Verso una cultura della misericordia

 

A cura del CeSAM
 
DON MARCO STRONA

 

I Vangeli della misericordia

 

 

La Collana Rachamim Misericordia si arricchisce di un ulteriore volume, che cerca di incarnare il tema della misericordia, appunto, nelle categorie antropologiche e sociali dell’incontro e della giustizia.

Misericordia quindi come giustizia e incontro. L’incontro dell’uomo con Dio che si manifesta nel vissuto concreto della vita, a partire in maniera particolare dai suoi bassifondi e dalle periferie; e dalla giustizia che deriva dall’aver ascoltato il grido proveniente da questi luoghi.

Si tratta di un libro che vede il contributo di professori e ricercatori di diverse università.

 

Il testo di Giulio Michelini, partendo dall’esegesi della pericope del Vangelo di Matteo al capitolo 12, ci introduce brillantemente nel cuore della nostra tesi: Misericordia voglio e non sacrificio.

Si tratta di un invito che l’Evangelista rivolge ai membri della sua comunità, e a tutti noi: quello della pratica di una «misericordia inclusiva verso gli altri», in particolare verso i più piccoli, gli anawim.

È infatti proprio ascoltando il grido di dolore e di disperazione che Dio, come è scritto nel libro dell’Esodo, decide di farsi prossimo per liberare il popolo sofferente, esercitando così la sua misericordia e giustizia.

Si tratta di un grido che racchiude in sé l’eco di tante altre grida che ripetutamente si sono succedute nel corso della storia, in diversi modi e situazioni; un grido che diviene al tempo stesso una pro-vocazione, che chiama in causa necessariamente l’intervento non solo di un singolo, ma di una comunità intera.

Un appello, come afferma Alici nel suo testo, «a cui la politica non può sottrarsi, perché è chiamata a raccogliere un grido che le è affidato». Con il grido del giusto, prosegue, «prende voce il paradosso della politica, cioè il suo connubio con la sofferenza». Occorre, cioè, ripensare un paradigma diverso da quello del potere come potenziamento, «proprio ripensando il suo rapporto con la sofferenza».

Proseguendo su questa linea, il testo di d’Ambrosio cerca di vedere, alla luce anche della Dottrina Sociale della Chiesa, come sia possibile mettere in pratica il paradigma della solidarietà, e quindi della comunione, sradicando così il principio individualista e utilitarista.

Il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo – evocato molte volte da Papa Francesco – vede la formulazione di nuovi paradigmi, non solo a livello antropologico - mediante la centralità della categoria di relazione – ma anche a livello sociale, politico ed economico.

La proposta di Smerilli si muove precisamente in quest’ultima direzione. Consapevole che i modelli economici che hanno guidato lo sviluppo e il commercio «ci stanno portando verso un sentiero non più percorribile», è necessario ripensare non solo l’economia – a partire dalle sue fondamenta – ma anche la stessa idea di sviluppo umano.

Si tratta, cioè, della necessità di recuperare la nozione, o meglio l’esperienza stessa, di casa comune.

La matrice francescana di quest’ultima espressione, ci permette di richiamare l’attenzione sul modello che lo stesso Francesco d’Assisi ha proposto come chiave per una sana relazione con il creato, «come una dimensione della conversione integrale della persona» (Laudato Si, 218).

Tale conversione «comporta vari atteggiamenti che si coniugano per attivare una cura generosa e piena di tenerezza» (n° 220).

Una cura che può essere autentica se mette al centro la nozione di vulnerabilità, come costitutiva dell’essere umano. È ciò che emerge dalla proposta di Danani.

«Che l’essere umano sia vulnerabile, prima ancora che possa essere ferito», rileva l’Autrice, «apre lo spazio molteplice della responsabilità: che coinvolge nella consapevolezza di sé colui stesso che è esposto, ma anche ciascun interlocutore che può avere effetto, e la rete plurale in cui le relazioni si costruiscono».

In questo senso, la consapevolezza dell’interdipendenza – e della relazione – «è da considerarsi come il fondamento di tutte le qualità umane e sociali», aprendo così spunti interessanti anche per la stessa concezione della giustizia.

Anche il testo di Pagliacci sottolinea il fatto che «noi esseri umani viviamo in una profonda e intima relazione con noi stessi, con gli altri e con la realtà che ci circonda e della quale ci scopriamo essere una parte importante, indispensabile, ma non esclusiva e soprattutto non escludente la totalità della realtà con la quale ci rapportiamo e in relazione alla quale appunto viviamo».

È proprio la relazione fraterna che diviene «la premessa e la ragion d’essere dell’amore per il prossimo».

Saper guardare alla dinamica della relazione fraterna significa allora «sapersi misurare con chi è più vicino, ma anche con chi è più lontano, imparare a riconoscersi nel volto interpellante dell’altro, un altro me stesso che come me ha bisogno di essere riconosciuto, ospitato, amato».

Lo sguardo dell’Altro, che mediante l’amore diviene prossimo, ci interpella continuamente,ed esige da noi una risposta concreta.

La domanda intorno al senso e alla pertinenza antropologica e teologico- morale della giustizia come forma di relazione interpersonale, che ho cercato di sviluppare, rappresenta sicuramente una delle urgenze per il nostro tempo. L’impegno per la giustizia e per l’edificazione del Regno di Dio devono essere sempre animati e sostenuti dalla speranza e dalla carità.

In questo senso proprio il paradigma trinitario può contribuire ad una nuova interpretazione della giustizia intesa come reciprocità.

Proseguendo nel rapporto tra misericordia e giustizia, il testo di Giri prende in esame l’Enciclica di Paolo VI, Populorum Progressio, evidenziando in particolare il tema della misericordia della Chiesa nella sua missione sociale, sottolineando come l’amore misericordioso esprime in toto la sua profonda capacità generativa quando in primis viene realizzata una giustizia autentica.

Gli ultimi due testi riportano la testimonianza e il pensiero di Simone Weil.

Entrambe le Autrici, Simeoni e Sanches, evidenziano la dimensione della giustizia che emerge dalla riflessione di Weil, in una dimensione metafisico-politica.

Lo spirito di giustizia, rileva Simeoni, «nasce dal contatto con il grido della sventura (malheur); e consiste, prosegue Sanches, «nell’accettare l’altro, nel ridonare al diverso da sé l’esistenza stessa». Ecco allora che la giustizia viene a configurarsi in Simone Weil come un vero e proprio sacramento, «perché attraverso essa Dio non soltanto si incarna, ma ci permette anche di toccare ed essere toccati da lui».

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento 14 dicembre, 2018