2009 - 19 giugno - 2010 - ANNO SACERDOTALE

P. Sante Pessot fam

 
 

Formazione e fraternità sacerdotale

 

Con queste poche righe vorrei offrire alcune modeste considerazioni relative al rapporto esistente tra la pastorale vocazionale, la formazione dei presbiteri e la fraternità sacerdotale.

 

Crisi di quantità o di qualità?

Fino a qualche tempo fa il problema fondamentale, le ansie e i pensieri dei vescovi, dei superiori maggiori, degli operatori di pastorale era il numero delle vocazioni sacerdotali e religiose. Questa preoccupazione è tutt’ora presente ma l’attenzione ora tende a spostarsi dalla quantità alla qualità delle vocazioni, sia perché emerge sempre più evidente che le vocazioni non si misurano con i numeri, sia perché non pochi fenomeni sociali portano a far pendere il piatto della bilancia sulla santità, come avvenne in epoche passate. "Non siamo pochi, siamo poco santi" scriveva San Giovanni Crisostomo ai sacerdoti del quinto secolo!

Cento sacerdoti, o persone consacrate, scarsamente entusiasti della loro scelta di vita non possono suscitare nuove vocazioni, come può avvenire  invece per uno solo di loro convinto della bontà della propria scelta. È successo attorno a San Francesco, al santo Curato d’Ars, a Madre Teresa di Calcutta, che confidava di non sapere neppure che esistesse una pastorale delle vocazioni!

Il discorso sulla qualità,  da parte di chi con fatica persegue modalità nuove di pastorale vocazionale, è innanzitutto quello di accertarsi delle  motivazioni dei "chiamati", rimuovendo eventuali impedimenti. Tra questi l’attivismo che sovente attenta la libertà di Dio. La vocazione sacerdotale e religiosa, per loro natura, richiedono l’incontro con Cristo. Il volontariato, l’operare per la pace e per i diritti umani, possono favorirlo. Ma se questi impegni non corrispondono alla volontà di seguire Cristo radicalmente, se vengono prima i propri interessi, allora  a chiamare, a prendere l’iniziativa, non è più Lui.

A questa situazione di difficoltà se ne aggiunge un’altra: ci sono molti disorientamenti e insicurezze anche nell’ambito della formazione e della pastorale vocazionale.

Spesso ci si trova davanti a svariate immagini di prete, diverse teologie del sacerdozio sono in concorrenza tra loro ed è veramente difficile dire chi è veramente il prete: pastore di anime, funzionario, uomo di Dio, autorità, mistagogo, manager, rappresentante di Cristo o rappresentante della Chiesa, operaio…

Inoltre non sappiamo quale sarà la configurazione della chiesa futura. Nessuno è in grado di dire come i seminaristi di oggi vivranno i primi anni del loro sacerdozio. Come vivranno i preti: soli e isolati oppure ci saranno nuove forme di comunità e convivenza?

Elementi fondanti il futuro presbitero

Vorrei in questo paragrafo fare una brevissima riflessione su alcuni degli elementi che si possono ritenere fondanti per chi desidera intraprendere un cammino verso il Sacerdozio.

– Cercare Dio

San Benedetto nella sua regola suggerisce di guardare, nell’ammissione al noviziato, se il novizio "cerca veramente Dio". Questo vale anche per la formazione dei sacerdoti. Chi vuole diventare sacerdote deve essere un cercatore di Dio. Normalmente quando un giovane entra in una comunità religiosa o in un seminario è mosso dalle più svariate motivazioni: servire gli altri, impegnarsi con i giovani, il gusto per la liturgia, l’esempio di un sacerdote, l’esperienza di preghiera alla giornata mondiale della gioventù… queste motivazioni, normali e naturali, chiedono, nel cammino formativo, di essere progressivamente purificate.

C’è un’esperienza autentica, un desiderio, o per lo meno una profonda intuizione di Dio?

Senza questa inquietudine spirituale interiore, questa tensione verso Dio, non si può sviluppare una tensione spirituale. In seminario o nella comunità religiosa la ricerca di Dio e il desiderio spirituale, possono essere sviluppati, ma devono essere già presenti prima. Questo nucleo già presente nella personalità del candidato può essere coltivato e liberato, ma non può essere costruito.

– Identità stabile

Uno dei presupposti più importanti per il ministero è lo sviluppo di un’identità stabile. Su questa infatti si basano la maturità affettiva, la capacità di relazione e di donazione, la capacità di guidare una comunità e fare giudizi sani. Elaborare la propria identità è un processo complesso che incomincia molto prima della formazione sacerdotale o religiosa. Il termine identità indica una dimestichezza di base con se stessi: poter gestire i mondi dei propri pensieri, comportamenti e sentimenti, sapere da dove si viene e poter dire dove si desidera andare. Dobbiamo tener conto che l’attuale cultura rende più difficile la formazione di un’identità stabile. Oggi si parla di società liquida. L’insicurezza esistenziale chiaramente percepibile e la paura di decidere tipica di molti, che portano a spostare sempre più avanti le decisioni definitive, è solo una delle conseguenze.

– Capacità di amare e di fare dono di sé

Alcuni segnali della presenza di questo criterio: impegnarsi di buon grado per gli altri, prestarsi spontaneamente per dei servizi, avere interesse per il mondo altrui, vivere una cultura del dono. Diversa è la persona narcisistica, che tende non a vivere ma ad "andare in onda", come in un film, si preoccupa eccessivamente della propria persona e strumentalizza gli altri a proprio vantaggio. Persone di questo genere difficilmente riusciranno a guardare disinteressatamente chi sta al loro fianco e, come sacerdoti, tenderanno a usare la comunità per se stessi e la loro conferma personale. Per il ministero sacerdotale c’è bisogno della capacità di donarsi, capacità di amare a stimare l’altro.

– Spiritualità di comunione

Già oggi il sacerdote non è più il responsabile di una comunità ristretta, lavora in strutture complesse, con più parrocchie, con numerosi collaboratori e volontari. Ciò presuppone la capacità di lavorare insieme e la disponibilità alla cooperazione. Si tratta di una spiritualità di comunione prima che di una esigenza pratico-professionale. Senz’altro ci saranno in futuro sacerdoti combattenti solitari, ma questi non possono essere il caso normale dell’esistenza cristiana e sacerdotale.

– Disponibilità ad imparare

I presupposti citati sono competenze che solo in casi rari un candidato possiede al momento del suo ingresso in seminario. Sono da acquisire e a volte con grande fatica. È indispensabile quindi una disponibilità ad imparare. Si intende una stima realistica della proprie capacità e possibilità, ma anche la disponibilità a lasciarsi coinvolgere in un processo di sviluppo e la volontà di imparare per tutta la vita. Ammettendo una persona in un seminario bisognerebbe farsi la domanda: questo giovane vuole imparare? Atteggiamenti di passività, di rigidità e una struttura della personalità marcatamente difensiva sono segni negativi.

 

La fraternità presbiterale: luogo di discernimento e di formazione

Tra le iniziative di pastorale giovanile-vocazionale proposte al mondo giovanile in contesti come quello italiano, si nota che, sempre più spesso, si invitano i giovani a fare esperienze di vita comune. Tra le proposte di pastorale giovanile si moltiplicano le settimane di vita comune. Pur vivendo gli impegni quotidiani di studio o di lavoro, i giovani vengono invitati a fare "vita comune" in una fraternità religiosa o sacerdotale. Anche per chi vuole fare un cammino di discernimento, spesso viene proposta una esperienza in seminario, che diventa, non più solo luogo di studio e di formazione, ma sempre più spesso comunità presbiterale, dove la fraternità diventa strumento e mezzo per il discernimento.

Molto spesso i seminari hanno perso la loro impostazione tradizionale per diventare luoghi di vita fraterna. In alcune diocesi è lo stesso vescovo, ultimo responsabile della formazione, che vive all’interno della fraternità stessa. Spesso i giovani sacerdoti, alla loro prima esperienza, vengono inseriti in comunità presbiterali, dove si respira una certa fraternità.

Probabilmente si sta percependo come una comunità presbiterale, dove si vive un’autentica fraternità riesce ad aiutare i giovani in discernimento e in formazione a cercare Dio. Spesso l’esempio di presbiteri anziani, che hanno speso la loro vita per il Signore, diventano punto di riferimento per il giovane, che percepisce che la maturità spirituale e pastorale è frutto di un cammino di ricerca, che dura anni e che non si può improvvisare. Convivere con altri fratelli aiuta a discernere la maturità di una persona, a verificare la sua capacità di allargare il suo punto di vista. La comunità e la fraternità può diventare veramente schola amoris, luogo in cui i giovani apprendono la difficile arte di amare. Luogo in cui si insegna a un giovane a vivere in modo maturo la propria aggressività, aiutandolo a integrare diversi elementi, a mettere insieme in modo armonico differenti componenti della sua personalità, che tendono a contraddirsi.

La fraternità sacerdotale diventa luogo in cui scopriamo la nostra unicità, scopriamo le nostre qualità, che possono costituire un dono per gli altri. Noi diamo per scontato il bene che riceviamo dagli altri e continuiamo a lamentarci di ciò che invece costituisce per noi un peso. La comunità aiuta a riscoprire con gioia il dono che l’altro è per me. Amare qualcuno è riconoscere il suo dono, aiutarlo ad esercitarlo e approfondirlo. L’altro aspetto fondamentale che un giovane può scoprire all’interno di una fraternità sacerdotale è la presa di coscienza del nostro bisogno di essere perdonati, e quindi amati da Dio e dai fratelli.

Vivere a contatto quotidiano con dei fratelli comporta necessariamente sviluppare una personalità flessibile, creativa, aperta la nuovo, disponibile a mettersi in discussione e ad imparare, a dialogare e riflettere su quanto si è ascoltato.

Credo che queste brevi considerazioni, frutto di una breve esperienza come formatore e nella mia famiglia religiosa, mi incoraggiano e confermano su quella intuizione che ebbe Madre Speranza circa la necessità di forme di comunione sacerdotale sempre più esplicite. Spesso i preti sono stati formati per essere dei combattenti solitari, per vivere da soli spiritualmente e praticamente, con uno stile di vita simile ai single. Di conseguenza per fuggire alla solitudine, si finisce in una relazione simbiotica e quindi, problematica, con la comunità parrocchiale o peggio si finisce in relazioni "anomale".

Nei decenni passati molta della nostra formazione ha seguito la spinta all’individualismo tipica della nostra società e oggi constatiamo che alcuni sacerdoti giovani reclamano forme di vita comunitaria, ma non sanno viverle: le desiderano ma le temono al tempo stesso. Promuovere forme di vita comunitaria tra sacerdoti è quindi un compito di massima urgenza, anche per il risvolto positivo che può avere nella pastorale vocazionale, nel discernimento e nella formazione dei futuri presbiteri.

Forse la forma di vita celibataria attrae così pochi giovani anche perché spesso lascia presagire una vita solitaria anziché forme di vita comunitaria secondo il Vangelo vissuto insieme.

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ultimo aggiornamento 18 giugno, 2010