STUDI
 
Card. Godfried Danneels
Arcivescovo di Mechelen-Brussel
GIOVEDÌ SANTO

 

Anche il sacerdote ha un cuore

 

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Per il mondo e la gente il prete è uno che parla, che celebra la Messa, che guida il suo popolo. È per così dire, identificato con la parola che dice, con la liturgia che presiede, o con la sua funzione di pastore. Come se non fosse altro che bocca e labbra, gesti e muscoli, ma si parla poco del cuore del prete.
Ci dimentichiamo che ha un cuore, e ci concentriamo sulle labbra, la bocca i muscoli e i gesti. Si dimentica il cuore. E ci facciamo delle domande: Predica bene? Celebra bene? È un pastore fedele, intelligente, capace e generoso? E ci si interessa troppo raramente del suo cuore, delle sue sofferenze, della sua interiorità. Perché l’essenziale dell’uomo non è il corpo, ma il cuore. Vivere questo essenziale, è concentrarsi con tutte le forze sul cuore del mistero del sacerdozio. È andare a nascondersi, interrarsi, seppellirsi nel cuore sacerdotale di Cristo. E l’essenziale è il cuore sacerdotale; non è la bocca, non sono i gesti; non è la lingua, non sono i muscoli; non sono le mani e non sono i piedi. “Non dimenticate il cuore!”.
Il sacerdozio nella Chiesa attuale ha un grande bisogno di guardiani vicino al cuore, di cardiologi spirituali. Perché se il cuore cede, cosa diventa il predicatore? Un semplice altoparlante in uno stadio. E un altoparlante è incapace di restituire i suoni e le frequenze più alte e più basse, come anche la musica dell’orchestra trasmette. Separa gli ascoltatori dalle risonanze, e soprattutto dalla presenza dell’orchestra che suona. Separa gli ascoltatori dalla Bibbia e dallo Spirito Santo. Parlano e parlano, dicono molte cose, ma non comunicano praticamente nulla. Il bravo parroco di Torcy, nel romanzo di Bernanos “Diario di un curato di campagna”, diceva al suo giovane confratello prete: “Non mi piacciono quei predicatori di Notre-Dame che fanno tanti bei discorsi dal pulpito senza soffrire. Io quando scendo dal pulpito, soffro, perché mi sono tagliato nel vivo. Io quando predico soffro”. E che cos’è un prete che celebra con le mani, ma che non ha il cuore in agonia? È un attore di teatro, nella liturgia. Che non sa nemmeno cosa dice, quando dice: questo è il mio corpo spezzato per voi; questo è il mio Sangue versato per voi. Dove sono le sue sofferenze? Sono lacrime da attore di teatro.
E che cos’è un prete che dirige la sua comunità secondo le semplici leggi e tecniche della comunicazione sociale tra uomini e in gruppo? Dirige o ama? Nelle tecniche di gruppo non è mai richiesto di andare fino al dono della vita per il gruppo. Nessuna scienza umana di comunicazione dice questo. No. Il sacerdozio è molto più amore che competenza; molto più interiorità che eloquenza; molto più amore che abilità. Perché il sacerdote ama come il Cristo Sommo Sacerdote ha amato. Tutta la sua bellezza e tutta la sua competenza è interiore.
Il vero prete si nasconde nel Cuore di Gesù, è inserito nella circolazione sanguigna di Cristo. Quale? Il Cuore di Cristo batte unicamente sul ritmo dell’obbedienza a suo Padre. Il Cristo-Sacerdote praticamente non ha autonomia: è inserito nel Cuore di Dio suo Padre. “Noi, io e il Padre, siamo una cosa sola”. Ma cosa dice la lettera agli Ebrei di questa obbedienza del Cristo? Una frase misteriosa. la lettera agli Ebrei dice: “Cristo ha dovuto impararla, questa obbedienza”. Infatti il testo riporta che il Padre dice al Cristo: “Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek. Egli, nei giorni della sua vita terrena, avendo offerto, con forti grida e lacrime, preghiere e suppliche a colui che poteva liberarlo da morte... essendo stato esaudito per la sua pietà, pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì; dopo esser stato reso perfetto, allora è diventato, per tutti coloro che gli obbediscono, principio di una salvezza eterna”.
Ecco, in questo testo, il cuore del cuore di ogni prete: l’obbedienza. È imparata alla scuola della sofferenza, per diventare, attraverso la potenza interiore dello Spirito di Cristo, per gli altri, causa di una salvezza eterna; per una moltitudine. Ecco il più profondo del cuore di un prete: l’obbedienza imparata alla scuola della sofferenza. Tutto il resto è solo forma: la predicazione, la celebrazione, il lavoro pastorale.
Così dunque il Cristo dice al suo prete: “Caro amico, nei giorni della tua vita terrena, offri con forti grida e lacrime, preghiere e suppliche a colui che può salvarti dalla morte, e sarai esaudito per la tua pietà; pur essendo figlio, imparerai l’obbedienza alla scuola della sofferenza. Sarai reso perfetto, e diventerai per tutti coloro che ti obbediranno, principio di salvezza eterna”.
Si, essere prete vuol dire essere introdotti, come la fidanzata del Salmo 44, nella stanza nuziale del Re, dello sposo di sangue, come diceva Sefora, la moglie di Mosè.
Questa sofferenza sacerdotale, condivisa tra il Cristo e il prete è d’altra parte duplice: prima di tutti è la sofferenza di coloro che assistono nel mondo alla grande lotta tra il bene e il male, nel mondo e nella storia, e di cui tremano il cielo stesso e tutti i suoi abitanti, secondo il libro dell’Apocalisse. È la sofferenza del giardino dell’agonia del grido del Cristo in croce. In nessun formulario liturgico ufficiale i due, la Cena e il Giardino, si trovano riuniti. Ma è Cristo stesso che fa il legame e il passaggio. Essendosi infatti alzato da tavola, dopo aver cantato i salmi, dice “Andiamo al giardino del Getsemani”. “Venite, dice, andiamocene”. Perché la tavola della camera alta è già la terra battuta del giardino del Getsemani. E la tavola della Cena è fatta dello stesso legno della Croce. Il Cristo ama il legno scuro e duro: basta guardare la mangiatoia e la Croce. D’altronde era carpentiere.
La prima sofferenza del prete è quella di vedere, di assistere alla lotta singolare tra il bene e il male, nel mondo e nella storia. Ma c’è ancora un’altra sofferenza del prete: quella della sua fragilità, della sua debolezza. San Paolo parla di una spina nella carne. Non ha mai definito che cos’era; per fortuna d’altronde. Si tratta quindi di tutto ciò che ci disturba per essere interamente un buon prete. Diciamo anche noi, come San Paolo: Signore, liberaci da questo corpo di morte! Sarai tu stesso il primo a guadagnarci. Sarò un prete migliore se non sono debole, ma Dio risponde: No. È attraverso la tua debolezza che sarai forte. Ciò non toglie che la sua fragilità fa soffrire il prete. Questo capita perché crediamo di dover essere qualcuno “accanto” al Cristo, ma non si è un Cristo “in più”. Non esiste un Cristo in più: ce n’è uno solo.
Il cuore del sacerdozio è quindi questo lungo apprendistato dell’obbedienza redentrice, imparata alla scuola della sofferenza.
Ma a partire da Cristo nessuna sofferenza è nera, la morte, è vero, si trova nella vita del prete e in quella del Cristo, ma essa è già resurrezione. Perché la sofferenza, ogni sofferenza che è portata insieme al Cristo, è una sofferenza pasquale. Essa è gioiosa. Di una gioia che, certo, il mondo non può dare.
Il prete vive sempre nella luce. La luce gialla, rossa e arancione del sole che tramonta, del Venerdì Santo; e nello stesso tempo la luce bianca dell’aurora boreale del mattino di Pasqua. La vita di un prete è solo luce; ma è il Cristo-Sole che per la sua posizione all’Oriente o all’Occidente, fa sì che si abbia la tristezza del tramonto, o la gioia dell’aurora. È, come nella natura: il Cristo-Sole si prende cura, nella vita del prete, dell’alternanza richiesta affinché tutto, nella prateria della sua Chiesa, possa germinare, crescere e fiorire attraverso le sere e i mattini che si succedono.
(Dal MESSAGGERO di Gesù Bambino - Aprile 2001 n. 4)

LA MAMMA DEL PRETE

Grazie mamma per l’amore
che gli hai donato
grazie per quando tra le
braccia lo stringevi
grazie per le filastrocche
che gli cantavi
grazie per quando
di Gesù gli parlavi
grazie mamma per quando
al tuo figlio hai rinunciato
perché lui il suo cuore a
Gesù aveva donato
grazie Gesù per questo dono
che hai donato al mondo intero,
che hai donato a me!

IL MIO FRATELLO PRETE

Caro fratello sacerdote, Dio ti ha prescelto per vivere in totale fusione con lui, e divenire con Gesù un cuor solo e un’anima sola, ricordati di questa chiamata, ricordatene quando nelle tue mani Gesù si incarna come si era incarnato nel tempo nel seno di Maria.

Vivi questo mistero e fallo divenire essenza del tuo dono per noi, trasmettici questa luce e questo fuoco che farà infiammare molti cuori inariditi e brucerà le scorie di tanti nostri peccati.


LETTERA APERTA AI SACERDOTI

“Dio è amore” dice S. Giovanni della Croce e io aggiungo “Dio è gioia!” lo è davvero! Da quando ho conosciuto Gesù sono sempre stata nella gioia. La parola “gioia” è per me una parola chiave e spero che mi accompagnerà per tutta la vita. È una testimonianza che voglio dare. In tutte le situazioni: Dio è gioia! io questa sensazione posso viverla solo nel mio piccolo ambiente claustrale, ma voi, miei amati sacerdoti, non solo ditelo nelle prediche, ma vivetela questa virtù della gioia! non fatevi mai vedere tristi e cupi. Accogliete tutti con gioia. Se viene a voi qualcuno che piange fate in modo che le sue lacrime si tramutino in gioia. Il Signore Gesù con la sua passione, morte e risurrezione ci ha “deificati” e nel sacerdote soprattutto si deve vederne il riflesso negli occhi e nei gesti. Dio è gioia! Voi sacerdoti ditelo con gli occhi, con il sorriso, con il cuore. Vedendo voi sacerdoti uno dovrebbe chiedersi: perché è sempre nella gioia? E la risposta la dovete dare voi: perché ho incontrato Gesù! Vieni te lo presento!

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ultimo aggionamento 14 maggio, 2001