STUDI

Ulisse Bresciani 

 

La preghiera ha sempre necessità di apprendimento. Nonostante l’uomo di oggi sia convinto che la preghiera possa sgorgare spontaneamente dal cuore, è sempre necessario imparare a pregare. Nessun percorso è più vero e più alto di quello che Gesù ha indicato ai suoi discepoli quando gli hanno chiesto. “Signore, insegnaci a pregare”(Lc 11,1)
Riportiamo di seguito uno stralcio del libro “Voi dite ‘Padre nostro’” pubblicato dall’Edizione Porziuncola. L’autore, Don Ulisse Bresciani, laureato in psicologia presso l’Università di Padova è attualmente parroco della Basilica di S. Andrea a Mantova. (N.d.R.)

 

Sia fatta la tua volontà
Pregando il Padre nostro

Probabilmente è la più temuta delle domande della prima parte, ma è la più essenziale. Essa riassume le altre due precedenti “sia santificato il tuo nome” e “venga il tuo regno”.
Chiariamo subito che la volontà di Dio non si riduce a comandamento che richiede solo obbedienza. Essa esprime - ancor prima di questo e a fondamento di una risposta che pure ci è richiesta – desiderio, compiacenza. E’ un moto positivo che volge Dio verso di noi, non un’imposizione. Nella prima lettera di Timoteo si legge. “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi” (2,4). La volontà di Dio è il suo disegno di paternità nei confronti di tutti gli uomini: una volontà di salvezza dunque, che chiama all’esistenza non solo l’uomo, ma insieme con esso tutte le cose. Il Creato è il primo gesto di salvezza. La natura è tutt’altro che semplicemente “naturale” nel senso biologico del termine, è teologale. Porta impressa in sé una volontà di compiacenza, un desiderio. Dio crea il mondo perché vive già all’interno di sé una dimensione dialogica. Dio è dialogo, è reciprocità e crea perché chiama all’esistenza. La sua volontà, dunque, è una chiamata all’esistenza.
Il dialogo che è all’interno di Dio, chiamando all’esistenza altre soggettività, crea interlocutori per aprire orizzonti di reciprocità.
“Parola” nell’ebraico biblico corrisponde a “Fatto, evento” distinguendosi nettamente dal significato di “logos” della cultura occidentale. La parola che Dio pronuncia, la volontà che Egli esprime, è il fatto della nostra esistenza. Esistiamo perché chiamati. Non siamo semplicemente chiamati all’esistenza, ma “siamo” perché la volontà di Dio ci “pronuncia” in termini assoluti, come l’icona di se stesso (Gn 1, 27). Dio si compiace che esistiamo, vuole entrare in dialogo con noi per accoglierci nel dialogo che è in Lui.
E’ strano che noi, pur credenti, arriviamo a questa domanda del padre nostro con il dente levato, avendo timore che il farsi della sua volontà sia contro di noi. Non siamo suo terreno di conquista, non è invidioso di noi, non lo oscuriamo per il fatto di esistere, avendoci fatti a sua immagine e somiglianza. La volontà di Dio è una volontà di salvezza, che troviamo espressa nell’inno di apertura della lettera agli Efesini:

Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. (1, 3-7).

Ecco la sua volontà: l’averci scelti nella carità, nell’agàpe, nell’intimità vitale del suo stesso esistere perché “Dio è amore” (Gv 4, 8). Una volontà traboccante vita, grazia, accoglienza, perdono.
Ma questa volontà, già in sé efficace, non s’impone, sceglie di sollecitare la risposta della fragile ed ambigua volontà dell’uomo. Non per soppiantarla, per renderla inutile o superflua, ma per renderla perfetta nella maturità di dialogo e d’incontro in cui Dio cerca interlocutori, cerca volti, il tu dei suoi figli.
Nel Padre nostro noi domandiamo che questo si compia. Il verbo al passivo, che noi traduciamo con “sia fatta”, in realtà significa “avvenga”, “accada”, “si realizzi”, “divenga realtà”. Come quando un progetto si trasforma gradualmente in costruzione vera e propria; è il passaggio dal disegno alla realizzazione. Chiediamo a Dio innanzitutto di rimanere fedele al suo disegno, a Cristo il prototipo - come indicato nella lettera agli Efesini, più sopra citata. Lo preghiamo che Gesù Cristo rimanga sempre il suo disegno - nonostante gli errori e le deviazioni della storia, nonostante le infedeltà che commettiamo, i rifiuti che opponiamo - e che questo disegno si trasformi man mano in costruzione, cioè “avvenga”, “accada”.

Chiediamo al Padre che questo accada anche nella nostra volontà, ed essa non si smarrisca dietro le illusioni. Ma questo non può accadere se Dio non prende in mano il nostro cuore. Se il Padre non ci dona un cuore nuovo, noi non siamo in grado di rispondergli, di essere un tu che gli risponde. Il verbo al passivo potrebbe, senza forzatura, essere reso in questo modo: “Vieni tu, o Signore, a realizzare in noi la tua volontà”. È Dio che semina il regno e lo porta a maturazione.

Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio (Ez 36, 27-28).

Ecco la reciprocità di cui parliamo: voi siete il mio popolo perché io sono il vostro Dio; sarete il mio popolo quando il vostro cuore sarà in sintonia con me. Come afferma il profeta Geremia:

Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo (31, 33).

Ritorna il rapporto tra alleanza e volontà di Dio. Per noi che abbiamo paura di essere costretti alla volontà di Dio, appare molto chiaro che non ci sarà altra costrizione che quella dell’amore.
Un versetto del Cantico dei Cantici ritorna tre volte sempre uguale, quasi un ritornello:

Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia (2, 7; 3, 5; 8, 4).

Il diletto non sveglia la sposa senza che essa lo voglia. Il Signore non ci prende a tradimento, non ci fa violenza - con un’immagine evidentemente un po’ forte - anche se Geremia giunge fino ad affermare:

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso (20, 7)

Questo è lo stile di Dio, quando si tratta del suo rapporto con noi e del nostro con Lui.
Non c’è altra “costrizione” che questa: quando - come in Gomer, la sposa infedele di Osea - si ridesterà in noi il desiderio di ritornare allo sposo e accoglieremo la sua presenza, Lui ci chiamerà “Mio compiacimento” (Is 62, 4).
A Gomer, icona del popolo infedele che ha tradito l’alleanza, ormai non più “mio popolo”, non più “mia sposa”, il profeta annuncia:

Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore.
Le renderò le sue vigne
e trasformerò la valle di Acòr
in porta di speranza.
Là canterà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
mi chiamerai: Marito mio,
e non mi chiamerai più: Mio padrone (Os 2, 16-18).

Nel testo ebraico il verbo “attirerò” evoca una situazione di seduzione, da intendersi in senso alto. Dio non si dà pace fino a quando non ci ha riconquistati al suo amore.
Dio non è Dio se noi popolo non viviamo in sintonia con lui, così come lo sposo non può essere sposo senza la sposa. E il popolo non è popolo se, chiamato, non risponde.

Se quanto abbiamo detto finora è servito a chiarire cosa significa “volontà di Dio”, rimane ora da chiedersi come questa volontà “sia fatta” sulla terra.
Fare la volontà, dunque, non è propriamente e principalmente la sottomissione ad un imperativo etico, ma è la comunione con il volto che attendiamo. La volontà di Dio è un problema perché noi non attendiamo la venuta di Dio. Ne parliamo, talora ne abbiamo bisogno, ma non è colui che aspettiamo, senza del quale i nostri giorni perdono di significato. Per spiegarmi ricorro all’esperienza dell’innamoramento, soprattutto quando è allo stato nascente, a quel desiderio di vedersi, a quel senso di attesa, a quel turbamento nel sentire la voce che segnala la presenza inaspettata. Se non viviamo l’attesa con questa freschezza, Dio ci apparirà imprevedibile ed inquietante. Sarà, la sua, una volontà temibile e non una volontà d’amore e di tenerezza, un approdo di pienezza al quale anela la nostra vita. Colui che aspetto, sarà la norma per me.
E tuttavia il percorso per approdare a questa comunione con Dio è lungo e difficile, persino insidioso, perché ci sono le illusioni, le seduzioni, anche le persecuzioni. Perciò Gesù c’invita a pregare affinché il nostro cuore, ma anche il cuore di tutti gli uomini, accetti la volontà di Dio, cioè di lasciarsi raggiungere da Dio completamente, con sincerità, senza restrizioni mentali.
Possiamo dire di avere pregato Dio in questo modo? Quante volte, forse, abbiamo pregato sperando che Dio non ci ascoltasse secondo se stesso, ma ci permettesse di stare secondo noi. Ovviamente, quando ciò accade, non esiste la reciprocità circolare di un io che chiama e di un tu che gioiosamente risponde, coinvolto e catturato in una risposta che è già germinazione di ciò che aspetta, e che sorpasserà ogni attesa.
Non possiamo essere superficiali e disinvolti: si tratta dell’incontro di due volontà, quella di Dio e quella umana. Un incontro imperscrutabile e misterioso, che sfugge alle più sottili analisi psicologiche: per andare a Dio bisogna essere attratti da Dio stesso (cfr Gv 6, 44). Non si tratta di un’adesione alla lettera della Legge - come dice San Paolo ai Romani 2, 18 -, ma alla persona di Dio che si è rivelata in Gesù. È assenso al Padre perché abbiamo incontrato il Figlio nella vitalità dello Spirito Santo, che lo rende intimo e fraterno alla nostra esperienza.
Emerge la necessità - per non perderci in misticismi inappropriati alla nostra reale esperienza di fede - di assumere umilmente il percorso educativo dei comandamenti. Torniamo alla volontà di Dio come comandamento, senza paura di smentire quanto finora abbiamo considerato. I comandamenti sono il percorso di purificazione per chi è immerso nell’ambiguità delle illusioni ed è tentato di fondare su ciò che è già a portata di mano ciò che dovrebbe solo aspettare.
Un itinerario di regole per sintonizzarci su Dio, per mettere in linea il nostro punto di vista e i nostri desideri con il Signore, con il suo disegno su di noi. È un percorso che conosce molte sconfitte, un cammino arduo, spesso segnato d’incoerenza, ma che anche attraverso lo smacco può smantellare roccaforti di chiusura.
Quando l’errore mette in evidenza la nostra reale povertà se, invece di difenderci cercando colpevoli altrove quasi l’errore non ci appartenesse, con umiltà non ci vergognassimo di essere poveri davanti a Dio, proprio in quel momento potrebbe aprirsi una breccia nella nostra indisponibilità. Da questa fenditura irromperebbero gli sconfinati orizzonti della salvezza di Dio, non più legata al nostro inossidabile perbenismo da primi della classe. Il cammino umile e concreto del comandamento, senza svolazzi, è il binario sul quale possiamo incanalare il nostro percorso. Sarà, modestamente ma efficacemente, la concretezza della risposta che il Signore aspetta da noi. Non c’è necessità d’inventare percorsi, essi sono già tracciati. C’è, semmai, urgenza di perseverare in essi.
Una parola forte di Gesù lo afferma con disarmante chiarezza:

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? lo però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande (Mt 7, 21-27).

È il rischio di una preghiera che non c’impegna con Dio. È il rischio di un ascolto che non diventa vita. L’essenziale non è l’ascoltare come retta comprensione, non è il dire esattamente, ma il vivere nella fedeltà alla Parola. Noi potremmo essere paghi di avere ascoltato, riflettuto, discusso, programmato, persino di aver compiuto miracoli e cacciato demoni nel suo nome, ma se tutto questo non ha trasformato il nostro modo di vivere e di fare, Lui non ci riconoscerà come suoi.
Ovviamente, anche a questo proposito, vanno precisate alcune cose per non appiattirci in qualche barbarie mentale o religiosa. Non necessariamente le parole sono solo parlare, c’è la parola che annuncia il Signore e questo è un fare. Non a caso, come abbiamo ricordato più sopra, “parola” in ebraico si qualifica come “fatto, evento”. La chiacchiera non è fatto, ma la parola che annuncia, che convince, la parola della verità (non nel senso filosofico, ma nel senso cristiano) è fare. “lo sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6), dice Gesù. La parola del Signore realmente ascoltata è fatto ed evento che incontra delle esistenze e le chiama, trasformandole. Del resto, sull’altro versante, non tutte le opere sono un fare secondo il Signore: se non sono animate da quel “cuore” di cui hanno parlato Ezechiele e Geremia, se non s’inscrivono dentro questo rapporto con Dio, nella reciprocità dell’incontro che accoglie, non si tratta di un fare evangelico.

Abbiamo collegato e coniugato “volontà” con “reciprocità”. Tutto chiaro, dunque?
Non possiamo ignorare quella pagina inquietante che, raccontando l’esperienza del Getsemani, ci apre al misterioso rapporto tra Gesù e la volontà del Padre. Ci è chiaro, come credenti, che tutta la vita di Gesù fu perennemente orientata alla volontà del Padre. Neppure in quel momento che noi chiamiamo “agonia”, nel senso etimologico di lotta, Gesù era opposto al Padre, o voleva qualcosa di diverso. Perché, dunque, quella resistenza, quell’angoscia inconsolabile. (In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra). (L 22, 44)
Perché il suo morire, l’essere consegnato nelle mani dei peccatori, era qualcosa di scandaloso. E lì non c’era disattenzione nei confronti del Padre o rifiuto della sua volontà, ma c’era la naturale, ovvia ribellione del suo esistere di fronte ad una morte così violenta e ingiusta che egli pure stava prevedendo e aspettando.
Lo stesso accade nell’esperienza dei santi. Essi non sono sottratti alla prova, alla difficoltà che accompagna chi, intuendo il mistero di Dio, s’infiamma del desiderio di seguirlo, ma è rallentato e impaurito dalla pesantezza umana, psicologicamente intimidita dalla totalità del coinvolgimento del Regno.
È un messaggio per noi: la volontà del Padre, pur invocando la reciprocità dell’amore può richiedere un tale cambiamento dei nostri pensieri e orientamenti di vita da generare in noi paura e turbamento.
Non confondiamo però tutto questo con il tentennamento. Gesù non nutriva alcuna esitazione in quel momento. Ecco cosa ricaviamo dall’esperienza di Gesù nel Getsemani: solo nella preghiera riuscì a porre la sua vita nelle mani del Padre. Ci rendiamo conto che il senso della preghiera è sempre solo questo: porre la vita nelle mani del Padre.
Pregare apre un modo nuovo di vivere la propria esistenza. Possiamo vivere la nostra esistenza come figli, pur nella difficoltà o, addirittura, nell’angoscia. Anche quando il Padre sembra non rispondere, al di là della mia percezione che non mi ritorna nessuna pur tenue presenza di Lui, io sono sicuro della sua paternità. Non negherò un volto che non vedo, ma lo pregherò di far “accadere” in me la sua volontà al di là di ogni mio volontarismo e dei miei meriti. Pregherò per essere quello che sono, quello che Dio mi chiama ad essere. Se Dio non porta a compimento i doni che ha gettato nel solco della mia vita - nonostante lo sciupio a cui li ho sottoposti - io non conoscerò né percorrerò il vero senso della mia esistenza ed essa sarà come un sentiero interrotto.
Pregando la sua volontà, supererò la paura. Anche senza vedere Dio, senza avvertirlo sensibilmente, mi fiderò di ciò che egli prepara per me.
Possiamo concludere con un pensiero della beata Angela da Foligno:

Senza la luce divina nessun uomo si salva. Il lume di Dio fa che l’uomo cominci, lo stesso lume lo conduce alla festa della perfezione. Così se vuoi cominciare ad avere quel lume divino: prega. Se vuoi essere ancor più illuminato dopo essere giunto alla cima della perfezione, per potervi restare: prega. Se vuoi la fede: prega. Se cerchi la speranza: prega. Se desideri la carità: prega. Se vuoi la povertà: prega. Se desideri la castità: prega. Se brami l’obbedienza: prega. Se vuoi la mansuetudine, l’umiltà, la forza: prega. Se aneli verso qualunque virtù: prega.

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggionamento 02 agosto, 2003