Leggiamo il libro
di Giobbe 2

 

  Il Libro di Giobbe:

  il libro della crisi

      Sac. Angelo Spilla

Seguito....

In tutto questo Giobbe non peccò

Riprendiamo la figura di Giobbe dopo che è stato privato dei suoi beni materiali, dei suoi affetti e soprattutto degli stessi familiari. Satana aveva voluto verificare la purezza della fede di Giobbe. È il momento della prova e così sopraggiungono le sciagure nella famiglia di Giobbe; perde improvvisamente bestiame e figli. Le disgrazie che gli accadono rimangono senza perché. Da una parte si dice che Giobbe è una persona integra ed è ciò che Dio stesso riferisce a Satana, dall’altra possiamo dire che non c’è niente che possa dare adito agli eventi che stanno per accadere. Giobbe, l’"uomo integro e retto", timorato di Dio e lontano dal male, si trova in una situazione dolorosa; potremmo dire, in una situazione scandalosa che non può trovare una spiegazione convincente.

Nonostante ciò sappiamo come ha reagito Giobbe in tutto questo. La sua è stata una risposta di fede e di abbandono a Dio che ha dato e che toglie nella sua sovrana libertà. Ma ecco come prosegue il racconto biblico. Ci troviamo nel secondo capitolo del libro biblico di Giobbe. Adesso la scena si sposta nuovamente alla corte celeste ed è sempre Satana ad incalzare. Il Signore replica a Satana esaltando le virtù del suo "servo Giobbe", nonostante la tempesta che ha sconvolto la sua vita. Ma anche qui Satana replica a Dio citando un detto popolare:pelle per pelle. Satana dice che i beni sono una seconda pelle, mentre c’è la prima pelle da tenere in grande considerazione e sono propriamente la salute e la propria vita; a queste l’uomo è attaccato con tutte le sue forze. Cosa ne segue, allora? La prova adesso si accanirà sul corpo e sull’esistenza di Giobbe stesso. Satana è convinto che così facendo Giobbe non resisterà nella sua fede.

La situazione si aggrava, quindi, quando Giobbe viene colpito nella sua pelle da "una piaga maligna", in tutto il suo corpo. Il testo biblico così prosegue: "Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere"(vv.2-8). Il termine ebraico usato per "piaga maligna" fa riferimento a quelle affezioni epidermiche che comportavano la "scomunica" dalla vita religiosa e sociale di Israele. Se nel primo capitolo Giobbe era al centro della casa e della famiglia, ora con la sua malattia, vive ai margini. Giobbe deve uscire dal suo villaggio per trovare rifugio in quei luoghi dove si incenerivano i rifiuti, mentre il coccio per grattarsi conferma l’abiezione a cui è ridotto.

Davanti a lui c’è ormai la solitudine che però viene interrotta dalla presenza aggressiva della moglie, la quale lo invita a maledire Dio:"Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!" (v. 9). È la constatazione di una moglie che vede soffrire il suo uomo, e patire in quel modo dopo che lei stessa ha patito e subìto con lui la perdita dei figli. Non aveva espresso nessuna parola quando assieme a suo marito hanno perso i figli, frutti del loro amore. Precedentemente l’attenzione era stata posta su Giobbe, uomo giusto ed integro, il cui splendore offusca la presenza della moglie e della madre. Quando adesso questa donna emerge dallo sfondo come sposa che ama veramente il suo uomo, stanca di una serie di prove che non comprende, lo fa per porre queste domande: che senso ha vivere quando progressivamente sono state tolte tutte le ragioni per essere vissuta? Così pure guardando lo stato di salute di suo marito, ridotto a una larva umana, si chiede ancora: che senso ha ancora vivere? È degna di essere vissuta una vita ridotta così? Ma soprattutto: ha ancora senso stare attaccati a un Dio che sembra ricambiare con il dolore la virtù e la fedeltà? Non è una forma di masochismo spirituale lo stare attaccati a questo Dio?

Le parole della moglie le leggiamo non in maniera irragionevole e irrazionale, ma come una ribellione in nome dell’amore alla vita, ai propri figli, al proprio uomo. Ed è l’invito più serio e più appassionato perché è la persona più vicina a Giobbe, ed è la tentazione più seria, l’ostacolo più duro che Giobbe deve superare. Poi verranno gli amici, verrà la società, con le loro altre tentazioni e altri grandi ostacoli.

Cosa ci aspettiamo adesso da Giobbe? Come avremmo risposto noi in tale circostanza e dopo questa stessa provocazione? Giobbe prendendo la parola, così rispose:"Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perchè non dovremmo accettare il male?". Per Giobbe la reazione della moglie è il segno di una fede morta. Lo stolto è la persona empia, è la persona insensata, colui che rifiuta Dio.

Questa scena ci fa riflettere ancora molto. Sono righe che ci rimandano al tema del dolore con le sue conseguenze. A volte il dolore può diventare l’occasione in cui un amore si rinsalda, come può diventare anche occasione di divisione; può travolgere e separare ciò che l’amore e Dio stesso hanno unito, moglie e marito appunto. Il dolore può dividere dagli amici, da Dio stesso, tanto da odiare la propria vita e desiderare la stessa morte. E questo segna la rottura interiore più profonda, si entra nell’abisso della morte. E’ quanto aveva chiesto la moglie di Giobbe; è l’invito a rinunciare Dio che non ci è più padre e amore misericordioso, ma è solo causa della tua infelicità . E allora quale deve essere la risposta? A dire di questa donna: ribellati a Dio e muori con la dignità di un uomo che si è ribellato a un Dio disumano e mostruoso.

Giobbe, però, giudica negativamente questa posizione di sua moglie e su questa prova i valori si dividono, la visione della vita si divide e Giobbe cerca di persuaderla dicendole: "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?" (v. 10). La sua non è una risposta immediata, frutto di una reazione automatica dettata dalla tradizione religiosa e di una fede che lo ha guidato per tutta una vita. Giobbe sa che in questi anni ha vissuto tutto come un dono e allora anche la sofferenza che sta vivendo in questo periodo non sembra scalfire quella fiducia che si è coltivata e costruita fino a quel momento. Neanche un male così sconfinato sembra vincere quell’esperienza di vita: chi ha accolto ogni giorno come donato da Dio, continua a sentirselo vicino, come suo Dio, anche se il dono è un dono di lacrime e di dolore. E allora come ha accolto la benedizione subito accetta ora ciò che lo tormenta, ferisce, umilia: "In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra".

 

Giobbe e i tre suoi amici

Dopo l’intervento della moglie di Giobbe, il capitolo secondo si conclude con un’ultima scena nella quale appaiono tre personaggi che avranno una mansione caratteristica nel poema.

Ricordiamo l’improvviso cambiamento di scenario, che sconvolge radicalmente e "senza ragione" la felice esistenza di Giobbe, uomo giusto, onesto e pio. Nonostante tutto però, egli non si rivolta contro Dio, come avrebbe atteso e desiderato Satana. E questo sia quando viene privato dei suoi beni e dei suoi stessi figli, sia anche quando viene toccato nella sua pelle: "Dalla testa ai piedi coperto di piaghe". Giobbe non si rivolta. La sua stessa moglie, parlando da "insensata" e vedendolo soffrire, esclama: "Maledici Dio e muori". Quante volte, anche a noi, la fine appare migliore di un lento dissolversi dinanzi ad interminabili notti e ad insospettabili giorni.

Giobbe è in grave difficoltà ma è un uomo di fede. È un vero credente, ma è in difficoltà per quanto riguarda l’interpretazione di quello che gli succede. E quello che succede a lui, in realtà, succede poi a tante altre persone, succede in un luogo e in tanti altri luoghi, in un momento della storia e lungo tutto lo svolgimento della storia, ieri e ancora oggi. Questo svolgersi così catastrofico degli eventi , per quanto Giobbe riesce onestamente a verificare, non può essere determinato da una colpa più o meno identificata, denunciabile nella sua oggettività.

Giobbe sa bene di essere un peccatore anche lui come tutti gli uomini sono peccatori. Ma è la connessione tra la sua colpa e la situazione dolorosa che lo affligge in modo così travolgente che per Giobbe non è affatto chiara. Giobbe dice "io non comprendo proprio come sia possibile che per le mie colpe, quali che siano e sono tutte da dimostrare, i fatti della mia vita debbano andare in modo così tragico. Questo non me lo spiego".

A questo punto ci stiamo inoltrando nell’ultima scena del secondo capitolo del libro di Giobbe (Gb2,11-13). Appaiono tre personaggi. In un primo tempo provano imbarazzo: «Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere… Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore ». Sono tre amici che ora sembrano personificare la solidarietà umana: compiono, infatti, gesti caratteristici orientali di cordoglio per segnalare la loro compartecipazione all’angosciosa sofferenza dell’amico. Si apre una lunga settimana di silenzio, segno dell’incapacità di chiarire e decifrare il «mistero» di un dolore così esteso. «Partirono, ciascuno dalla sua contrada»: le tre posizioni sono tutte riconducibili al territorio d’Idumea e Arabia. Partirono, arrivarono e piansero. Hanno saputo e sono stati coinvolti nella sua storia. Tutti quattro seduti senza dire niente. Nei momenti della prova (lutto, malattia, sofferenza) anche noi non sappiamo dire niente, così anche gli altri che ci sono vicini. Questo silenzio è vero perché è abitato dal mistero di Dio.

Quando finalmente l’angosciante silenzio è rotto con un urlo dallo stesso Giobbe, gli amici, consapevoli difensori di Dio, cominciano ad esprimere il loro pensiero. Presumono di aiutare Giobbe a comprendere la sua situazione: accusandolo. Si avventurano, da esperti, in una «logica» e «ragionevole» difesa del Creatore. Con competenza e dovizia di particolari, in un immaginario e grandioso processo, difendono Dio ed accusano Giobbe. Elifaz di Teman, Bildad di Shuk e Sofar di Naamat sono la punta di diamante del retribuzionismo: ogni sofferenza, spiegano, è sanzione di peccati personali: «Dio non rigetta l’uomo giusto né dà man forte al malvagio».

Veramente Giobbe, immerso nell’assurdità di una esistenza carica di sofferenza, gratuita ed ingiustificata, aveva toccato il lembo estremo della preghiera dell’uomo: gridare a Dio il non senso di ciò che gli è toccato vivere. Incatenato dal dolore e come conficcato sulla nuda terra, dal profondo grida: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "È stato concepito un maschio!". Quel giorno divenga tenebra…. Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga, né veda le palpebre dell’aurora…Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezze nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro …Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!» (Gb 3, 3-4. 9.20-21.26).

Il primo dialogo inizia, quindi, con un lamento di Giobbe che maledice il giorno della nascita, rimpiange di non essere morto prima di nascere, descrive l’angoscia del vivere. Qui Giobbe è un uomo con una vita così penosa che sparisce anche il timore della morte, tanto è il desiderio di essere liberato dal dolore. Le sue percezioni immediate gli dicono che Dio è la causa del suo dramma, che Dio è arbitrario e ingiusto, che Dio non gli lascia la libertà di scegliere.

Gianfranco Ravasi sintetizza molto bene questo momento drammatico della vita di Giobbe: "A questo punto possiamo proporre una considerazione conclusiva. La Bibbia ammette che l’uomo nel giorno della prova più dura parli a Dio con sincerità, persino con brutalità. Giobbe è l’esempio della verità più assoluta nel lanciare verso l’alto il suo "perché?", abbandonando ogni compostezza, giungendo al punto di attaccare persino Dio, il suo silenzio, la sua assenza. Sono sensazioni ed emozioni vissute da tantissimi uomini e donne, che hanno voluto far capire agli altri e a Dio di non essere solo un corpo malato e dolorante ma una persona che s’interroga e dialoga".

Giobbe, come ogni lettore che lo segue attentamente, non accetta una falsa consolazione. Si ribella all’immagine di Dio che viene presentata dai suoi amici. Man mano che la lettura prosegue, Giobbe sembra dar voce a tutte le nostre obiezioni.

Continua ...

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento 14 dicembre, 2018