pastorale familiare Marina Berardi
Crediamo in un Dio per Padre
V
ogliamo ispirarci al cammino della Chiesa che, in questo ANNO DELLA FEDE, ci invita ad un itinerario nella fede e ci esorta a rinnovare il nostro credo. Non sto pensando al Credo degli Apostoli che ogni domenica proclamiamo insieme durante la S. Messa, ma, a quel credo che pronunciamo-annunciamo con la vita: il nostro vivere dice ciò che siamo, svela dove è il nostro cuore, quale tesoro cerchiamo, da chi o da cosa facciamo pilotare le nostre scelte; in una parola, dice ciò in cui crediamo.Allora sembrerebbe onesto chiedersi: Io credo? Noi in chi crediamo? Parafrasando quanto detto da Gesù, potrebbe suonare anche così: Se il Figlio dell’uomo tornasse, troverebbe fede nel mio cuore e nella mia casa? (cf. Lc 18,8) e… in quale Dio?
Vogliamo credere – tanto più in questo Tempo! – in un Dio incarnato che si fa Bambino per rivelare in modo sublime il suo amore e la sua compassione, che vuole tracciare con noi una storia sacra e per questo, come fece con il popolo di Israele, ci insegna a camminare tenendoci per mano, ci attira a sé con legami di bontà, con vincoli d’amore. Crediamo in un Dio che fa quei gesti tanto familiari ad ogni genitore: è per noi come chi solleva un bimbo alla sua guancia, come chi si china per darci da mangiare (cf. Os 11, 3-4.8), magari proprio mentre ci dibattiamo e ci dimeniamo nell’or gogliosa pretesa di fare di testa nostra, convinti di sapere ciò che è meglio per noi.
A noi è chiesta l’umiltà di riconoscere la nostra piccolezza, certi che, come scriveva M. Speranza, "per quanto piccoli, siamo sufficientemente grandi perché il nostro buon Padre si occupi di noi con la stessa premura come se fossimo soli al mondo. Pertanto, dobbiamo abbandonarci tra le sue braccia come bambini piccoli, cercando di nutrire il nostro spirito con questa considerazione, anzi, verità: «Gesù mi ama; mi ha pensato da tutta l’eternità e mi ha amato con amore speciale»".
Dio si serve delle circostanze più comuni e degli eventi più naturali per dirci quanto ci ama e per rivelarsi «come un padre buono e una tenera madre», si serve anche di situazioni impreviste, a volte indesiderate, sofferte e apparentemente ingiuste. Lui accetta la gradualità del passo dopo passo, ma in alcuni momenti sembra accelerare i tempi, nel desiderio di avvicinarci alla meta. Ogni coppia sa che a volte si è condotti su un sentiero pianeggiante e altre su una «salita ripida, molto ripida» - come dice M. Speranza –, in cui si sperimenta tutta la fatica ma anche l’entusiasmante avventura di arrivare in alto, attendendo di vedere tutto con lo sguardo e dalla prospettiva di Dio.
É nella prova vissuta con fede, infatti, che si scoprono gli orizzonti illimitati che Dio ci pone davanti, è nella «solitudine» - come direbbe Madre Speranza – è lì che impariamo «ad amare Gesù», a fare nostri i suoi criteri, i suoi sentimenti, a credere in Lui, a scoprire il senso nascosto in ogni cosa.
Come non ricordare le parole di Gesù ai suoi discepoli, circa l’amico Lazzaro: «…è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate» (Gv 11, ). Gesù permette il dolore, il male solo perché sa che ne ricaverà un bene più grande. Se riuscissimo a superare la superficialità o la presunzione di indicare noi il cammino a Dio e a metterci, invece, in atteggiamento di ascolto, ci accorgeremmo che la nostra storia è segnata da tappe, da pietre miliari, da momenti pre cisi, di cui il Signore si serve per farci crescere nella fede e nella fiducia in Lui, nella conoscenza di noi stessi e del disegno d’amore che Lui ha su di noi.
Come ci ricorda Paolo, la fede nasce dall’ascolto e ciascuno di noi può trasmettere solo ciò che ha «udito e conosciuto», «raccontando» così con la propria vita, le «meraviglie» che il Signore continua a compiere: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, [la nostra Madre ci ha raccontato!] non lo terremo nascosto ai loro figli; diremo alla generazione futura le lodi del Signore, la sua potenza e le meraviglie che egli ha compiuto. [...] perché le sappia la generazione futura, i figli che nasceranno. Anch’essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio» (Sal 78, 3-4; 6-7).
Dobbiamo imparare a credere in un Dio Trinitario, in un Dio che è "famiglia", che non può volere il male dei suoi figli, tutt’altro, e, soprattutto, che non si scandalizza della caducità, della fragilità, finanche del peccato. Nel lontano novembre del ’27, M. Speranza scrive che Dio si vuole rivelare per ciò che veramente è: "Mi sono ‘distratta’, ossia, ho trascorso parte della notte fuori di me e molto unita al buon Gesù. Lui mi diceva che devo riuscire a farlo conoscere agli uomini non come un Padre offeso dalle ingratitudini dei suoi figli, ma come un Padre amorevole, che cerca in ogni maniera di confortare, aiutare e rendere felici i suoi figli e li segue e cerca con amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro. Quanto mi ha impressionato questo, padre mio!".
È vero! Dio desidera la felicità di ogni coppia, di ogni famiglia, ed è proprio il credere a rendere felici, perché ci fa scoprire figli di un Dio che è Padre, che è Madre, che è Famiglia.
Sto pensando alle volte che nella coppia l’uno dice all’altra: non sarei felice senza di te! Oppure a ciò che provano i genitori quando pensano ai propri figli: non saremmo così felici senza di loro!
Gli stessi sentimenti prova Dio, tanto da ripetere in modo del tutto personale: …non sarei felice senza la vostra coppia, senza ciascuno di voi! Dio è la felicità piena ed è pronto ad offrircela ogni volta che troviamo il coraggio di abbandonare la nostra vita nelle sue mani, di lasciarci condurre con umiltà anche per quei sentieri che non avremmo mai pensato.
Per volare alto, per arrivare alla pienezza dell’amore, al compimento, è necessario lavorare alla propria identità personale e di coppia, senza conformarsi alla mentalità del mondo, e, come continua Paolo, bisogna trasformarsi interiormente, abbandonarsi, fidarsi, tendendo, "nella fede e nella conoscenza, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13).
È un cammino destinato a durare tutta la vita. Nella nostra vita nulla si improvvisa: diverremo come il modello a cui, più o meno consapevolmente, abbiamo scelto di somigliare, saremo il frutto di ciò che pensiamo, amiamo, vogliamo, costruiamo. Nella nostra crescita, come in quella dei nostri ragazzi, non si saltano gradini, e come loro, anche noi abbiamo un compito che ci è stato affidato e che dovremmo riconsegnare all’unico Maestro, Dio! Il non assolvere il compito, il non raggiungere la meta della maturità umana e cristiana, il non vivere appieno il Dono Grande che è stato riversato in seno ad ogni coppia con il sacramento del matrimonio, credo sia la causa di un diffuso senso di frustrazione, di mediocrità, di infelicità.
A me sembra che troppo spesso ci accontentiamo di piccoli traguardi, ci serviamo dell’altro invece di servire ed edificare l’altro nel bene, demoliamo le relazioni e le deprezziamo, svendiamo quell’opera d’arte che Dio vorrebbe realizzare. Credo che dovremmo trasformarci in ricercatori di senso, di significato, proprio a partire da quella percezione di incompiutezza che ciascuno di noi porta con sé, la quale ci spinge a dirigerci verso un di più che possa appagarci. Il "buon Gesù", invitandoci a decollare, ci chiede un’inversione di rotta, di mollare i comandi, di lasciarci dirottare da Lui - esperto pilota in umanità! - verso mete che a noi sembrerebbero assurde, che non avremmo mai osato immaginare, verso l’essenziale, verso il vero senso della vita, verso quel Cielo dove Lui è asceso per prepararci un posto.
Noi crediamo di poter chiamare nostro Padre tutto un Dio! (cf. M. Speranza).
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ultimo aggiornamento
15 gennaio, 2013