pastorale familiare

Marina Berardi

Famiglia dove abiti?

 

 

 

 

 

 

È una domanda rivolta a quelle famiglie che "faticano a vivere", a "trovare casa"; rivolta a coloro che sperimentano la propria casa come una "prigione", come luogo di lotta, di indifferenza, di solitudine, di sofferenza, di fughe… perché nel «coraggio di raccogliere ogni cosa di sé»1, di riconoscere che il momento di crisi appartiene loro, che è parte della loro storia…, ritrovino la gioia e la felicità autentiche.

Per queste famiglie, c’è ancora speranza di tornare ad abitare l’interiorità, il "cuore della casa", il luogo dove si incontrano sentimenti, valori, principi, progetti, ideali…; di "ri-conoscere" quella casa di un tempo, messa su con tanti sogni, come la "propria casa", nel desiderio di tornare ad "abitare il cuore". Ma, come aiutarle a "ri-edificasi" nella concretezza e, molto spesso, nella durezza della quotidianità?

Il primo invito è stato quello di "ripartire" da Cristo, Parola incarnata, perché anche le parole umane possano ritrovare terra, senso, umanità, e aprirsi a un dialogo che "edifichi" l’amore, il rispetto, la stima, il perdono…, riscoprendo di essere un reciproco "dono-per"… sempre.

La seconda proposta è stata quella di ripartire dalla coppia, da quell’IO e quel TU chiamati a crescere, a maturare, ad educarsi per divenire un NOI capace di impegno, di coraggio, di rischio, di esporsi, di soffrire, di trascendersi… Un NOI che sa far memoria e rimanere ancorato alla scelta fatta, soprattutto quando quello che prima era un Tabor viene sperimentato come il Calvario; è proprio qui, nel momento della crisi, che, al di là delle apparenze di fallimento e di morte, è più che mai necessario lasciarsi aiutare a fare verità per ridare al rapporto una nuova possibilità di vita.

(continuazione)

3. Ripartendo dal talamo

Forse alcune coppie e famiglie si chiedono se vi è ancora la possibilità di "ripartire", o se ha ancora senso provare, ricominciare. È certo che vi sono situazioni dove questo appare più difficile, quando la polvere gettata "sotto il tappeto" sovrasta la casa, quando le ferite sembrano aver prodotto ormai la cancrena, quando le relazioni generano un’energia di morte. Eppure, anche in queste situazioni è possibile scegliere di mettere in gioco i due spiccioli rimasti… e contare sulla forza della Grazia, dal momento che nulla è impossibile a Dio, un Dio che ha donato la sua vita per liberare dall’egoismo e rendere sacro l’amore umano!

Ripartire dal talamo è ripartire dal dono di sé, con ciò che si è, che si ha, fossero anche i due spiccioli! Sono diversi gli altari su cui, nella concretezza della quotidianità, la famiglia è invitata ad immolare se stessa, a sacrificare, a rendere sacro il proprio amore, le relazioni, i gesti… Sono infinite le occasioni in cui ogni membro può offrire se stesso in modo gratuito, incondizionato…

Il talamo, così come la casa, rievoca l’intimità della coppia, della famiglia, il luogo delle relazioni affettive, del dialogo, dell’incontro, del dono, dell’offerta; il talamo, così come la casa, può rimanere o diventare "disabitato", "mal-abitato", trasformandosi da luogo di vita e di fecondità in luogo di solitudine, di egoismo, di potere, di lotta.

Ma, ripartire dal talamo, vuol dire anche scegliere di fare di se stessi il luogo dell’offerta, del dono, del cambiamento, senza pretese, senza attendere un tornaconto, al di là di ogni apparente fallimento.

Ci può essere un fallimento più grande di quello vissuto da Cristo sul talamo della Croce? Lui, accogliendo e scegliendo questo altare per rinnovare la sua Alleanza con l’umanità, per dare vita alla Chiesa sua Sposa, rende possibile anche il nostro cammino, rende capace la coppia, i membri di una famiglia di amarsi e perdonarsi "da Dio", in forza del sacramento che li ha uniti e che continua a salvarli!

Questa riflessione è nata alla luce del tempo liturgico che stiamo vivendo, favorita dalla Parola che sta accompagnando il nostro cammino quaresimale, seguendo Gesù lungo la via della croce, ascoltando e condividendo il cammino di tante famiglie.

Percorrendo il viale della Via Crucis che si snoda lungo la collina su cui sorge il Santuario, mi ha colpito quella prima stazione, meditata tante volte, ma ora colta in modo nuovo. Madre Speranza ha voluto che la prima scultura raffigurasse l’istituzione dell’Eucarestia. È questo il primo talamo su cui si è donato Cristo e a cui è chiamata a sedersi ogni coppia, ogni famiglia: l’Eucarestia è la più significativa icona dell’offerta di sé, la più autorevole scuola dove imparare ad amare.

Il clima è quello della festa, di un convito, che Gesù stesso ha voluto fosse preparato con cura ed attenzione, così come accade il giorno del matrimonio, quando gli sposi si rivestono dell’abito più bello, si scambiano gli anelli, preparano il banchetto, fanno festa per celebrare il dono scambievole.

È nel cenacolo che Gesù sceglie di abbracciare il talamo della croce e a quel "sì" rimarrà fedele fino all’estremo, fino al totale ed incondizionato dono di sé. Tutto ciò che vivrà sarà una conseguenza di quella scelta libera, totale, mossa dall’amore, da quella volontà di donare il suo corpo e di versare il suo sangue per riempire di senso e di vita la storia umana.

Sullo stesso altare e in forza di questo incommensuarabile dono, la coppia cristiana pronuncia il "sì" che la legherà in ogni circostanza della vita: Noi promettiamo di amarci fedelmente, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di sostenerci l’un l’altro tutti i giorni della nostra vita. In questo "sì", come fu per Cristo, vi è l’accoglienza incondizionata di tutto ciò che accadrà, senza ipoteca, senza condizioni, vi è anche l’accoglienza della croce, come strada privilegiata per giungere alla pienezza dell’amore:

«L’amore si alimenta di sacrificio e per chi ama è dolce soffrire, il fuoco non è tale se non arde, se non consuma, così l’amore: se non si sacrifica non è amore. Chi ama non si stanca, non viene meno e, scoprendo ogni giorno nell’amato nuove bellezze, desidera ad ogni istante sacrificarsi per lui» (M. Speranza)

La famiglia, per il suo essere realtà viva ed aperta, ha nelle proprie mani il suo futuro. A lei è consegnata la libertà di decretare la propria crescita e sviluppo o il proprio arresto o involuzione, a lei la possibilità di riconoscere nei vari eventi il "talamo" che può generarla e aprirla alla vita.

A questo proposito, ricordo di aver letto una significativo aneddoto. Un uomo chiese ad un saggio se l’uccello che teneva nel pugno fosse vivo o morto. Il saggio rifletté e pensò tra sé che se avesse detto che era morto questi avrebbe aperto la mano lasciando volare l’uccello o, viceversa, se avesse detto che era vivo avrebbe stretto il pugno mostrandoglielo privo di vita. Il saggio, quindi, rispose: l’uccello che hai tra le mani è come tu lo vuoi, se lo vuoi vivo è vivo, se lo vuoi morto è morto. Così è dell’amore! Così è della famiglia! Così è della casa che desideri abitare!

Per mantenere vivo l’amore, il "sì" quotidiano, è richiesto il coraggio di aprirsi al cambiamento, di mettersi in discussione, di affrontare il rischio del domani. I vari membri non possono pretendere il cambiamento dall’altro, possono solo offrire il proprio. È a partire da qui che si fa la sorprendente esperienza che il proprio cambiamento è stimolo al cambiamento dell’altro, che produce poi un ulteriore cambiamento nella coppia e nella famiglia. Il progresso di uno, quindi, va a beneficio di tutti o, al contrario, può diventare minaccia e pietra di inciampo per chi è accanto.

Ma donarsi non basta. È importante, infatti, domandarsi da che cosa nasca il dono, in quale misura ci si dona, in che modo. Ripensare alle motivazioni dell’essere insieme, del proprio agire, del proprio donarsi, chiarire ed esplicitare i valori alla base delle proprie scelte vuol dire fondare il rapporto su criteri che renderanno duraturo il cambiamento.

La famiglia è chiamata a riscoprirsi come vocazione e luogo di crescita. Nel documento della Vita Fraterna in Comunità, che per vari versi può essere applicato alla famiglia, è detto che la vita religiosa non è la terra promessa, come non lo è la famiglia, non è un’oasi di pace, ma è il luogo del cammino nel deserto, la palestra dove le persone imparano a morire ai propri egoismi per rinascere alla vita nuova fondata su Cristo, a favorire il bene dell’altro alla ricerca del bene comune. Madre Speranza aggiungerebbe: una "bottega" dove si fabbricano santi, una scuola di santità!

Quel talamo della mensa e della croce su cui Cristo dona, consacra ed immola il proprio corpo, sposando l’umanità, apre alla coppia la possibilità di vivere il talamo nuziale, la stanza, il letto coniugale, come luogo dell’unità, del coniugio. In Cristo nasce, dunque, una cosa nuova: dall’accezione negativa di dipendenza, di dominio, di sottomissione, il "giogo" diventa una realtà dolce, leggera, desiderabile, che porta alla mitezza ed umiltà del cuore, che offre ristoro (cf. Mt 11, 28-30).

Gli sposi sono invitati da Cristo stesso a "consumare il loro matrimonio", a renderlo perfetto, a portarlo a compimento, anche attraverso l’esercizio della loro sessualità, come espressione di intimità, di fecondità, del dono totale della propria umanità. La sessualità diventa, così, segno per esprimere ciò che si è, che si prova, ciò in cui si crede, ciò che si desidera. Diversamente, quando questa venisse disgiunta da un riferimento valoriale, sarebbe "consumata", sprecata, ridotta alla fine da una vile banalizzazione, una meschina strumentalizzazione, divenendo campo di battaglia, luogo di sopruso, di dominio anche all’interno della realtà coniugale.

A questo talamo, dissacrato dal massiccio sfruttamento consumistico ed edonistico della figura femminile e della sessualità in genere, disgiunto da una relazione stabile, duratura e fedele, va riconsegnata la sua sacralità, anche attraverso coppie cristiane che testimonino la bellezza di vivere questa dimensione naturale nel dialogo, nell’attenzione, nel rispetto reciproco e nel rispetto della natura. Allora il dono di sé sarà proposta discreta, umile offerta, paziente attesa, nel desiderio di rendere felice l’altro.

Vorrei concludere con un passo tratto da La bottega dell’orefice scritto da Karol Wojtyla, augurando a ciascuna coppia, soprattutto a quelle che attraversassero un particolare momento di crisi e difficoltà, di riscoprire il peso specifico ed il fine dell’amore:

«L’orefice guardò la vera, la soppesò a lungo sul palmo e mi fissò negli occhi.

E poi decifrò la data scritta dentro la fede.

Mi guardò nuovamente negli occhi e la pose sulla bilancia... poi disse: "Questa fede non ha peso, la lancetta sta sempre sullo zero e non posso ricavarne nemmeno un milligrammo d’oro. Suo marito deve essere vivo - in tal caso nessuna delle due fedi ha peso da sola - pesano solo tutte e due insieme.

La mia bilancia d’orefice ha questa particolarità che non pesa il metallo in sé, ma tutto l’essere umano e il suo destino".

L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero.

Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore.

Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio - solo Lui è l’Eternità»2.


1 Grün A., Felicità beata. Verso una vita riuscita, p. 57.

2 Wojtyla K., La Bottega dell’Orefice, Libreria Ed. Vaticana, 1993.

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ultimo aggiornamento 15 aprile, 2009