P A S T O R A L E G I O V A N I L E
p a s t o r a l e  g i o v a n i l e
  Sr. Erika di Gesù, eam

Un po’ di
        cioccolato…

 

Non è facile fare un bel film, che aiuti giovani e bambini a formarsi una coscienza critica di fronte alla vita. Che interpelli le coscienze degli adulti e li faccia pensare.
Anche se amo il cinema, la mia cultura in questo campo è limitata. Credo, però, di amare la vita e di nutrire ogni giorno il desiderio di non sottrarmi alle sue esigenze. Mi piace pensare, voglio educare la mia coscienza. Aiutare i giovani a formarsi un cuore, una mente e uno spirito adulti. Senza perdere la meraviglia dei bambini.
Per questo, con alcune giovani amiche, sono andata, a vedere «La fabbrica del cioccolato»1, un film di Tim Burton che ripresenta la favola dello scrittore per bambini Roald Dahl (1916/1990), che già nel 1971 aveva interessato gli amanti del genere fantasy con il film di Mel Stuart, «Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato». La favola narra l’avventura di Charlie Bucket, un bambino povero che vince uno dei cinque biglietti d’oro che il signor Willy Wonka ha nascosto in altrettante tavolette di cioccolato fabbricate nella sua fabbrica misteriosa.
Soltanto Charlie, accompagnato dal nonno, un tempo operaio della fabbrica, al termine del viaggio con gli altri compagni, avrà la possibilità di ereditare la fabbrica di Willy Wonka.
Lui, il bambino che al "re del cioccolato" aveva dato meno fastidio di tutti, che aveva saputo stare al suo posto, umilmente.
Lui, che dapprima rifiuterà l’offerta, perché interessata ed obbligata: scegliere fra la fabbrica e la sua famiglia.
Charlie, infatti, non vuole rinunciare alla sua povera famiglia felice per nessuna fabbrica del mondo. Ma questo il re del cioccolato ancora non lo sa.

 

Il bambino povero e il re del cioccolato

Il film mi è sembrato una pennellata divertente e non banale sui modelli di oggi, che i compagni di Charlie rappresentano: la bulimia del ragazzino che mangia di continuo cioccolata; la bambina viziata che controlla il padre e la sua fabbrica di noci pur di avere praticamente tutto; Violetta, fotocopia della madre e la sua mania di vincere masticando chewing-gum; il piccolo scienziato tele-dipendente.
Di fronte a questi modelli, contro-altare dei beni di consumo, compare Charlie, il bambino povero più ricco di tutti, che accompagna il re del cioccolato, Willy Wonka, nel suo flashback verso infanzia e adolescenza; che lo conduce verso la casa paterna, che favorisce la sua riconciliazione.
Willy, invece, compare sulla scena dando spettacolo di sé; personaggio timido ed eccentrico, smemorato e geniale, solo e circondato da un popolo di "nani" identici che popolano la sua fabbrica vuota.
Compare sulla scena lasciando vuoto il suo posto di re (una poltrona attorniata da marionette festanti), fatto inconsueto del resto, subito notato da Violetta.
All’inizio della storia il re è solo, dunque, senza più un padre da cui tornare.
Con la prospettiva di una casa scomparsa, la sua. In fondo, il padre lo aveva avvertito: se parti, non mi troverai più. Al termine del film, invece, il suo posto è in mezzo alle due nonne di Charlie, in seno a una famiglia: una famiglia povera e calorosa. Una famiglia al completo. Ognuno dei membri aveva qualcosa di speciale: sapeva accogliere anche il limite dell’altro. Sapeva, come la giovane mamma di Charlie, aggiungere cavolo al cavolo per allungare il brodo della minestra, e chiudere gli occhi sui difetti, non proprio piccoli, dei nonni (sordità, demenza, lamentele pedanti) pur di restare uniti.
Una famiglia che abitava una casa "storta": simbolo di povertà, ma anche di storpiatura, rispetto a un mondo "troppo diverso" dal loro stile di vita: un mondo che premia gli arrivisti, i figli viziati e che non scommette una cioccolata che vinca il peggiore.
Il momento centrale del film mi sembra l’abbraccio fra Willy e suo padre: vengono inquadrate le mani guantate di entrambi. Vengono messi in risalto i guanti di lattice che il padre dentista aveva sempre indossato, per il suo lavoro, o forse per non soffrire.
La realtà, il mondo, l’altro, l’amore per lui ci fanno soffrire: meglio preservarsi da questo e toccare tutto attraverso una guaina protettiva, una seconda pelle.
L’abbraccio è limitato dunque, almeno in apparenza. Ma sullo sfondo appare Charlie, vero specchio della realtà, che osserva una fotografia di Willy bambino e ritagli di giornale: testimoni dei successi del figlio lontano che il padre aveva scrupolosamente conservato.

 

La fabbrica e la famiglia

La fabbrica del cioccolato: che significa dunque?
In principio la fabbrica è sulla cima e la casa storta a valle. Alla fine la casa storta è dentro la fabbrica.
Tutte le impalcature, i posticci, i grattacieli, le fabbriche che possiamo costruire e che fanno da maschera al nostro vero io, per quanto gratificanti, non possono reggere a lungo. Prima o poi dobbiamo fare i conti con la casa storta del nostro passato2, della nostra storia: passata eppure presente (per questo Willy non invecchia mai nel film). La famiglia, anche malata, è l’unica via di scampo per il genere umano: se l’uomo non vuole ritrovarsi da solo, circondato soltanto da tanti piccoli "cloni" della sua immagine, deve affrontare il miracolo della differenza.
Deve conoscere l’altro. L’altro che lo ha generato. L’altro che genera. L’altro che gli siede accanto e profuma di «vecchietta perbene» (come dice Willy a proposito della nonna di Charlie, sul finire del film).
I ragazzini che cadono nei loro vizi amplificano un limite che finirà per annientarli, semplicemente perché non lo riconoscono e presumono di loro stessi, dei loro talenti e capacità.
Chi mangia cioccolato, finisce per annegarvi; chi vince sempre, alla fine perderà e diventerà la profezia del suo nome (Violet): Viola… di rabbia ed elastica come il chewing-gum che ha in bocca. Chi vuole tutto, finisce per perdere tutto, nella fogna dei rifiuti; chi vive di immagini, diventa un’immagine anche lui, piatta ed allungata, ma priva di consistenza.
La cioccolata! Simbolo ormai conosciuto di un affetto che non si può certo comprare, ma che è tanto più sano, quanto più siamo disposti a perdere per conservarlo.
Gli affetti, però, sono sempre fluttuanti; per essere creativo, l’amore deve nutrirsi di volontà, di scelte sempre più consapevoli.
C’è solo un modo per amare sul serio, per perdere e ritrovare: trasformare lo spontaneismo degli affetti nella fedeltà dell’amore.
E questo lo si può fare quando al posto del re, facciamo sedere il Signore. Quando spegniamo i riflettori del nostro "io", e accendiamo le luci della Sua gloria.
«Il cuore -scrive Madre Speranza- è la fonte degli affetti spontanei, mentre la volontà degli affetti deliberati. Entrambi vanno purificati col fuoco della carità, ricordando che chi dice carità dice amore, ma chi dice amore, non dice per questo carità. Non possiamo amare il prossimo per noi stessi, sarebbe un amore egoistico; neanche per se stesso, ma dobbiamo amarlo tanto quanto ci conduce alla gloria di Gesù»3.

 

Natale in "Fabbrica"

C’è un posto che deve rimanere vuoto: quello di re. Magari re del cioccolato.
Viene il Signore, il nostro Re, perché presto sarà di nuovo Natale.
Chissà se qualcuno di noi avrà la forza di sedere accanto a qualche vecchietta che vaneggia o dentro qualche casa storta; se avrà la "fortuna" di incontrare qualche re o padrone che ha paura di disperdere la sua preziosa eredità.
Chissà se saprà rischiare il viaggio verso la casa di un padre (un parente, un amico) triste e lontano.
Chissà se indosserà i guanti quando lo abbraccia. O viaggerà in un ascensore di cristallo invisibile (come Willy) rischiando sempre di sbatterci il naso.
Viene il Signore ed entrerà nella casa storta delle nostre famiglie e della nostra storia.
Ci dirà ancora una volta i suoi segreti; ci meraviglierà con gli effetti speciali della sua nascita: le fasce e la mangiatoia.
Ci darà ancora una volta da mangiare pane e vino, corpo e sangue, nella "fabbrica" della sua Chiesa: l’Eucaristia.

Madre Speranza e il cioccolato

La storia d’amore fra Gesù e Madre Speranza inizia con una bella tazza di cioccolato.
Il giorno della sua prima comunione, quando la Madre è andata a Messa a "rubare" Gesù Eucarestia, in anticipo rispetto alla prassi del tempo, aveva fatto colazione con una buonissima tazza di cioccolato!
Subito dopo aveva chiarito le cose, assicurando alle persone che la rimproveravano che Gesù va nel cuore, non nello stomaco come il cioccolato!
Questo episodio della sua infanzia mi ha sempre affascinato.
Come il piccolo Charlie, la Madre ha rischiato e ha fatto la sua scelta.
Ha rischiato il disprezzo, il giudizio degli altri per scegliere, senza dubbio alcuno, senza farsi incantare dai modelli del momento, il valore più grande.
La Madre ha scelto Gesù.
Perché Gesù ha scelto Lei e le ha dato la possibilità di carpire i suoi segreti.
È Lui il Re. Il Re del cioccolato. O meglio: il Re del suo cuore.
Che fissa la sua dimora in lei, da quel momento in poi, e non la lascia mai sola.

Buona festa a tutti! Ecco,
il Re è alle porte!

 


1 Il titolo inglese del film è omonimo alla favola originale: «Charlie and the Chocolate Factory».

2 Leggendo la biografia di Roald Dahl, mi colpiva che nella sua infanzia, a causa di un incidente provocato dalla sorella, allo scrittore era stato asportato il naso: un chirurgo lo ha riattaccato, ma è rimasto storto per sempre.

3 M. Speranza di Gesù, Consigli pratici, Collevalenza (PG) 2004, 181.

 

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ultimo aggiornamento 09 gennaio, 2006