STUDI

Prof. Antonio Colasanto

Intervista al filosofo Orlando Todisco

Lo Stupore della ragione e il pensare francescano

 

E' ancora possibile, oggi, in un’epoca in cui prevale il pensiero debole, che la ragione possa stupirsi? Quale scenario nell’età della scienza potrebbe suscitare non meraviglia, che è di breve durata, ma stupore, come modo di essere e di pensare?
A questi interrogativi risponde il filosofo Orlando Todisco, docente di Filosofia medioevale e preside della Pontificia Facoltà Teologica “S. Bonaventura” di Roma, con il suo recente volume “Lo stupore della ragione. Il pensare francescano e la filosofia moderna, Padova, Messaggero 2003, pp.610.”
La risposta dell’autore è semplice e disarmante insieme, come lo è la filosofia francescana, di cui, da anni, con i suoi studi su Bonaventura, Duns Scoto e Guglielmo d’Occam, si è dimostrato studioso attento e interprete originale.
Le creature sono. Non sono però perché avessero diritto ad essere. Il diritto comincia dal momento in cui si è. Se nessuna creatura ha diritto ad essere -ci dice Todisco accogliendoci nel suo studio al Seraphicum per questa intervista- per il fatto stesso che esistono significa almeno due cose. Anzitutto, rinvia a colui che le ha volute pur potendo non volerle, con sullo sfondo l’interrogativo: perché, pur potendo non volerle, le ha volute? Perché, tra le infinite possibili, ha voluto queste e non altre, le ha volute ora e non allora, così e non altrimenti? Ogni creatura custodisce un mistero, di cui non viene a capo, ritrovandosi nel fondo enigma a se stessa. La ragione è indotta a smettere l’abito interrogante, perché le domande circa il perché di queste e non di altre creature, in questo tempo e non in altro tempo, si perdono nell’abissale libertà divina. Inoltre, il fatto che le creature siano senza averne alcun diritto induce a pensare che l’essere è essenzialmente un dono.”
Fondendo insieme i due motivi – la libertà di colui che ha voluto pur potendo non volere o volere diversamente ciò che ha voluto, e l’essere come dono- si impone la tesi originale e qualificante del saggio, e cioè il fondo del reale è il bene, originale sorgente di tutto ciò che è”.
È il volontarismo francescano, secondo cui il bene trascende il vero, cifra dell’inatteso e del gratuito. Il bene non in alternativa al vero, ma sua trasfigurazione, come la volontà rispetto all’intelletto. Il bene dunque non a spese del vero: non si tratta di essere buoni mentendo o affidandosi all’emozione.
Prof. Todisco, Lei sostiene che la bontà è la condizione della verità o anche la spia dell’autenticità. Perché?
“La riproposizione, oggi del bene come anima del vero è sollecitata dall’indole del secolo appena trascorso, qualificato in alcuni rilevanti passaggi come il secolo del vero senza il bene delle singole persone (comunismo, nazismo…) o anche contro il bene (campi di sterminio, gulak…). Infatti, la realizzazione di progetti ideali e di convivenza politica, variamente teorizzati, ha avuto luogo a detrimento della forza diffusiva del bene, nel senso che, invece di contribuire all’ampliamento delle forme di vita, le ha contratte e mortificate.”
E l’autore a questa lettura contrappone, in modo teoreticamente fecondo, il primato francescano del bene, inteso questo non come luogo di potere ma come prassi di senso, non come regno a sé, ma come anima del vero e sua misura. Se una certa storiografia, utilizzando come filtro critico il primato del vero e dell’intelletto, ritiene che il volontarismo (G. Duns Scoto) emargini l’intelletto e il nominalismo (G. d’Occam) annulli il carattere universale del vero, con l’epilogo necessariamente nichilista in filosofia e decisionista in politica, qui l’autore apre un altro capitolo.
Per Todisco, infatti, volontarismo e nominalismo non sono da intendere in alternativa all’intelletto o al vero, ma contro il loro primato, a favore della forza diffusiva del bene, nel quadro dell’assunto, secondo cui, dal punto di vista del suo venire all’essere, il reale è “di diritto senza diritto”, sicché qualunque essere per un verso porta con sé una dimensione incatturabile di mistero, traccia di quella volontà che pur potendo non volerlo, l’ha voluto; e per l’altro, si offre come dono, non come soddisfazione di un’esigenza, né tantomeno come compimento di un diritto.
È questa la sorgente non effimera dello stupore come atteggiamento ospitale, nel quadro della cultura del confronto, della differenza e della pluralità, alimentata non dallo spettro lugubre della mortalità (Heidegger), ma dall’evento festoso della natalità (Arendt), non dalla “mancanza originaria” (Sartre), ma dalla “presenza dell’altro”, il cui volto è “ineffabile” (Wittegenstein), non però estraneo (Lèvinas). Se parte della filosofia moderna, intenta a cogliere la razionalità in atto o ad accrescerla secondo la traiettoria dei suoi progetti, ha fatto del vero lo spazio di dominio dei pochi sui molti, non pare illegittima questa filosofia che propone il primato del bene, sostegno della prassi universale di senso ai fini della realizzazione del progetto della sovranità di tutti e di ciascuno. Si tratta di un modo-d’essere-al-mondo- non del tutto distante dalle suggestioni di autorevoli interpreti del nostro tempo come R. Girard, E. Lèvinas e Wittegenstein con i quali – nel saggio di cui stiamo parlando - il Todisco pone in dialogo i grandi della stagione francescana da Bonaventura a Bacone, da Duns Scoto a Guglielmo d’Occam.
Una possibile feritoia - ci dice l’autore - attraverso cui è possibile cogliere la fecondità di questa filosofia, è costituita dal significato fondamentale del ‘sentirsi voluto’, che forse è effettivamente l’esperienza originaria, anteriore a ogni riflessione, sorgente dell’atteggiamento ottimistico verso la vita. Il sentirsi amato prima di essere dispone a guardare al mondo senza diffidenza e a considerarlo come la ‘propria casa’. È questa esperienza di amore immeritato che, davanti al negativo, sotto le sue molte forme, mostra la sua fecondità provocando un’autentica pietas per i destini spezzati e una forte voglia di operare a favore di ciò che è rimasto incompiuto. Il sentirsi avvolto da tale sguardo di gratuità allude a una traccia di assoluto - di non atteso né meritato e dunque divino - che dispone a comprendere Dio come Padre o, in genere, a condividere la religione cristiana, cifra suprema della donazione di Cristo alla creatura, anche se indegna e ribelle. Dio infatti non ci ama perché siamo amabili, ma ci ama per renderci amabili. Qui l’anteriorità del bene sull’essere è evidente.
In quest’ottica il proposito del volume, e cioè indurre ad amare non solo ciò che è amabile, ma anche e soprattutto ciò che non è amabile perché lo divenga, è di indubbia forza teoretica oltre che esistenziale.
Prof. Todisco, il pensare francescano, dunque, una filosofia valida per il nostro tempo ?
Non c’è situazione che non ceda davanti all’impegno di colui che, risalendo al gesto di amore del creatore, ama per rendere amabile ciò che non lo è. Quanto tale prospettiva vada alle radici della problematica del nostro tempo, alimentata dal sospetto o dalla vendetta, a causa del mescolamento di lingue e costumi è superfluo rilevarlo.
Ma forse non è superfluo rilevare che l’anima di tale prospettiva filosofica è lo stupore, proprio dei ‘bambini’, di cui parla il Vangelo, perché induce a contemplare il mondo come se fosse al primo mattino, sempre nuovo e sempre voluto, oltre dunque e contro l’arroganza dell’adulto che guarda con disincanto, perché incapace di risalire da ciò che è a ciò che poteva essere, dall’attuale al possibile, rispetto al quale ciò che è in atto è stato voluto da colui che poteva non volerlo. Lo stupore qui fa tutt’uno con la gratuità dell’essere e questa con il senza-perché ma non senza-senso, confermandosi essenziale alla condizione umana”.

Orlando Todisco, oggi, con “Lo stupore della ragione. Il pensare francescano e la filosofia moderna”, ci propone una originale e suggestiva lettura della filosofia francescana, capace di restituirci il ‘valde bonum’ dell’esistenza delle creature, come al suo primo mattino.

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ultimo aggionamento 30 marzo, 2003