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Piero Coda

Non è bendato l’occhio divino che ha cura di me

 

È senz’altro suggestivo e dà molto a pensare l’accostamento tra ‘fortuna’ e ‘grazia’, týche e cháris: due parole gravide di risonanze, di umana – felice o tragica – esperienza, e di collettiva – piagata o trasfigurata – vicenda della storia.

Sì, certo, si potrebbe a tutta prima e con dovizia di svolgimenti, sondare e illustrare il nesso tra le due. La fortuna, týche , essendo ciò che inaspettatamente e senza merito personalmente mi tocca, tra mille altri; ed essendo la grazia, cháris, ciò che proprio così mi è concesso: un dono, un di più, in virtù del quale l’esistenza è salvata e si apre a nuove e gratificanti espressioni.

Per i pagani era la dea cieca che dispensa doni fausti oppure il fato artefice di un destino spesso crudele. Il cristianesimo ha aperto un nuovo e decisivo spiraglio dove la relazione tra l’uomo e la divinità non è più consegnato alla volubilità degli dèi, ma a un patto intimamente legato alla «rivelazione».

La grazia, dunque, può esser vista come la ragione (immotivata) e il frutto (inatteso) della fortuna. Ma appesa a che cosa e da che cosa originata e, nella sua assoluta imprevedibilità, da che cosa regolata? Non a caso, la mitologia, nella sua versione popolare, raffigura týche sotto la sembianze di quella dea bendata che, senza vedere: e cioè senza voluta intenzione e senza attento discernimento, distribuisce a destra e a manca, secondo un criterio che resta nascosto e tale ha da restare, i tocchi della sua grazia. Con ciò rimarcando la gratuità indecifrabile del destino a ciascuno assegnato. La týche , in verità, risvegliando l’uomo ad afferrare, pronto e deciso, la buona sorte o a conformarsi, rassegnato e impassibile, alla cattiva, vincola la sua libertà all’esecuzione di un percorso che resta avvolto nell’abisso di ciò che è già da sempre e per sempre deciso, e cioè separato e distaccato dall’origine, ma solo per ritornarvi dopo breve e predeterminato tragitto. Volentem ducunt fata, nolentem trahunt: i fati guidano chi si sottomette e invece trascinano chi non lo fa – sentenzia lapidaria la sapienza classica.

Uno spiraglio, nel mistero compatto e indecifrabile della grazia che decide della fortuna, si apre nell’esperienza condotta prima da Israele e poi da Gesù. Tanto da dischiudere, poco a poco e poi tutto d’un tratto, un orizzonte imprevedibile, entro il quale viene riscritta da cima a fondo la dialettica di fortuna e grazia, di destino e libertà. In forma né pacificata né pacificante, è chiaro: ma senz’altro intensa, rischiarante e provocante. È la traccia di questo spiraglio che intendo sondare.

Un’affermazione – anch’essa concernente l’esperienza del vedere, com’è nell’immagine della dea bendata – condensa in una figura l’esperienza biblica. È Dio, il Signore, che parla e dice all’uomo: «Ti custodirò come la pupilla dei miei occhi» (Dt 32,10). L’occhio del Divino, in questa figura, non è più bendato nel distribuire il bene e il male, la buona e la cattiva sorte; ma guarda all’uomo per custodirlo come ciò che ha di più intimo e prezioso: come quando, per proteggere la pupilla dalla ferita della luce abbagliante del sole o da quella imprevista di un corpo contundente, si calano le palpebre sugli occhi.

«Týche» e «Chàris»: sono due parole gravide di risonanze, di umana esperienza (felice o tragica), capaci di illuminare una storia collettiva disseminata di trasfigurazioni ma anche di piaghe. «Týche» è ciò che inaspettatamente e senza merito personale mi tocca, tra mille altri; «Chàris» è ciò che mi viene donato, concesso, figura di una salvezza che si apre a nuove e gratificanti possibilità di sperimentare il bene

Ma cosa c’è dietro e cosa si offre dentro quest’esperienza di avvertirsi e sapersi così guardati e custoditi? Di quale ‘elezione’ si tratta e che cosa diventa ‘grazia’ in questo orizzonte? e che ne è, in esso, del destino e della libertà dell’uomo? Il nostro pensiero corre subito all’apostolo Paolo e a quel formidabile testo che è la Lettera ai Romani, sul quale si è concentrata – a ragione – l’attenzione di tanti, lungo la storia: da Agostino a Lutero a Karl Barth. È in questa lettera, infatti, che è tracciato a lettere indelebili il manifesto della grazia, a partire dall’evento di Gesù il Cristo, crocifisso e risorto.

Il concetto di cháris – che è assente nei vangeli sinottici, se si eccettua qualche ricorrenza in Luca, mentre nel vangelo di Giovanni è presente soltanto nel prologo (1,14-17) – è in Paolo decisamente centrale, venendo ad esprimere al meglio il significato e la dinamica dell’evento di salvezza che, da Dio, si è gratuitamente e paradossalmente prodotto in Gesù Cristo a favore degli uomini (così H. Conzelmann). Il fatto sul quale occorre dunque concentrare l’attenzione è precisamente la percezione e l’interpretazione che Paolo offre, nella logica della grazia e dell’elezione, dell’evento di Gesù, crocifisso e risorto, riconosciuto nella fede come Cristo e Signore.

Il nucleo incandescente della dottrina paolina della grazia si sprigiona di qui: dal fatto che in Gesù è risuonato al mondo il ‘sì’ definitivo e irrevocabile dell’amore di Dio - l’agápe. Questa è la grazia di Cristo, la grazia che è – per Paolo – Cristo stesso, Cristo presente e operante nei credenti mediante il suo Spirito. È questa la conclusione cui Paolo giunge a partire dall’incontro con Gesù risorto. Nel suo evento, Paolo rinviene la chiave di lettura del disegno nascosto da secoli nella preconoscenza di Dio e infine realizzato nella pienezza dei tempi.

È dunque guardando alle cose da questo focus che Paolo argomenta il suo discorso sulla grazia con tenacia, passione e irruenza: perché lo giudica dirimente nell’annuncio del vangelo di Gesù Cristo. Nella serrata argomentazione della Lettera ai Romani, infatti, l’interpretazione della cháris di Dio in Gesù Cristo consente a Paolo di riproporre in forma nuova le due antinomie che abbiamo visto connotare l’esperienza e l’intelligenza della grazia nel Primo Testamento: quella tra dono e perdono e quella tra particolarità e universalità. Non per allentare rovinosamente i due poli di queste ineludibili tensioni, ma per esibirne l’intrinseca dinamica ed efficacia.

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ultimo aggiornamento 22 ottobre, 2010