Cristo in modo tale che un aspetto concreto di lui si trasforma come in un faro che illumina tutta la vita ed origina una spiritualità, una forma concreta di esistenza secondo il Vangelo. Chi vive sulle orme di Cristo è sensibile a determinate necessità umane, necessità varie di evangelizzazione e di realizzazione del Disegno di Dio. La contemplazione del mistero di Cristo, insieme alla sensibilità verso i bisogni umani concreti, suscita una gran disponibilità per accorrere dove quei bisogni sono più urgenti, ed una gran creatività per sviluppare le iniziative corrispondenti. La specificità, pertanto, non consiste nell’originalità del compito - che può essere identico a quello realizzato da altri -, bensì nel senso che danno a questo compito le persone che lo portano avanti.

Se la specificità di ogni carisma fosse il compito che suscita, la relazione tra sacerdoti e consacrati si ridurrebbe ad un’organizzazione del lavoro, in modo da non intromettersi nel campo altrui. Ma questo significherebbe ridursi al livello strettamente funzionale, rendendo quasi superflua l’azione dello Spirito Santo che rivela aspetti nuovi del mistero di Cristo (fino alla “verità tutta intera”!), ispira nuovi modi di sequela e sollecita continuamente la creatività apostolica. Su questo punto tutti dobbiamo rimanere vigilanti. A volte i sacerdoti diocesani sospettano che il lavoro apostolico dei consacrati guarda solo al beneficio delle proprie istituzioni. A volte succede che i religiosi ai quali il vescovo affida una parrocchia, per evitare tensioni coi sacerdoti diocesani delle parrocchie vicine, cercano di dissimulare il carisma che hanno ricevuto, come se dovessero farsi perdonare l’essere religiosi.

L’unione tra sacerdoti e consacrati, che nasce dalla dimensione personale e testimoniale dell’esperienza di fede, deve arrivare fino al riconoscimento mutuo e la valorizzazione del lavoro di Dio in ognuno. La diversità che lo Spirito Santo genera in noi non ci divide né ci sgomenta: è complementare in vista dell’unione della Chiesa e del mondo. Negare la diversità dei carismi per arrivare più facilmente all’unità sarebbe una scorciatoia che porta solo ad un deplorevole impoverimento.

Non basta che sacerdoti e consacrati ci conosciamo, condividiamo la nostra esperienza di fede, riconosciamo l’opera di Dio in noi. È necessario che ci aiutiamo mutuamente ad avanzare nella configurazione a Cristo, alla quale gli uni e gli altri siamo stati chiamati e che cerchiamo con sincerità. La nostra consacrazione battesimale, con la quale lo Spirito Santo ci ha segnati come proprietà di Dio, si fa più concreta e più radicale col sacramento dell’ordine o la professione dei voti, e ci rende più disponibili per l’opera di Dio. Né il ministero presbiterale né l’appartenenza giuridica ad un istituto di vita consacrata possono dispensarci dall’offrire ogni giorno le nostre persone come sacrificio vivo, santo e gradito a Dio. La trasformazione che lo Spirito Santo opera in noi segue il suo corso. Dato che la nostra vocazione cresce nella Chiesa ed è orientata al bene di tutti, tutti nella Chiesa dobbiamo aiutarci a scoprire le migliori strade per vivere la nostra vocazione. Nelle diverse forme di spiritualità che accompagnano i carismi, troviamo continuamente nuovi motivi per la perseveranza e la fedeltà.

L’unione tra sacerdoti e consacrati si fortifica anche per il riferimento al Mistero dell’Incarnazione. È bene tenerlo presente: siamo stati consacrati per partecipare alla missione di Gesù Cristo, inviato a cercare e salvare ciò che era perduto. Percorrendo il cammino dell’Incarnazione, spinti dallo Spirito Santo, ci lasciamo attirare da ciò che ha attirato Gesù Cristo, il quale, come confessiamo nel Credo, “per noi uomini, e per la nostra salvezza, discese dal cielo”.

Contempliamo gli uomini e le donne del nostro tempo con gli occhi di Gesù Cristo, facendo attenzione a ciò che ha attirato la sua attenzione. Vediamo la dignità di figli di Dio delle persone, la vocazione alla quale sono chiamate. Nella misura in cui lo Spirito Santo ci concede anche di amarli come Gesù Cristo li ama, in quella misura la nostra vita rimane unita alla loro, cioè, viviamo solo affinché essi vivano.

Quello che abbiamo visto e udito glielo annunciamo, affinché anch’essi entrino nella comunione di cui noi godiamo, perché la loro gioia sia piena (cf 1Jn 1,3-4). Senza questo riferimento agli uomini non c’è vita consacrata, né ministeriale né attiva né contemplativa che abbia senso. Tutti siamo convocati a questo appuntamento: coloro che sono chiamati a vivere una presenza fisica in mezzo ai fratelli e quelli che sono chiamati a portarli nel cuore e consacrare ed offrire la vita per essi. Non è possibile consacrare la vita al Padre – qualunque sia la modalità – e dimenticare i figli.

Questo è ciò che ci muove tutti ad abbandonare le nostre posizioni (economiche, sociali, culturali...) e, soprattutto, ad uscire da noi stessi per andare incontro a quelli a cui siamo inviati per condividerne la vita, in stretto contatto o in spirito. Non si tratta di volontarismo né di un atto di generosità che nasce dalle nostre analisi e si spiega in base a un’ideologia. Quando questo avviene, e purtroppo avviene, non siamo sulla strada dell’Incarnazione bensì in una deviazione, fisica o mentale, che invece di congregare, divide e frammenta. Percorrere il cammino dell’Incarnazione è grazia dello Spirito Santo che ce lo fa comprendere e gustare.

Il riferimento al mistero dell’Incarnazione richiede anche una certa forma di preghiera. Dio non ha atteso la nostra collaborazione per iniziare la sua opera. Lo Spirito Santo ci precede (cf AG 4). Abbiamo bisogno di contemplare la vita degli uomini alla luce della Parola di Dio. Come dice la Presbyterorum ordinis, dobbiamo discernere negli avvenimenti, grandi o piccoli, della vita delle persone ciò che Dio sta realizzando in esse (cf PO 6). Accogliere l’azione di Dio nella vita delle persone alimenta la preghiera, la lode e l’azione di grazie, la conversione, la supplica, e stimola la donazione generosa di sé per collaborare nell’opera che Dio sta portando a termine. Lo sguardo contemplativo sulla vita, continuamente ravvivato e purificato dalla preghiera, è fonte di conoscenza di Gesù Cristo e di dinamismo missionario. Una preghiera così, intesa come ricerca della volontà di Dio per accoglierla con gratitudine e metterla in pratica, non può far altro che unire sempre di più tra di loro quelli che hanno consacrato la loro vita al Vangelo.

Il cammino dell’Incarnazione possiamo farlo solo come inviati a compiere una missione che non è nostra bensì di Colui che c’invia. È Dio Padre il primo interessato nella felicità dei suoi figli. Lo Spirito Santo fa che anche noi, dimenticando noi stessi, ci sentiamo coinvolti nella sollecitudine dell’amore misericordioso di Dio. Non abbiamo interessi particolari da difendere. Non abbiamo altri mezzi né altri metodi che quelli dei quali si servì Gesù Cristo: l’obbedienza, il servizio, l’amore gratuito.

L’unione tra sacerdoti e consacrati è una grazia da coltivare. Si potrebbero proporre, in questa linea, alcuni percorsi:

  • Accogliere ed approfondire la dottrina conciliare sulla chiesa particolare, ministero apostolico, carismi.... Dobbiamo imparare di nuovo ogni giorno a vivere il mistero della Chiesa come una realtà unica, anche se complessa, nella quale si coniuga l’universalità e l’inserimento locale, l’apertura missionaria ed il rinvigorimento della comunità, la fedeltà alla tradizione ed il discernimento dei segni dei tempi e la creatività pastorale, l’istituzionalità e la spiritualità.
  • Partecipare, con spirito dialogante e costruttivo, agli organismi di consultazione e coordinamento pastorale che esistono nelle chiese particolari.
  • Favorire mediante incontri più spontanei le relazioni fraterne.
  • Riflettere e pregare insieme tra sacerdoti e consacrati inviati ad una stessa zona pastorale, con l’audacia e la creatività che dà ad ognuno il carisma ricevuto, per determinare quali siano le necessità di evangelizzazione più urgenti, le azioni che devono intraprendersi ed i mezzi per portarli a termine.
  • L’organizzazione e il coordinamento del lavoro pastorale facilita molteplici incontri. A volte ci riuniamo come “esperti di pastorale” per disegnare strategie; ma potremmo riunirci, in primo luogo, come discepoli di Gesù Cristo, vincolati a lui, inviati da lui. La priorità, dunque, andrebbe data al rafforzamento della nostra esperienza personale di consacrati. Lo scambio delle nostre iniziative e progetti apostolici e la discussione sui mezzi per portare a termine la nostra missione, dovrebbe essere l’espressione della nostra fede e della risposta alla vocazione ricevuta.

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“Piacque a Dio chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita, non tanto in modo individuale e quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità” (AG 2). Noi stessi siamo stati congregati, siamo stati riuniti in Gesù Cristo dall’amore e dalla forza dello Spirito. Ora formiamo nel mondo il Corpo del Risorto. In noi, Gesù, l’Inviato, prosegue la sua missione. Per sacerdoti e consacrati lavorare per l’unità della Chiesa e del mondo non è opzionale; appartiene all’essenza della vocazione apostolica.

Lavorare per la comunione ed essere segno di comunione, richiede un atteggiamento di profonda conversione e povertà. Non è possibile senza sofferenza e sacrificio. Rinunciare ad avere l’iniziativa, lasciarsi convocare, mettere da parte i nostri interessi per servire solo gli interessi di Dio. È Lui, non tanto noi, ad essere impegnato nel portare a compimento l’Alleanza con l’umanità. Nell’Eucaristia il Soffio dello Spirito ci ricrea ogni giorno per partire verso la missione, insieme agli altri apostoli anch’essi inviati; egli ci consacra, ci trasforma in offerta permanente, facendoci partecipare al sacrificio di Gesù, che elevato sopra la terra, attira tutti a Sé.