Verso una cultura della misericordia

 

A cura del CeSAM

DOTT. PARIDE PETROCCHI

Il Sinodo sui giovani

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Vocazione

"Secondo me, in gennaio o in febbraio, sarò libero oppure verrò immediatamente arruolato. Se nel posto dove ti troverai, potrai fare qualcosa – e se lo fai volentieri – perché ci venga anche io, non farti dissuadere dai consigli altrui […] In ogni caso, ci si dovrebbe muovere subito. Dobbiamo imparare ad agire in modo diverso dagli eterni dubbiosi, il cui fallimento ci è noto dai contesti più ampi. Bisogna far chiarezza su ciò che vogliamo, dobbiamo chiederci se siamo capaci di assumerci la responsabilità della cosa, e poi dobbiamo farla con incrollabile fiducia. Allora e solo allora è possibile sopportarne anche le conseguenze. Devi sapere, poi, che non mi sono pentito neppure per un instante di essere tornato nel 1939, né di qualcosa di quel che ne è seguito […]
E il fatto che ora io mio trovo qui recluso lo ascrivo alla partecipazione al destino della Germania cui mi ero deciso. Penso alla realtà del passato senza recriminazioni e senza recriminazioni accetto la realtà del presente"
.1

Queste poche righe rubate al tempo sono state scritte da Dietrich Bonhoeffer, teologo protestante, morto martire, oserei dire, per mano del regime nazista a Flossemburg il 9 Aprile del 1945.

Le parole appena lette ci aiutano ad inquadrare il tema della vocazione in un orizzonte esperienziale ampio ma non imprecisato. Il giovane teologo tedesco scrive questa lettera dal carcere al suo amico di sempre Eberhard Bethge, oggetto della discussione è la decisione presa ormai anni addietro da Dietrich relativamente al suo ritorno in Germania. Bonhoeffer sul finire degli anni trenta era riuscito ad emigrare in America mettendosi al riparo dalle tensioni che erano sempre più evidenti nel suo paese, in particolar modo verso coloro i quali, e Bonhoeffer era uno di questi, non erano allineati con il regime nascente. Nel 1939, dopo un’aspra lotta interiore ed una crisi anche spirituale, egli stesso decide di tornare indietro, di tornare a casa per un unico scopo: la partecipazione al destino della Germania.

Il giovane Dietrich intuisce, non senza sofferenze, quale sia il suo posto, quale sia la sua missione e ne diventa il protagonista, pagando a caro, anzi carissimo prezzo, questa scelta fino a morire per essa.

Mi piace portare avanti questo esempio per discutere di vocazione, la vocazione non è mai qualcosa di astratto, preconfezionato, ma è frutto di un lungo cammino di ascolto, interiorità e discernimento. Discernimento che si districa tra due grandi coordinate: quella della libertà e quella della responsabilità.

La vocazione non nasce da sé ma al seguito (lo dice la parola stessa) di una chiamata, una chiamata ad un essere, prima che a fare, ad un essere non solo per sé ma per altri o per usare le parole di Papa Francesco nella Christus Vivit: "Questa vocazione missionaria riguarda il nostro servizio agli altri. Perché la nostra vita sulla terra raggiunge la sua pienezza quando si trasforma in offerta. Ricordo che «la missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo»"2.

Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale.3

Se questo aspetto riguarda il versante della responsabilità, non meno importanza ha l’aspetto della libertà nell’ambito vocazionale: "un buon discernimento è un cammino di libertà che porta alla luce quella realtà unica di ogni persona, quella realtà che è così sua, così personale, che solo Dio la conosce. Gli altri non possono né comprendere pienamente né prevedere dall’esterno come si svilupperà".4

In questo cammino, spesso in salita, va intrapreso un profondo processo di riconciliazione con il tempo, un discernimento non è cosa da poche ore, o da pochi giorni, ma impiega una vita a prendere forma e vita. Non occorre scoraggiarsi ma partire dalla fine o dal fine in quanto Dio ha pensato ad un posto, ad un vestito per ognuno di noi, anche se costa tempo e fatica cercarlo e trovarlo, poi la felicità della scoperta supera di gran lunga la sofferenza del parto e relativamente a ciò vorrei concludere con un bellissimo sonetto che il Papa pone in risalto nell’esortazione post Sinodale:

«Se per recuperare ciò che ho recuperato
ho dovuto perdere prima ciò che ho perso,
se per ottenere ciò che ho ottenuto
ho dovuto sopportare ciò che ho sopportato,
se per essere adesso innamorato
ho dovuto essere ferito,
ritengo giusto aver sofferto ciò che ho sofferto,
ritengo giusto aver pianto ciò che ho pianto.
Perché dopotutto ho constatato
che non si gode bene del goduto
se non dopo averlo patito.
Perché dopotutto ho capito
che ciò che l’albero ha di fiorito
vive di ciò che ha di sotterrato».
5

Buon cammino a tutti!


1 D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Queriniana, 2002, pp. 236-237.

2 Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 273:AAS 105 (2013), 1130.

3 Papa Francesco, Christus Vivit, Esortazione Post – Sinodale ai giovani e a tutto il popolo di Dio, 254.

4 Papa Francesco, Christus Vivit, Esortazione Post – Sinodale ai giovani e a tutto il popolo di Dio, 295.

5 Francisco Luis Bernárdez, “Soneto”, in Cielo de tierra, Buenos Aires, 1937.

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ultimo aggiornamento 09 luglio, 2019