riflessioni

Alfredo Benedetti

Durante il percorso quotidiano che in quei giorni ero solito fare fra la mia abitazione in zona San Giovanni e Viale Pinturicchio nel quartiere Flaminio, dove era ubicato lo storico studio di ingegneria e architettura che dividevo con papà, ascoltando la radio mentre guidavo apprendo, in una mirabile trasmissione ed attraverso la voce dello speaker che chiedeva ad esponenti di rilievo del mondo dello spettacolo e della cultura in genere, di identificare quale fosse, per gli intervistati, il libro della vita.

Si trattava, è ovvio, di raccontare esperienze personali, per nulla oggettive, e una volta citato il libro, l’ospite raccontava anche il perché per lui quello fosse il libro della vita, e di come una lettura lo aveva colpito a tal punto da poter identificare il momento in cui la propria struttura mentale si era in qualche modo, non dico formata, ma almeno segnata in un percorso.

Come spesso accade in queste circostanze, e forse in ciò facendo proprio quello che intimamente l’ideatore della trasmissione radiofonica voleva, anch’io mi calo in quel gioco; solo un piccolo tentennamento, una piccola riflessione durata pochi attimi per scartare libri mirabili; ma il gioco era tutto lì, bisognava ragionare con il cuore e trovai coerente sbilanciarmi a favore dei Sessanta racconti di Dino Buzzati.

Mi divertivo e mi improvvisavo intervistato anch’io nella trasmissione radiofonica, ed anch’io, una volta fatta la scelta ecco, espongo sinteticamente le motivazioni del mio pensiero: l’autore nei suoi scritti formula, per quanti sono i racconti che scrive, altrettanti quesiti ed inquietanti interrogativi, ma mai si banalizza dando ad essi una risposta, quantomeno una risposta certa. I quesiti e gli enigmi presentati non sono alla portata della mente umana, e mai emerge la tracotanza e la prosopopea di chi si arroga il diritto di dare risposte certe al mondo.

L’insicurezza dell’uomo di fronte ai misteri della vita è apparentemente imbarazzante.

Non una risposta, mai un dubbio dipanato su quello che può esserci dopo, o di quello che è stato prima di noi, e gli enigmi sublimi che proprio per la loro dimensione, ma così pure per quelli meno eclatanti, non hanno una risposta; ma in questa insicurezza la grandezza dell’uomo. La grandiosità del proponimento è tutto qui; al lettore è richiesto uno sforzo sublime ed una interazione con lo scrittore stesso, una presa di coscienza e di posizione, una interpretazione dove ognuno deve trovare una risposta nel suo intimo, e non importa che questa sia oggettiva o universale. E non si tratta neanche riduttivamente del "così è se vi pare" di matrice pirandelliana, ma di un… possibilismo che emerge da narrazioni che aprono un mondo di riflessioni, le cui ricchezze stanno nell’autenticità del pensiero umano, dell’uomo semplice ma serio che sa essere riflessivo ed aperto al pensiero altrui, formulando il proprio giudizio mai prevaricatore di quelli degli altri e che potrebbero divenire bigotti nell’affermare senza pregiudizi "è così!".

Fra i sessanta racconti che formano la raccolta, in uno dal titolo "Il cane che ha visto Dio", si narra di un vecchio eremita che intento in preghiera sui monti una volta abbia visto Dio, apparsogli come ad Elia. Nella sua grandezza narrativa lo scrittore non si perde dietro una improbabile descrizione di Dio che pure, vista la qualità del suo narrare egli avrebbe potuto fare, ma si limita solo a registrare l’evento e di come l’eremita ne abbia fatto tesoro nel resto della sua vita. Di tale evento straordinario -narra il Buzzati- fu testimone muto il cane che accompagnava sempre l’asceta e che gli sopravvisse quando questi morì. L’animale mite fu accudito per tutta la sua vita dai compaesani del santo proprio per il fatto che anche lui, come il suo padrone, era stato testimone di un evento così straordinario che lo faceva assurgere esso stesso ad essere straordinario.

Il cane andava accudito, ad esso nulla poteva essere chiesto, è ovvio, ma di esso si sapeva che era stato testimone di un fatto che nessuno mai avrebbe potuto descrivere. E ciò bastava.

I fatti vengono narrati, come in tutti gli scritti del poeta, senza clamore o fastidiosi rumori, bensì con pacatezza, un mistero avvolto in un’aurea di domestica semplicità che non ne fa perdere di spessore.

Orbene, ciò mi dà spunto per una personale riflessione sul mio rapporto con Madre Speranza.

Quando negli anni cinquanta e sessanta mio padre, l’ingegnere Calogero Benedetti progettava e seguiva i lavori della costruzione del Santuario dell’Amore Misericordioso a Collevalenza, in tale compito chiamato direttamente da Madre Speranza che lo apostrofava "Figlio", noi tre fratelli, Umberto, Alfredo e Roberto ancora piccoli, lo accompagnavamo spesso in cantiere insieme a mamma, dirottati in quei luoghi dove vivevano le ancelle ed i padri prima ancora che il santuario e le varie case venissero ultimati, lì dove viveva Madre Speranza stessa, in ambienti scarni ma trasudanti di altra ricchezza, dove più di una volta la Madre in persona ci faceva compagnia nella piccola saletta dove mangiavamo con Padre Gino, Padre Mario Gialletti, il Dottor Frongia, e ci serviva a tavola piena di amore, sensibilità, presenza. Le tenevamo le mani bendate a nascondere i segni della sofferenza, testimonianza delle lotte con il maligno, (cose delle quali noi piccoli non eravamo nemmeno in grado di comprenderne l’enunciato, forse), e quei momenti, quei colori, quei sapori sono entrati indelebilmente dentro me per emergere in una frazione di secondo nella mente al solo pensarli, come nell’alchimia raccontata da Proust dove un suono o un sapore sono in grado di recuperare il tempo passato.

Gli occhi penetranti di Madre Speranza li ho visti davvero, non filtrati attraverso una fotografia o un filmato posticcio; e quegli occhi che hanno visto direttamente Dio si sono posati benevoli su di noi, beneficiati e privilegiati in questo come pochi altri. Anche qui, come nella novella di Dino Buzzati, tutto è sempre avvenuto senza rumore esteriore; è stato come qualcosa di naturale e meraviglioso, semplice e possente insieme, qualcosa che ha saputo toccare nel fondo degli animi e negli animi restare, indelebile.

Come nella novella del poeta, riflessa nella figura della Madre che ha visto Dio, anch’io l’ho visto, muto e inebetito come il cane che è stato testimone di qualcosa incommensurabilmente più grande di lui. Madre Speranza era lì, specchio-riflesso di Dio che testimonia la sua presenza agli uomini, sola come pochi altri come Lei in grado di coglierne l’enormità, e noi come il cane, metafora di chi è in grado di coglier attraverso la sensibilità qualcosa di straordinario ma non è in grado di spiegarne le ragioni.

Il rumore sordo resta dentro di noi, inenarrabile…

Spero con ciò di poter esser in grado di emanare un eco anche sbiadito ed afono, un sottile barlume, una fioca luce riflessa ma che sappia penetrare il mistero del quale sono stato testimone.

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ultimo aggiornamento 10 novembre, 2016