GIORNATA DI SPIRITUALITÁ


Giornata di spiritualità per il clero umbro
Collevalenza, 3 giugno 2004

Omelia di Sua Eminenza, nella Celebrazione eucaristica,
sulla Parola di Dio di 2 Timoteo 2, 8-15:

Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso. Richiama alla memoria queste cose, scongiurandoli davanti a Dio di evitare le vane discussioni, che non giovano a nulla, se non alla perdizione di chi le ascolta. Sforzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della parola della verità.

Sforzati di presentarti davanti
a Dio come
- un uomo degno di approvazione,
- un lavoratore che non ha di che vergognarsi,
- uno scrupoloso dispensatore della parola della verità.

 

Carissimi confratelli,
la Parola di Dio, ora ascoltata, senz’altro ha già acceso in ciascuno di noi pensieri, sentimenti, desideri, propositi.
Vogliamo, attraverso la meditazione, farla risuonare ancora una volta, perché sviluppi in noi richiami confortanti e stimolanti per il nostro ministero presbiterale e per la nostra vita spirituale, facendoci scoprire nuovi ideali e nuovi impegni.
La liturgia odierna ci viene incontro in maniera particolarmente felice, perché propone alla nostra attenzione un brano della seconda lettera di Paolo al carissimo discepolo Timoteo, una lettera nella quale l’apostolo vuole far passare l’amore al Vangelo dal suo cuore al cuore di Timoteo, vuole trasfondere la sua stessa passione apostolica di annunciatore e di testimone del Vangelo alle genti (cfr. 2 Timoteo 2, 8-15).
Questo brano, in qualche modo, sta sotto il segno vivo del monito che abbiamo ascoltato ieri nella liturgia: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani” (1 Timoteo 1, 6).
Carissimi confratelli, dobbiamo sentire il bisogno di ritornare sempre alle sorgenti del nostro sacerdozio: è lì che possiamo ritrovare la bellezza, con tutto il suo fascino, dello straordinario dono che il Signore ci ha elargito, il dono di essere presbiteri di Cristo e della sua Chiesa.
Nel brano che oggi stiamo meditando emergono tre richiami, che penso di grande utilità, anzi di vera necessità, per tutti noi.

 

1. Il Vangelo al centro del nostro ministero

Il primo richiamo riguarda la centralità che nel nostro ministero deve essere riservata all’annuncio del Vangelo. Siamo chiamati a fare “tante” cose, ma in ultima analisi “unica” è la cosa che deve stare al centro del nostro ministero, appunto l’annuncio del Vangelo di Gesù.
E il Vangelo di Gesù, nel brano che stiamo meditando, viene indicato nel suo contenuto essenziale, qualificante, del tutto nuovo, inedito, originale: il Vangelo non è semplicemente una notizia, sia pure buona e lieta; ma è una notizia che si identifica con una persona, una persona reale e concreta, Cristo Gesù.
Egli soltanto è il Vangelo vivente, Gesù Cristo, che in questa lettera viene presentato come “della stirpe di Davide, risuscitato dai morti” (v.8). Due semplicissime espressioni, ma quanto mai illuminanti, perché ci dicono che Gesù Cristo è vero uomo e vero Dio; è sì della stirpe di Davide, ma il Padre, con la sua potenza, lo ha fatto risuscitare dai morti. Dunque, davvero è il Figlio di Dio, presente e operante, mediante lo Spirito, in mezzo a noi. Questo è il Vangelo: Gesù Cristo, con la sua carne crocifissa e dolorante, e nello stesso tempo con la sua carne gloriosa, e dunque quale principio di vita nuova e di salvezza.
Ma se questo è il Vangelo, allora, il nostro annuncio del Vangelo non può non risolversi nella forma della testimonianza. Non si può annunciare se non così, attraverso la testimonianza. Una chiave interpretativa del nostro essere presbiteri è proprio questa: noi siamo testimoni. E lo siamo perché Gesù Cristo lo incontriamo, lo conosciamo, lo amiamo, lo seguiamo; perché Gesù Cristo diventa il centro, il cuore, il senso, il respiro della nostra vita, ossia “il tutto” della nostra esistenza.
Allora è possibile comunicarlo agli altri, come ci ha ricordato ancora il Santo Padre con la lettera post-giubilare Novo millennio ineunte. Soltanto se “vediamo” Cristo, lo possiamo “far vedere” agli altri.
Il Signore ci doni la grazia di tenere fisso il nostro sguardo, in grata e gioiosa contemplazione, sul volto del Signore Gesù, per riuscire il meno indegnamente possibile ad attrarre altri sguardi - gli sguardi dei nostri fedeli - sullo stesso e unico volto di Cristo redentore.

 

2. Portare le catene a causa del Vangelo

Un altro richiamo è presente nel brano della lettera che stiamo commentando: il richiamo alla sofferenza.
La sofferenza è parte necessaria, e dunque imprescindibile, dell’esercizio quotidiano del nostro ministero sacerdotale. Non si può servire il Vangelo, annunciarlo e testimoniarlo, senza soffrire a causa di esso.
Quanto mai esplicito è l’apostolo. Scrive: “A causa del Vangelo io soffro fino a portare le catene come un malfattore” (v. 9). Anche ieri, nel brano immediatamente precedente di questa stessa lettera, Paolo invitava Timoteo con queste parole: “Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio” (1, 8).
Confesso anche a voi quanto ho detto ai miei fedeli in alcune occasioni. Tempo fa sono rimasto molto colpito – sono tentato di dire folgorato - dalle parole: “Soffrire a causa del Vangelo”. Mi sono detto: “E tu, arcivescovo di Milano, soffri davvero a causa del Vangelo?”. Ma forse una simile domanda dobbiamo porla a tutti e a ciascuno, in particolare a noi sacerdoti: nel nostro impegno pastorale di ogni giorno soffriamo per il Vangelo?
Quella per il Vangelo è una sofferenza paradossale: è vera e spesso profonda, ma è sempre mista a un sentimento di grande serenità e di fiducioso abbandono a Dio. Anzi, nella autentica sofferenza “apostolica” finisce per svilupparsi una singolare gioia spirituale, appunto la gioia di soffrire a causa del Vangelo.
Dunque, quella per il Vangelo è una “sofferenza gioiosa”. E questo per alcuni motivi, che Paolo ricorda come propria esperienza di vita.
Egli, anzitutto, non si sente mai solo, perché è in compagnia di Cristo, è intimamente unito a lui: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (vv. 11-12).
Paolo, poi, ci assicura che la sua serenità, fiducia e gioia si radicano sull’assoluta fedeltà di Dio che lo ha chiamato, sull’incondizionata fedeltà di Cristo che lo vuole suo strumento vivo e personale. Così scrive: “Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (v. 13).
Infine, Paolo ci ricorda che dobbiamo vivere questa “sofferenza gioiosa” perché abbiamo un debito verso i fedeli che sono stati affidati alle nostre cure. Siamo chiamati, infatti, ad amare questi fedeli. E noi possiamo verificare l’autenticità e la maturità del nostro amore verso di loro quando, proprio per il Vangelo che dobbiamo loro annunciare e del quale dobbiamo essere testimoni, siamo disposti ad affrontare le fatiche, le stanchezze, le delusioni, le incomprensioni, i rifiuti, in una parola le sofferenze connesse con il nostro ministero. “Sopporto ogni cosa per gli eletti”, scrive l’apostolo, “perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna” (v. 10).
Il nostro sacerdozio, carissimi (lo chiamiamo “nostro”, in realtà nostro non è, ossia non ci appartiene), è dei fedeli che sono affidati al nostro amore, alla nostra passione pastorale, alla nostra “sofferenza apostolica”.

 

3. Sulla tua parola getterò le reti

Vogliamo raccogliere, dalla pagina dell’apostolo Paolo a Timoteo, la consegna di presentarsi davanti a Dio con una triplice caratteristica, quella di essere:
-- “un uomo degno di approvazione”: la nostra “umanità”, la nostra autentica e profonda umanità, non è forse la primissima carta che siamo chiamati a giocare nel nostro impegno verso gli altri?
-- “un lavoratore che non ha di che vergognarsi”: il lavoratore, invece, deve vergognarsi quando non lavora o quando, pur lavorando, non si impegna adeguatamente.
-- “uno scrupoloso dispensatore della Parola della verità”: dove lo scrupolo è da intendersi come amore grande e cura vigile per la “verità” di cui è colma la Parola di Dio (cfr. v. 15).
Tutto questo, forse, ci può spaventare. Ci siano comunque di conforto le parole di Paolo che si limita a chiedere la nostra buona volontà, il nostro impegno: “Sforzati – scrive – di presentarti davanti a Dio” (v. 15).
Riponiamo allora tutta la nostra serena fiducia nella parola di Gesù, riascoltata nella meditazione di questa mattina: “Duc in altum!” (Luca 5, 4). A questa parola Pietro non teme di rispondere: “Sulla tua parola getterò le reti” (v. 5). Di fronte poi alla pesca miracolosa, l’apostolo non può fare a meno di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di dire: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (v. 8).
Non dobbiamo avere paura di essere “confusi” davanti al Signore, di riconoscere la nostra verità più profonda, quella di essere “indegni” della grazia che ci è data, di essere “incapaci” di vivere con fedeltà e con generosità il compito che ci è stato posto sulle spalle e nel cuore. Senza timore riconosciamo i nostri limiti, le nostre paure, le nostre stanchezze, le nostre infedeltà. Solo a queste condizioni potremo riascoltare, all’inizio di ogni nostra giornata, la stessa parola pacificante e stimolante che il Signore Gesù ha detto a Pietro e che vuole ridire – sempre di nuovo - a ogni suo apostolo e presbitero: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (v. 10).

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ultimo aggionamento 25 settembre, 2004