STUDI
 

    Mons. Francesco Lambiasi

Meditazione di Sua Ecc.za Mons. Francesco Lambiasi, Assistente Generale dell’Azione Cattolica, ai sacerdoti convenuti a Collevalenza il 2 giugno 2005 per la Giornata di spiritualità presbiterale

 

“Fate questo in memoria di me”

Sacerdoti-Presbiteri nuovi per la Nuova Alleanza

 

Mi introduco con una immagine per presentare il tracciato che seguiremo e che avete sinteticamente esposto nel foglio. Uso l’immagine del tragitto che tutti quanti noi facciamo quando dobbiamo celebrare la Messa: dalla Sagrestia all’Altare. E però il tragitto non è così breve: deve passare per Gerusalemme.

 

1. Don Narciso davanti allo specchio.

Partiamo dalla Sagrestia. Vedo con piacere che sono sempre più diffusi in Sagrestia degli oggetti che fino ad una trentina, quarantina di anni fa, non si vedevano mai: gli specchi. Normalmente c’è uno specchio in Sagrestia, dove il prete, giustamente si può specchiare per andare a celebrare con quel minimo di decoro che il Sacramento richiede.
Una volta non c’erano questi specchi. C’erano delle frasi che in genere nelle nuove Sacrestie sono praticamente assenti. Per es. troveranno quella famosa scritta: «Celebra la Messa come fosse la prima, come fosse l’ultima, come fosse l’unica».

L’immagine dello specchio, mi fa dare un nome al nostro fratello presbitero che chiamerei “don Narciso”, perché la nostra epoca post-moderna viene espressa sinteticamente nella cifra mitologica di Narciso. Cito tra i tanti titoli, quel bel libro di Armido Rizzi: “L’erba voglio. Dal narcisismo alla responsabilità”.
“L’erba voglio”. Quando noi eravamo piccoli e facevamo i capricci, ricordiamo che la nonna, la mamma, la suora dell’Asilo, alle nostre insistenti richieste: «Voglio la bicicletta, voglio questo, voglio quest’altro», rispondevano: “Guarda che l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re”. Invece oggi un’erba molto coltivata è proprio l’erba voglio.
Ricordiamo chi era Narciso.
Narciso era un giovane non cattivo, bello ma infelice, perché stava sempre solo ed aveva la fissa di specchiarsi ad ogni piè sospinto. Per questo gli dei lo avevano condannato ad innamorarsi di una Ninfa che si chiamava Eco. Era nient’altro che il suo doppio, il suo clone si direbbe oggi, appunto la sua eco.
Un bel giorno Narciso, giunto sul limitare di un bosco, alle rive di un laghetto, gli venne ancora la voglia di specchiarsi. Si trovò talmente bello che volle abbracciarsi, e per abbracciarsi si sporse al punto da cadere dentro l’acqua e annegare.
Segni di questo Narcisismo imperante, li troviamo, anche nel linguaggio, sempre più diffuso, tra i giovani. Una breve osservazione di tal linguaggio ci può aiutare a prendere contatto con questo personaggio. Quante volte sentiamo dai ragazzi, in casa, a scuola, in parrocchia, l’espressione: “A me mi pare” che in italiano non si dice: il doppio riflessivo è indicativo di questo atteggiamento narcisistico. “A me mi pare” sta a dire, che ormai la verità è soppiantata dall’opinione. “A me mi pare” dunque è vero. Perché il vero non esiste, esiste l’opinione.
Altra espressione: “A me mi va”. La libertà è barattata con la spontaneità.
E poi diffusissimo: “A me mi piace”. Dove “a me mi piace” sta a dire una terza mistificazione: la felicità scambiata con il piacere.
Ritorniamo allo specchio della nostra Sagrestia.
Un brano di Amedeo Cencini ci può aiutare a prendere le misure con il Narciso che inevitabilmente, ci portiamo dentro, perché lo respiriamo nell’aria.
Ecco come Amedeo Cencini descrive Don Narciso: «Prete rampante che cerca di specchiarsi in tutto quel che fa, vive col continuo sospetto che la vita gli chieda troppo senza ripagarlo adeguatamente, sente la Chiesa, o la Diocesi, o la parrocchia, o la Comunità religiosa più come matrigna che come madre. Ritiene che il Vescovo od i suoi Superiori non lo valutino abbastanza, avverte quella Parrocchia o quel particolare impiego come un abito o un ambito troppo stretto per le sue possibilità. Naturalmente se qualcosa non funziona è sempre colpa della struttura o degli altri, si stufa di dover continuamente dare agli altri, eterni scocciatori, senza mai ricevere ecc. E continuando a specchiarsi in quel che fa, rischia davvero di annegare, come Narciso, nella sua acqua. Quasi un suicidio psicologico».

Narciso dunque muore così, abbracciandosi. Tutto il contrario di Gesù Cristo nostro Signore, che muore a braccia spalancate, nell’atteggiamento che ha avuto sempre in tutta la Sua vita, perché Gesù è vissuto così. Non c’è scritto mai nel Vangelo che Gesù ha rinserrato le mani sul suo petto per abbracciarsi, o per trattenersi qualcosa.
Il verbo “prendere” quando nei Vangeli è riferito a Gesù, è sempre seguito dal verbo “dare”. Gesù prende e da; non prende per mettersi in tasca, non prende per possedere né tanto meno per catturare.
Gesù muore a braccia spalancate. Questo è l’atteggiamento Eucaristico, antinarcisistico proprio a centottanta gradi.
Proviamo a specchiarci in Gesù. È Lui che ci restituisce la nostra vera immagine, Lui ci ridà l’ideale che ci ha fatto vibrare quando eravamo in Seminario, che ci ha fatto piangere di gioia il giorno dell’Ordinazione. Un ideale che non può ridursi a un vulcano spento.

 

2. Gesù davanti alla croce

Quale è stato l’atteggiamento di Gesù di fronte alla sua morte?
Sant’Ignazio ricordava al predicatore che non deve dilungarsi nello spiegare, perché non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire, il gustare le cose interiormente.
In questo modo vogliamo avvicinare Gesù che affronta la Sua Morte, la Sua Croce.ù
Gesù ha davanti a Sé varie possibilità.

a) Prima, possibilità: la resistenza armata.
Gesù poteva difendersi da questa violenza che si stava riversando contro. E difatti nel Cenacolo ne aveva parlato. “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada venda il mantello e ne compri una... Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose: basta!» (Lc 22, 36-38).
Gli Apostoli non capirono nulla. Gesù non voleva la resistenza armata, non esortava a prendere armi.
Gesù non ha fatto ricorso alla violenza, nemmeno nel momento in cui veniva catturato e poteva difendersi come aveva fatto altre volte. Gesù disse: «Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi (Mt 26, 55)... Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono» (Mt 26, 51-56).
Gesù non si lascia tentare dalla aggressione nemmeno per difesa, non dico per ritorsione; poteva avere una reazione come quella degli Apostoli, di Pietro che sfodera la spada. A lui disse: «Pietro rimetti la spada nel fodero» (Mt 26, 52).
E nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano». Perché si adempisse la parola che Egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (Gv 18, 8-9).
Gesù evita la carneficina, ben consapevole che non poteva fronteggiare, quella “coorte” composta di un centinaio o più persone venute per catturarlo. Gesù rifiuta questo perché ama i suoi. Quando viene il lupo, si espone Lui perché nessuno dei suoi perisca. Non risponde alla violenza con la violenza.

b) Seconda possibilità: la rassegnazione arrabbiata di Geremia.
Geremia affida la sua causa a Dio. È un bel passo avanti. È come dire: “Signore sei Tu il Giudice, io mi fido di Te, però Tu fammi vedere la vendetta” (cf Ger 11,20; 18, 21-23).
Geremia chiede a Dio di vendicarlo. Gesù, invece, chiede al Padre di perdonare ai suoi crocefissori, addirittura di scusarli: “Padre perdonali, perché non si rendono conto di quello che stanno facendo”. Gesù distrugge in Se Stesso l’inimicizia.
Dice bene la Lettera agli Efesini: Gesù è la nostra pace perché Lui ha distrutto in Se Stesso l’inimicizia. Non ha distrutto il nemico al di fuori di Sé, e nemmeno ha chiesto a Dio di incenerire i Sui crocefissori; ha chiesto di perdonarli.

c) Terza possibilità: la superiorità eroica di Socrate.
Socrate è un eroe, un campione innocente.
Pare che Rousseau sia stato il primo a fare un confronto fra la morte di Socrate che ci è raccontata da Platone, testimone oculare, e la morte di Gesù.
Ricordiamo Socrate. Sul fare dell’alba, è in carcere. Arrivano i suoi discepoli e trovano Socrate sereno, addirittura ironico, sprezzante della morte che sta per essergli inflitta. Allora Critone, uno dei discepoli gli dice: “Maestro dicci qualcosa di grande, dicci l’ultima parola, che noi possiamo consegnare alla storia” e l’ultima parola di Socrate è una celia, una battuta: “Critone ricordati che noi dobbiamo un gallo ad Ascalepio, ricordatelo, non te ne dimenticare”.
L’ultima parola di Socrate è l’ironia. Poi trangugia la cicuta avidamente, come se fosse un nettare celestiale e muore da eroe.
Tutto il contrario di Gesù che “nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime” (Eb 5, 7-10).
Gesù ha avuto paura, ha tremato di spavento e di orrore di fronte alla morte, ha sudato sangue, e quando l’Angelo va a porgergli la coppa della Passione, Lui prega il Padre di allontanare, quel calice aggiungendo però di voler fare la Sua volontà. Gesù non è impassibile come Socrate.
Socrate muore come un eroe, come a noi piacerebbe morire. Gesù muore come di fatto si muore. Come nemmeno Francesco d’Assisi morirà, perché Francesco morirà, dopo Gesù. Gesù è stato Colui che è precipitato più in basso di tutti, al punto che per quanto noi cadiamo in basso c’è sempre Lui pronto a raccoglierci, perché ha vissuto la solitudine più amara che raccoglie tutte le solitudini.
Gesù fu esaudito per la Sua pietà. In che senso?
Non nel senso che la morte gli venne risparmiata.
Forse anche Maria ai piedi della Croce (Maria poteva guardare Gesù incrociando il Suo sguardo, perché non è che il Crocefisso stesse tanto in alto) avrà supplicato nel suo cuore: “Figlio mio, scendi dalla croce, forse crederanno”. È umano, è materno, tutto questo. Ma Gesù resta in croce. “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza delle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio Sommo Sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5, 7-10).

d) Gesù dinanzi alla morte non reagisce con la resistenza armata, né con la rassegnazione arrabbiata, né con la superiorità eroica, ma con la consegna disarmata.
“Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora, di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine...” (Gv 13,1).
Quando celebriamo la Messa noi insistiamo giustamente sulla Consacrazione come trasformazione ontologica, come transustanziazione (il pane che diventa il Corpo di Cristo e il vino che diventa il Suo Sangue), ma c’è una trasformazione ancora più forte che Gesù ha vissuto storicamente in Sé Stesso.
Mi sono coniato una parola che mi aiuta e spero che possa aiutare anche voi. Oltre che di transustanziazione possiamo parlare “transmessianizzazione”. Mi spiego.
Quando Gesù chiede ai suoi Discepoli: “Che dice la gente che io sia... ma voi che dite che io sia” e Pietro risponde” Tu sei il Cristo” (cf Mt 16, 13-16), Pietro ha la risposta giusta, ma ha un’idea sbagliata del Messia, tanto che Gesù gli dirà: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8, 33).
Dunque c’è Messia e Messia. L’idea dominante che si era radicata anche nella testa dei discepoli e di Pietro era quella del Messia vincitore. Gesù invece vive l’identità del Messia sconfitto.
Questa è la trasformazione, che si opera storicamente in Gesù, e se noi non capiamo questa trasformazione non riusciamo a capire nemmeno la transustanziazione.
Gesù si lascia consegnare. Chi è che consegna Gesù?
È Giuda che per 30 denari lo consegna al Sinedrio, il Sinedrio lo consegna a Pilato e Pilato lo consegna ai soldati, perché lo crocifiggano.
Questa è la linea umana della consegna, della “traditio”. Giuda fa la “traditio”, è il traditore in quanto “tradit” Gesù. Lo consegna e lo tradisce.
Questa è la linea umana. Ma Gesù, in questa linea, che è una linea obbiettivamente criminale perché Gesù è innocente, non merita quella morte, si inserisce attivamente e positivamente perché nella luce della fede ci vede la consegna divina, la consegna del Padre: il Padre consegna a noi il Figlio. “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom 8, 32). E il Figlio condivide, fa sua, questa donazione del Padre e Lui stesso si dona, si consegna. Ha dato se stesso a noi. Dunque Gesù non subisce la sua morte, ma la assume positivamente come gesto d’amore. Quindi da Messia vincitore, Gesù si trasforma in Messia sconfitto. In questo modo trasforma un delitto in un dono. Abbiamo quindi nella Croce la trasformazione del sangue criminalmente versato in sangue di alleanza. Gesù ha trasformato una ingiusta pena nel dono della propria vita.
Gesù è vittima di una violenza totalmente ingiustificata ma insieme anche protagonista di una dedizione totalmente incondizionata. Questa è la trasformazione che si opera in Gesù e con Gesù. Questa è l’obbedienza che Lui fa al Padre. L’obbedienza non è subire passivamente, ma accettare liberamente la volontà del Padre.
Gesù aggiunge: “Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita”. Dall’essere consegnato si passa al venire. L’essere consegnato significa un atteggiamento passivo, venire è un atteggiamento attivo. Gesù è venuto e viene.
Abbiamo questo passaggio dall’evento al dono, dall’odio al perdono, dal dolore all’amore, dal negativo al positivo, dal passivo all’attivo.
Tutto questo noi lo vediamo nei gesti dell’Eucaristia di Gesù che è l’Ultima Cena.

Riporto in sinossi le quattro colonne dei quattro racconti che troviamo in Matteo, Marco, Luca e Paolo.

Matteo

28 Ora, mentre essi mangiavano, Gesù, preso del pane e detta la benedizione, (lo) spezzò e, dando(lo) ai discepoli, disse:
«Prendete,
mangiate; questo è il mio corpo».
27 E, preso un calice, e, avendo reso grazie, (lo) diede loro dicendo: «Bevetene tutti;
28 perché questo è il mio sangue dell’alleanza (Es 24, 8; Zc 9, 11), che è versato per molti in remissione dei peccati».

 

Marco

22 E mentre essi mangiavano, preso del pane, detta la benedizione, (lo) spezzò e (lo) diede loro e disse:
«Prendete; questo è il mio corpo».
23 E, preso un calice, avendo reso grazie, (lo) diede loro,
e ne bevvero tutti.
24 E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza (Es 24, 8; Zc 9, 11), che è versato per molti».

 

Luca

19 E preso del pane, avendo reso grazie, (lo) spezzò e (lo) diede loro, dicendo:
«Questo è il mio corpo,
che è dato per voi; fate questo in mia memoria».
20 E (Prese) il calice nello stesso modo;
dopo aver cenato,
dicendo:
«Questo
calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue (Ger 31, 31; Es 24, 8), che è versato per voi».
 

Paolo

[1 Cor 11. 23b ...Il Signore Gesù nella notte in cui fu tradito, prese il pane 24 e avendo reso grazie, (lo) spezzò e disse:
«Questo è il mio corpo (dato) per voi; fate questo in memoria di me».
25 Nello stesso modo (prese) anche il calice, dopo aver cenato, dicendo:
«Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue
(Ger 31, 31; Es 24, 8); fate questo, ogni volta che bevete, in memoria di me».]

In fondo i gesti che Gesù fece quella sera venivano fatti anche in altre famiglie, in altri gruppi comunitari religiosi. Il pane azzimo che veniva spezzato dal capo famiglia, non era tanto uno spezzare per distribuire un boccone ciascuno, era un condividere; ma mentre generalmente quel gesto ricordava il grande evento dell’Esodo, per Gesù diventava un gesto prognostico, profetico, perché proiettato in quello che Egli avrebbe fatto qualche ora più tardi.

Proviamo a ripercorrere i verbi.
Matteo e Marco riflettono la Comunità ebraica palestinese di Gerusalemme, Luca e Paolo quella di Antiochia ellenistica, dove il benedire viene reso con “l’eucharestia”, il “rendere grazie”. Noi abbiamo combinati insieme, nel rito della Messa, tutte due questi verbi: benedire e rendere grazie.
Il primo verbo: “prese”. Questo “prese” va tradotto con quell’adattamento che abbiamo fatto nel rito del matrimonio, dove non si dice più: “Io prendo te, come mia sposa”, ma: “Io accolgo te”. Quindi non è tanto un prendere come possesso, ma è un accogliere come dono e un consegnarsi come dono.
Prese il pane. Ma il pane è il Suo Corpo. Gesù si lascia prendere dal Padre per farsi donare. Si lascia prendere, si lascia afferrare. Aveva ragione quel tale che diceva: “Celebrare la Messa significa lasciarsi prendere”.
Il secondo verbo: “benedisse” o “rese grazie”.
È interessante vedere il “rendere grazie” nei salmi di ringraziamento: viene sempre dopo il dono ricevuto, dopo il beneficio sperimentato, dopo la salvezza ottenuta, allora si ringrazia.
Invece Gesù ringrazia in anticipo. Ricordiamo due luoghi nel vangelo di Giovanni.
Quando Gesù si trova di fronte alla moltitudine affamata di oltre cinquemila persone nel deserto e c’è quel ragazzino che fa quel gesto di generosità di andare a portare i suoi pani d’orzo e i suoi pesciolini a Gesù, forse dopo aver intuito che c’era un momento di disagio. Questo ragazzino offre a Gesù il suo zainetto. Gesù alza gli occhi al cielo, prende questi pani e “rende grazie” Non dice: “Padre mio, che ci faccio con due panini con tutta questa gente che ho davanti, mandami tanti pani!”.
Gesù non chiede, Gesù ringrazia. È un momento drammatico e Gesù si gioca la Sua Messianità con questo suo gesto, mal interpretato dalla gente.
Così dinanzi a Lazzaro che è morto da quattro giorni, Gesù si fa accompagnare davanti al sepolcro e non chiede: “Padre ti prego, fammi questa grazia, fammi risuscitare Lazzaro, davanti a tutta questa gente così tutti si convertono”.
Gesù prega con queste parole: “Ti ringrazio Padre, ti ringrazio, perché Tu sempre mi ascolti” (cf Gv 11, 41).
Gesù ringrazia in anticipo, passando dal sentimento dell’amarezza a quello della gratitudine.
Terzo verbo: spezzò il pane e distribuì il calice. Dunque Corpo e sangue, noi diremo corpo e anima; Gesù si dona tutto, non si trattiene niente. Ha ricevuto tutto dal Padre e tutto si dona. Si espropria.
Francesco d’Assisi, nella Sua Regola, dice che il frate sceglie di vivere in Castità in Obbedienza, e “senza nulla di proprio”, non solo “in povertà”.
Chi celebra il memoriale di Colui che tutto si è dato, non può tenere nulla per sé.

 

3. Il nostro “don” davanti all’altare

Quella che don Narciso sta per celebrare è l’Eucaristia, ma l’Eucaristia non è la ripetizione e neanche la rappresentazione del Calvario. Ricordiamo certe spiegazioni della Messa, forse una cinquantina di anni fa, quando si spiegava ogni gesto della Messa con una trasposizione simbolica di un momento della Passione di Gesù, per cui ad es. il prete che si lava le mani ricorda il gesto di Pilato. Nulla di tutto questo!
Noi, oggi giustamente siamo ben lontani da questa mentalità, però mi pare che qualche residuo ancora ci sia. A volte intendiamo la Messa come una sorta di mimo.
La Messa non è il mimo del Cenacolo o del Calvario. Ad es. qualche prete prende l’Ostia e quando dice: “Prese il pane... lo spezzò” spezza l’Ostia. Non è quel momento dello spezzare!.
S. Tommaso d’Aquino e il Concilio di Trento parlano della Messa in termini di “ripresentatio” che non vuol dire “rappresentazione”. È una ripresentazione reale della Croce di Gesù, e tutto questo Giovanni Paolo II lo ha ribadito in modo molto chiaro nella sua ultima Enciclica “Ecclesia de eucharistia”, dove il Papa per quattro volte parla di “stupore eucaristico”. Egli afferma che l’atteggiamento che deve caratterizzare la Celebrazione Eucaristica è lo stupore adorante. Perché questo stupore? Perché qui, nella Messa noi abbiamo il “convito sacrificale”, due aspetti che non possono essere disgiunti. È vero che la messa è un “convivium”, ma non un pici-nic per celebrare la nostra amicizia; è un convito sacrificale. Il Papa insiste molto su questo: nella Messa Cristo si offre al Padre, in un atto eterno.
Quando si celebra l’Eucaristia presso la tomba di Gesù, a Gerusalemme, si torna in modo quasi tangibile alla sua “ora”, l’ora della croce e della glorificazione. A quel luogo e a quell’ora si riporta spiritualmente ogni presbitero che celebra la Santa messa, insieme con la comuntà cristiana che vi partecipa” (EE, n. 4).
Il suo fondamento e la sua scaturigine è l’intero Triduum paschale, ma questo è come raccolto, anticipato e «concentrato» per sempre nel dono eucaristico. In questo dono Gesù Cristo consegnava alla Chiesa l’attualizzazione perenne del Mistero Pasquale. Con esso istituiva una misteriosa «contemporaneità» tra quel Triduum e lo scorrere di tutti i secoli. Questo pensiero ci porta a dei sentimenti di grande e grato stupore” (EE, n. 5).

Per concludere: quali sono gli atteggiamenti che don Narciso deve avere quando celebra, quando dalla Sagrestia si accosta all’Altare?
Certo, non atteggiamenti narcisisti, ma quei sentimenti eucaristici di cui ”Maria è l’icona parlante”.
A Cana Maria dice al Figlio, quello che Lei con un solo colpo d’occhio, tipicamente femminile, materno e casalingo, ha colto: non hanno più vino. Gesù sembra porre un rifiuto. Maria non si arrende e chiama i servi, e cosa dice ai servi?
Maria non dice “fate quello che vi dirà”, ma: “qualunque cosa vi dirà, fatela!” Molto più forte. È come se dicesse: “Preparatevi, qualunque cosa vi dirà, anche se vi sembrerà strana”. E infatti Gesù chiede loro una cosa strana: vogliono il vino, portate l’acqua!
Qui abbiamo i due verbi che sono importanti “dire e fare”. Sono i verbi dell’alleanza.
Dietro Cana, c’è addirittura il Sinai. Quando Mosé scende con le Tavole della Legge e propone a Israele l’alleanza, il popolo risponderà: “Tutto quello che Dio ci ha detto, noi lo faremo”. Dire e fare sono i verbi dell’Alleanza.
Sono i verbi che Maria stessa ha usato per dire la sua obbedienza: “Eccomi si faccia in me quello che tu hai detto da parte di Dio” (cf Lc 1, 38). Dire e fare, è quello che accade al Getzemani e sulla Croce. “Non quello che voglio io, ma quello che vuoi Tu, Padre. Questo si faccia”. Nella Messa, prima c’è il dire di Dio, poi c’è il Suo fare. C’è la Parola e c’è l’Eucaristia.
E l’Amen, dopo il “per Cristo, con Cristo e in Cristo”, è il grande “amen” di cui parlava Girolamo: quando le Comunità cristiane a Roma cantavano quell’amen, sembrava uno scoppio di fuoco.
E come se dicessimo: io ci metto la mia firma, io prete innanzitutto, perché non posso rendere bugiardo il mio Battesimo; se io non celebro con le dovute disposizioni il Sacramento è valido, ma per me, personalmente, lo rendo bugiardo, mangio e bevo la mia condanna. Se invece sottoscrivo questo, quando dico: ”Mangiate e bevete questo è il mio Corpo e il mio Sangue” ci metto il mio tempo e mi dono tutto come Lui per farmi mangiare da voi.

Lo “stupore eucaristico” riassume gli atteggiamenti che dovremo avere nella celebrazione dei santi misteri.
Anzitutto trattare con delicatezza il Corpo ed il Sangue di Cristo. La Messa non è la mia. La disciplina liturgica ci ricorda che la Messa è la Messa della Chiesa, l’Eucaristia è della Chiesa. Per questo, ad es., non posso mettere il gesto della pace dopo la Liturgia della Parola.
Non può esistere “la Messa cantata” perché il canto è previsto in ogni celebrazione eucaristica. Non può esistere una Pasqua sotto tono.
Poi la gratuità. Gratuità nel senso che io posso entrare nella Messa, anche con un risentimento, ma la Messa mi deve cambiare. Sono chiamato a passare dal risentimento alla gratitudine, dalla amarezza alla riconoscenza.
Il card. Ratzinger diceva che si può celebrare la Messa “etsi Deus non daretur”, anche se Dio non esistesse!
Termino con una battuta di Madre Teresa di Calcutta:
Se la Messa non ci trasforma, non abbiamo celebrato il mistero pasquale di Gesù!

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ultimo aggiornamento 31 luglio, 2005