pastorale familiare

Marina Berardi

La fecondità dell’Amore

 

Giuseppe, dopo aver condiviso cinquantatre anni insieme ad Anna, così rilegge la loro storia, alla luce dell’ultimo saluto: "Più mi allontano dal 13 dicembre, più mi rendo conto che un meraviglioso capitolo si è chiuso e se ne apre uno nuovo senza poter contare sulla presenza fisica di Anna. Sono certo che il Signore provvederà e non mi farà mancare il suo Amore".

Giuseppe, insieme ad altre famiglie, ha partecipato alla recente iniziativa del Capodanno, vivendo profondamente e intimamente la gioia dell’amore, un amore nuovo, diverso, ma non per questo meno vero. Per la prima volta, come lui stesso ha detto, viveva questa esperienza –diventata per loro consuetudine– senza avere accanto Anna. È stata lei stessa a chiederglielo, in uno degli ultimi giorni, certa che Collevalenza, il Santuario, la fraternità del Capodanno sarebbero stati il luogo e il modo migliore per vivere l’intimità con Gesù e la comunione con lei nella preghiera.

Un amore così non muore. Un amore così è destinato ad essere fecondo oltre la morte. Nulla però si improvvisa: tutto questo è frutto di un cammino che nasce da lontano. Lascio che ci introducano nella loro storia, nella loro casa, nel loro cuore, attraverso lo stralcio di un’intervista raccolta da TV2000 qualche anno fa.

ANNA: In sette anni di fidanzamento con Giuseppe, avevamo fatto dei progetti. Pensavamo di vivere il primo periodo di matrimonio attendendo per avere figli, dal momento che avevamo vissuto un fidanzamento sempre a distanza, perché studenti, io a Monteleone e lui a Terni. Pensavamo di avere almeno due o tre di figli, ma i figli desiderati non sono arrivati.

GIUSEPPE: Sono stati momenti duri ed Anna mi ha chiesto subito che, se non avessimo potuto avere figli nostri, avessimo cercato di avviare una pratica di adozione. Io ho frenato un po’, dicendo ad Anna che dovevamo valutare cosa il Signore desiderasse da noi, quale fosse la volontà del Signore sulla nostra coppia. Penso che noi possiamo fare dei progetti però dobbiamo anche inserirci in un più grande progetto che è quello del Signore.
Nella coppia c’è stato, evidentemente, il momento di buio e di riflessione, durante il quale ti chiedi il perché, però poi devi darti delle risposte e, se anche non le trovassi, ti devi affidare. Noi ci siamo affidati, ma soprattutto è il Signore che ci ha messo accanto un sacerdote che ci ha fatto vivere una vita più profonda, più intensa di preghiera. È lì che abbiamo sentito veramente la presenza del Signore. Così abbiamo detto: intanto riscopriamo il nostro essere cristiani, la presenza di Dio nella nostra vita e ci affidiamo a Lui che sa cosa è meglio per noi.

ANNA: Per Giuseppe forse era più facile non avere figli e dire: "affidiamoci al Signore". Per me donna è stato più duro perché io vedevo la famiglia come marito, moglie e figli, se non propri, affidati o adottati; non vi era altra alternativa. Poi, invece, pur non avendo accantonato questa idea che era sempre nel cuore e nella mente, nel momento in cui abbiamo iniziato un cammino di fede, sono arrivate anche proposte diverse da parte di persone che noi non avevamo cercato. Per esempio, quella di un consacrato che da sempre si dedicava ai detenuti e che, durante un convegno, sedutosi accanto a noi, ci chiese di portare i suoi saluti a un carcerato.

Da quell’esperienza, vissuta negli anni ’70, cominciammo ad accogliere i detenuti che uscivano in permesso premio, che non avevano famiglia o l’avevano lontana. Chiedevamo le ferie ed eravamo a loro disposizione. Li andavamo a trovare in carcere. In quei sei o sette anni, la nostra vita è stata condizionata esclusivamente dalle loro uscite, dalle loro telefonate, dalle loro visite e anche dai loro bisogni materiali.

GIUSEPPE: Chiusasi la parentesi del carcere, si è aperta quella della pastorale familiare, perché i parroci ci chiedevamo di offrire la nostra testimonianza di coppia aperta, anche al sociale.

ANNA: Vivevamo la nostra vita nella normalità e a noi non sembrava di fare cose straordinarie.

GIUSEPPE: La nostra casa è stata riempita da coppie conosciute durante i corsi per fidanzati, ragazzi che si avviavano al matrimonio. Lì sono nate delle amicizie, tanto che ci chiedevano di preparare insieme le nozze, di essere presenti nei momenti importanti, gioiosi o meno gioiosi, della loro vita, poi di essere i padrini dei bambini o delle bambine.

ANNA: Alla nostra coppia questa apertura ha fatto tanto bene. Il cammino di fede ci ha fatto riscoprire i sacramenti, specialmente quello del perdono che a livello di coppia è stato eccezionale. Di solito, infatti, si è portati a guardare sempre gli errori dell’altro o degli altri e, invece, questo ci ha abituati a guardare in noi stessi.

Il relazionarci con gli altri come coppia ci riempiva la vita e la giornata, tanto che, a volte, ci siamo ritrovati all’improvviso giovani che venivano a condividere i pasti con noi, desiderosi di coinvolgerci nelle loro scelte. Ma non solo. Lo scegliere il meglio per gli altri ci ha abituato, come coppia, a non ricercare ciò che voglio io o ciò che vuole Giuseppe ma, insieme, il meglio, il meglio per gli altri e il meglio per la nostra coppia.

Abbiamo sperimentato l’amore in tante occasioni, come pure il batticuore quando avevano qualche esame, quando soffrivano per qualche litigio, e questo ci spingeva a pregare ogni giorno per loro.

Consapevoli che l’amore vero per sua natura è gratuito, non ci siamo mai aspettati nulla, abbiamo donato e basta, però, se qualche cosa non attesa tornava ci dava e ci dà una gioia immensa.

La storia di Giuseppe ed Anna continua ad essere una storia di speranza e ci fa toccare con mano il paradosso evangelico: la fecondità e la gioia dell’amore sgorgano da un cuore trafitto da una lancia, da un progetto all’apparenza incompiuto e umanamente ingiusto come quello della croce. Lo stesso Papa Francesco ci ricorda che «nelle famiglie sempre, sempre c’è la croce. Sempre. Perché l’amore di Dio, il Figlio di Dio ci ha aperto anche questa via. Ma nelle famiglie, dopo la croce, c’è anche la risurrezione, perché il Figlio di Dio ci ha aperto questa via.

Per questo la famiglia è – scusate il termine – una fabbrica di speranza, di speranza di vita e di risurrezione, perché è Dio che ha aperto questa via. […] L’amore è festa, l’amore è gioia, l’amore è andare avanti» (Philadelfia, 26.9.2015). Così ancora oggi, nell’abbracciare la croce, Giuseppe continua a sentirsi fecondo, cercando di scoprire, nella vita di tutti giorni, il nuovo progetto che il Signore ha su di lui, perché "Dio stesso cura e protegge il suo capolavoro" (Papa Francesco, 22.4.2015).

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ultimo aggiornamento 09 febbraio, 2017