Il dolore all’origine della colpa,
dell’amore e della misericordia
(di Gaetano Benedetti - Basilea)

Quand’ero bambino mi si insegnava che il dolore (e la morte) fossero una conseguenza del peccato di disobbedienza di Adamo.
Già allora (non senza un senso di colpa, originato dalla coscienza che il mio pensiero contraddicente fosse già un atto di ribellione) mi domandavo:

"E se fosse viceversa? Se il dolore non fosse una conseguenza della colpa, ma la sua Causa?"
Più tardi, da adolescente, scoprivo (non senza un maggiore senso di colpa) incongruenze nella dottrina religiosa impartitami.
Com’è possibile – mi dicevo – che la nascita del dolore è collocata col peccato di Adamo, in un tempo, in un "prima e un dopo", mentre Cristo, che è l’aspetto di Dio rivolto come Salvatore al dolore umano, è, quale persona della Trinità, eterno?
Ed ancora: com’è possibile che Adamo, discendente da antenati rozzi ed animali (leggevo allora le scoperte scientifiche di Darwin) sia stato, prima della caduta, un essere perfetto?
Non era la sua caduta già un segno di non-libertà, di cecità spirituale?
Ed infine: com’è possibile immaginare un regno animale senza procreazione, e perciò anche senza la morte?
Ma era solo all’età di 18 anni, all’inizio dei miei studi di medicina, che il problema del dolore diveniva per me impellente: già alla vista del cadavere umano, e poi, negli anni successivi, della malattia mortale.
Era però solo dieci anni dopo, nell’incontro con la psichiatria e la follia, che io arrivavo alla piena scoperta del dolore universale, quale esso si manifesta appieno in alcuni ed è in germe in noi tutti.
Debbo dire che nessun’altra esperienza esistenziale ha avuto per me una portata, una profondità simile. Modificando il testo di Cartesio: "Cogito, ergo sum", potevo dire: "Vedo la sofferenza umana, perciò sono".
La mia visione è, come tutte le visioni esistenziali, parziale; ma è (nell’esperienza più che cinquantennale che ne ho fatta) fondamentale.

Il dolore umano! Come non percepirlo da psicoterapeuta! Non solo nelle sale psichiatriche, nei malati di mente e nelle loro famiglie, ma quasi in ogni angolo della psiche umana svelantesi a noi nel colloquio.
Riflettendo sul tormento di singoli pazienti, anche non clinicamente gravi, mi domandavo se il dolore è distribuito fra gli uomini in proporzione dei grandi cataclismi storici, oppure in maniera ascosa ed invisibile, fra noi tutti.
Ed accanto a questa fortissima ed indelebile percezione ritornava alla mente l’interrogativo della mia infanzia: "Perché ciò?".
La domanda di Buddha, la domanda forse senza risposta, che tuttavia si impone alla mente.
Ripensando all’inversione di casualità fatta dalla mia mente ancora infantile (il dolore come causa e non come conseguenza della colpa) mi appariva chiara la tesi seguente: mentre la colpa, anche se tragica, od inconscia, o perfino necessaria, è comunque in tutti i casi, una "zona oscura" dell’esistenza, il dolore ha anzitutto, una eminente funzione difensiva. Lo vediamo già alle sue sorgenti biologiche. Esiste una malattia, la siringomielia, che consiste nella distruzione delle strutture midollari che altrimenti convogliano al cervello, e così alla coscienza, l’esperienza del dolore fisico.
Questi malati, che sono dunque esenti da dolore fisico, urtano nell’ambiente e si feriscono, senza accorgersene; si bruciano nelle scottature la pelle, senza accorgersene; diventano dei mutilati.
E passiamo poi dal dolore fisico a quello psichico.
Cosa sarebbe delle psiche umana senza l’elaborazione dolorosa di quei traumi psichici di cui è fatta la nostra esistenza? E come sarebbe possibile porre argini all’ingiustizia sociale, se questa non fosse sorgente di sdegno doloroso?
Leggiamo, adesso, in questo discorso, le esclamazioni dei filosofi – Heinrich Knittermeyer scrive ad es.: "poiché noi non viviamo in un tempo ordinario in cui l’uomo normale ha come scopo il proprio ordinario mantenimento, ma viviamo in un tempo escatologico nel quale, nella notte, può abbattersi su ciascuno di noi "l’improvviso inatteso", così come esso si è abbattuto su tutti gli Ebrei, che un giorno sono stati strappati dalle loro case. (*)
Ovunque si guardi nel mondo noi incontriamo dappertutto uomini su cui si è abbattuto il martirio". Parole simili, scritte negli anni cinquanta del secolo scorso, sono altrettanto attuali nell’epoca presente; e la vista dei malati mentali nel cortile dell’ospedale psichiatrico di Catania mi faceva presente il martirio, anche senza Hitler e senza il "Male".
Tuttavia, se è anche vero, da un canto, che il dolore ha una necessaria funzione difensiva nell’organizzazione della vita, è pur vero, dall’altro, che l’incapacità umana di sostenere, elaborare, e sublimare il dolore, trasforma la necessaria difesa non solo in malattia, ma anche in una violenza, che è a sua volta la fonte ininterrotta del dolore che avvolge così le sue tragiche spirali in una storia umana, ove tutti e nessuno sono colpevoli; perché tutti sono, almeno nel pensiero, almeno nell’Inconscio (come mi mostrano i sogni degli innocenti) facitori di male; e nessuno, poiché ogni facitore è in fondo , entro il suo terribile destino, una vittima.
Ecco allora il senso di un pensiero metafisico, per il quale Cristo, l’aspetto o la persona di Dio particolarmente rivolta al dolore umano, esiste ab initio e ancor prima di esso, quasi come la misericordia prefiguratasi prima della storia.
Un Dio di misericordia che non poteva essere la misericordia senza offrirsi anch’Egli al dolore; un Dio che possiamo anche concepire come Creatore, se aggiungiamo a questo pensiero l’altro, che il dolore faceva parte della creazione, e non era semplicemente la conseguenza del peccato. Dico "faceva parte" poiché la creazione o nascita dell’individuo vivente significa anche la nascita di un limite, e perciò anche della sofferenza imposta da tale limite.
Il dolore dell’uomo, in questa visione metafisica, è anche il dolore di Dio prima della sua croce, il dolore di dover creare per poter amare. Che l’amore non sarebbe veramente possibile senza la pietà, la misericordia, e questa senza il dolore.
In un discorso successivo alla guerra mondiale del secolo scorso il filosofo ebreo Hans Jonas ebbe a dire, "con timore e tremore", che il concetto di Dio dopo Auschwitz si trasforma: non è possibile, per ogni ebreo, rinunziare alla fede in una Bontà assoluta; ma di fronte al silenzio di Dio nell’inferno innocente di Auschwitz, bisogna rinunziare all’attributo dato dagli ebrei a Dio come "Herr der Gschichte" (= il Signore della Storia); bisogna pervenire a conclusioni opposte a quelle del libro di Giobbe, che sono un inno all’onnipotenza di Dio.
Io scrivo queste pagine ponendomi al di là del Credo, perché desidero essere coi miei pazienti, anche se essi non credono.
Ma credo di trovare una risposta al problema del male, sia che essi credono o non credono. All’interno della fede non è necessario il "timore e tremore" di Hans Jonas; basta il pensiero che il male è una conseguenza del dolore, che il dolore è una dimensione tragica e costitutiva della creazione, e che esso è perciò il Dolore di Dio, il quale soffre in tutti i martiri di Auschwitz amandoli perciò immensamente di più di quanto essi non possono amarsi.
Ma anche per chi non crede, il mio pensiero, che il dolore sta prima del male, alla sua radice, è significativo.
Immaginiamo una natura cieca, che diviene cosciente di sé nel corso dell’evoluzione, attraverso la nascita dell’uomo: è qui che la "volontà di vivere" si rende conto della tragedia della sua esistenza, che consiste nel sacrificare gli altri all’interesse dell’individuo, e sacrificare l’individuo all’interesse della sopravvivenza della specie ed assurge così alla coscienza della colpa, al dolore, alla "pena di esser così" (Pirandello), e perciò anche alla sua dignità esistenziale.


(*) Denn wir leben nicht in einer alltaglichen Zeit, in der normale Mensch im Zuge alltaglicher Verhaltungsweisen an sein Ziel zu Kommen pflegt, sondern wir leben in einer escathologischen Zeit, in der uber Nacht das Ausserste an einen jeden von uns herantreten kann, sowie an alle die Juden herantrant, die eines Tages aus ihren Hausern gezerrt wurden. Wohin in der Welt wir heute auch blicken, uberall treffen wir auf Menschen, an die Frage des Martyriums herangetreten ist…"