Una prima lettura di Deus caritas est

1. Dio è amore. Nell’affrontare una prima lettura dell’enciclica di Benedetto XVI, forse sarebbe meglio parlare della charitas in latino più che della carità in italiano, per evitare il rischio che la ricchezza teorica dell’enciclica venga appiattita sulla dimensione esclusiva dell’attività caritativa cristiana. La portata dell’enciclica, in effetti, è molto più vasta e tocca il centro stesso della fede cristiana, che poggia sul dialogo di amore tra Dio e l’uomo. La prima cosa che bisogna mettere in evidenza, perciò, nel presentare il senso profondo della charitas, è che la sua ultima essenza si identifica con Dio stesso. "Dio è amore" (1Gv 4, 16), scrive San Giovanni; "Dio è il Dio dell’amore", ripete San Paolo (2Cor 13, 11). Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo è un Dio vivente, che ha amato fino alla morte. Solo un Dio vivente che ha assunto un volto e un cuore umani può lasciarsi incontrare dall’uomo. Nella preoccupazione di Benedetto XVI di presentare il volto umano di Dio si scorge la sua remota formazione agostiniana. Con S. Agostino, infatti, l’antropologia diventa il filtro di ogni discorso: tutto passa attraverso l’uomo; anche per arrivare a Dio la strada da percorrere rimane sempre l’uomo. Secondo la famosa interiorità agostiniana, per trovare Dio, non occorre uscire da se stessi, ma piuttosto entrare in se stessi. Prima di Agostino, la principale similitudine adoperata per spiegare in qualche modo la vita intratrinitaria era la creazione del cosmo da parte di Dio: la luce con lo splendore e il raggio, il fuoco con la fiamma e il calore, l’acqua con il fiume e la foce, l’albero con la radice e il frutto. A partire da Agostino, questo modello cosmologico è sostituito da un modello antropologico. Per intendere la vita intradivina, all’universo esteriore della natura si preferisce l’universo interiore dell’uomo. L’"io" divino è raffigurato, analogicamente, a partire dall’"io" umano e questa raffigurazione crea un circolo ermeneutico di profonda valenza teologica. Per capire l’essere personale dell’uomo bisogna partire dall’essere personale di Dio, per il semplice fatto che l’esperienza di Dio è più determinate per capire l’esperienza dell’uomo di quanto l’esperienza dell’uomo non lo sia per capire la natura di Dio Uno e Trino.

In ultima analisi, la strada per "incontrare" Dio nella vita non è certamente costituita dai pur necessari concetti teologici o dalle pur utili formule dogmatiche. Il tentativo di incontrare e pensare Dio solo per mezzo delle formule equivarrebbe più o meno al tentativo di capire una parola, analizzando l'inchiostro con cui è scritta. Dio è molto più che una definizione; va ben oltre la grammatica delle parole e dei concetti. Dio lo si trova nell'esperienza di un incontro, come è attestato dalla stessa Scrittura, la quale, più che fare un discorso su Dio, racconta la storia di una presenza e di un'opera di Dio e di una sua relativa esperienza. Conseguentemente, Dio non è un concetto da capire, ma una realtà da vivere ed un'esperienza da fare. E’ possibile e anche doveroso concepire Dio, a condizione che si segua come via privilegiata per giungere ad un tale concetto non la comprensione ma l'esperienza. E' significativo, per esempio, a tale riguardo, che la trilogia trinitaria delle encicliche woitylane non nomini mai la Trinità con il nome di Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito, ma ne descriva invece la relativa azione storico-salvifica attraverso la quale noi facciamo esperienza della sua presenza e della sua esistenza in tre distinte persone divine. Per cui, la Redemptor Hominis descrive l'azione del Figlio come redenzione, la Dives in misericordia descrive l'azione del Padre come un intervento di misericordia, la Dominun et Vivificantem descrive l'azione dello Spirito Santo come vita. La Trinità in se stessa, dunque, come per il noto assioma rahneriano, la conosciamo attraverso la Trinità che opera nella storia della salvezza. Il Dio padre in se stesso lo conosciamo attraverso la sua opera di padre nella storia della salvezza. Non è difficile constatare che l’approccio a Dio, talvolta o anche spesso, viene da molti configurato per mezzo della "sola razionalità neutra" (Benedetto XVI). Molti cristiani vivono il loro rapporto con Dio solo come l’origine della loro vita fisica, il creatore della loro esistenza terrena, l'orologiaio che ha dato la carica iniziale al corso della loro esistenza, ma non come un padre che si cura di loro e che vive con loro e per loro. Dio sarebbe un Dio dell'inizio del tempo, ma non un Dio della vita presente e futura. Secondo M. Buber, la parola Dio sarebbe la più compromessa di tutte le parole umane, ed essa è stata terribilmente imbrattata, lacerata, strumentalizzata nelle diverse epoche e nelle diverse circostanze, non ultime quelle in cui essa viene usata per giustificare o coprire i più crudeli atti di terrorismo politico. Secondo il filosofo J.L. Marion, essa è diventata impronunciabile, e qualora essa venisse pronunciata finisce sempre per trasformarsi in forme idolatriche inaccetabili. Anche la parola "amore", ricorda Benedetto XVI, oggi è "sciupata, consumata e abusata a tal punto che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure amore è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; non si può semplicemente abbandonarla, ma la si deve riprendere, purificare, e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la vita e portarla sulla retta via".

E' necessario, quindi, scoprire e contemplare il volto umano di Dio. E per fare ciò è necessario, privilegiando l’ordo amoris sull’ordo rationis, avere una idea pura sia dell’amore che di Dio. E’ ancora più necessario, in particolare, avere una idea pura di Dio soprattutto nelle religioni monoteistiche che fanno riferimento ad una rivelazione divina. Infatti, le relative rappresentazioni di queste religioni del dio imperatore di questo mondo, del dio indifferente al dolore e al grido della creatura lacerata, del dio che chiama alla guerra e che si compiace o viene ringraziato per la strage degli innocenti, del dio inteso come mera volontà di potenza, del dio tappabuchi o del deus ex machina, non possono essere volti autentici e veri di Dio.

In definitiva, la concezione di un Dio senza uomo ha condotto alla concezione di un uomo senza Dio. Il Concilio Vaticano II ha cercato di correggere una tale concezione, e, dietro l’autorevole magistero di Paolo VI, che presentò la chiesa come "esperta in umanità", ha collocato l’uomo al centro della sua preoccupazione pastorale. Giovanni Paolo II si è messo sulla scia del Concilio e nella sua prima enciclica ha indicato l’uomo come la via fondamentale della Chiesa. Benedetto XVI, in continuità di magistero e di sollecitudine pastorale, ritiene che le parole giuste da rivolgere all’uomo di oggi siano quelle che danno risalto al Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano. "La parola giusta, ha detto Ferdinand Ebner, è sempre quella pronunciata dall'amore; in essa c'è la forza di spezzare la muraglia cinese. Ogni infelicità umana nel mondo dipende dal fatto che così raramente gli uomini sanno dire la parola giusta. Se lo sapessero si risparmierebbero la miseria e l'atrocità della guerra. Non c'è dolore umano che non possa essere bandito dalla parola giusta e in ogni infelicità della vita non c'è vera consolazione che quella che viene dalla parola giusta...Così parola e amore stanno insieme. La parola senza amore è già un abuso umano del dono divino della parola".

L’amore è la forma suprema di conoscere e comunicare, la quale non si esaurisce nella sola parola, ma si allarga ad una vastissima gestualità simbolica ed affettiva, e si sviluppa e si manifesta nel sentimento, nella contemplazione, nella gratuità. La grammatica dell'amore non è fatta solamente di parole, bensì di gesti concreti di generosità, di altruismo, di dedizione disinteressata all'altro. E' opportuno ricordare che il più grande gesto dell'amore di Dio non è una parola, ma un fatto, come dice San Giovanni: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Dio Padre, dunque, non si è limitato a parlare di suo figlio, a proclamarlo "suo figlio prediletto nel quale si è compiaciuto" (Mt 3,17), ma lo ha consegnato all'umanità con un gesto di amore supremo.

L'amore umano, perciò, entro i limiti di una necessaria analogia espressiva, può diventare il vangelo di Dio e il vangelo su Dio. L'amore umano contribuisce a rendere autentico ogni magistero teologico su Dio, ogni insegnamento tradizionale sulla sua natura. Dio richiede di essere testimoniato e sperimentato con gesti concreti di amore e di affetto, perché l'amore umano è il sacramento dell'amore divino, e dalla comunione delle persone umane si arriva ad evocare la comunione delle persone divine della Trinità. Dio solo è Dio, ma Dio non è solo. E' comunione. Il Dio cristiano, il Dio di Gesù Cristo è Trinità, vale a dire incontro, relazione, dono reciproco. Questa verità sorprendente è stata rivelata da Cristo. Nella religione giudaica era stata oggetto di rivelazione solo l'unicità di Dio, in modo che si poteva pensare che in Dio c'era una sola persona. Nella religione cristiana, invece, l'affermazione di credere in un solo Dio conserva ancora il suo valore, ma assume un nuovo significato, poiché implica la fede in tre persone divine. L'invocazione di Mosè, il grande amico di Dio, affinché il Signore cammini in mezzo al popolo, venga in mezzo alla sua gente, non resti sul monte, guida alta e lontana, ma scenda e si perda in mezzo al popolo (Es 34, 9), traduce esistenzialmente questa fede trinitaria e riassume molto bene il desiderio segreto di ogni cuore. In effetti, Dio è sceso in mezzo al popolo, condivide gioie e sofferenze di ogni uomo, adegua il suo passo al ritmo del passo umano, e richiede di essere accolto e riconosciuto come Dio. Il mondo e l'uomo, divenuti partecipi della vita intratrinitaria mediante l'incarnazione della seconda Persona, sono diventati storia della Trinità.

Nei limiti dell’analogia espressiva di cui abbiamo parlato, il matrimonio è il simbolo dell’amore umano tra i più efficaci per evocare il mistero dell’amore divino, perché l’amore tra l’uomo e la donna viene ritenuto da Benedetto XVI "l’archetipo" di ogni altro amore. Nel matrimonio, "avviene che l’eros si trasforma in agape, che l’amore per l’altro non cerca più se stesso, ma diventa preoccupazione per l’altro, disposizione al sacrificio per lui e apertura anche al dono di una nuova vita umana". Infatti, "la verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell'uomo, ha trovato attuazione nella storia della salvezza, al cui centro sta la parola: "Dio ama il suo popolo". La rivelazione biblica è anzitutto espressione di una storia d'amore, la storia dell'alleanza di Dio con gli uomini: perciò la storia dell'amore e dell'unione di un uomo ed una donna nell'alleanza del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale simbolo della storia della salvezza. Il fatto inesprimibile, il mistero dell'amore di Dio per gli uomini, riceve la sua forma linguistica dal vocabolario del matrimonio e della famiglia, in positivo e in negativo: l'accostarsi di Dio al suo popolo viene presentato infatti nel linguaggio dell'amore sponsale, mentre l'infedeltà di Israele, la sua idolatria, è designata come adulterio e prostituzione. Nel Nuovo Testamento Dio radicalizza il suo amore fino a divenire Egli stesso, nel suo Figlio, carne della nostra carne, vero uomo. In questo modo l'unione di Dio con l'uomo ha assunto la sua forma suprema, irreversibile e definitiva. E così viene tracciata anche per l'amore umano la sua forma definitiva, quel "si" reciproco che non può essere revocato: essa non aliena l'uomo, ma lo libera dalle alienazioni della storia per riportarlo alla verità della creazione. La sacramentalità che il matrimonio assume in Cristo significa dunque che il dono della creazione è stato elevato a grazia di redenzione. La grazia di Cristo non si aggiunge dal di fuori alla natura dell'uomo, non le fa violenza, ma la libera e la restaura proprio nell'innalzarla al di là dei suoi propri confini. E come l'incarnazione del Figlio di Dio rivela il suo vero significato nella croce, così l'amore umano autentico è donazione di sé, non può esistere se vuole sottrarsi alla croce"(Benedetto XVI).

 

2. Il cristiano è chiamato all’amore.

Se Dio è amore, ed in quanto amore anche padre, i cristiani, sono persone che amano, perché sono persone amate, sono dei "diletti di Dio" (Rm 1, 7), amati dal Signore (2Ts 2, 13). Se Dio crea chiamando, i cristiani sono i chi-amati dall’amore di Dio e all’amore di Dio e del prossimo. L’amore a cui è chiamato il cristiano ha una motivazione strettamente teologica, non psicologica e neanche sociologica. Egli ama perché spinto e portato da un amore più grande di lui, che lo ha già potenziato. Come scrive S.Giovanni, "se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri…Noi amiamo, perché egli ci ha amti per primo" (1Gv 4, 11.19). In definitiva, è l’amore di Dio che pone in essere il cristiano. E se Paolo in 1Cor 13, 2 scrive "se non ho l’agape, non sono nulla" (1Cor 13, 2), non si può non pensare anche e prima di tutto all’amore con cui Dio ci ama, a quell’affetto eterno con cui ha avuto pietà di noi, e che chiama all’essere ciò che ancora non è (Rm 4, 17). Questo amore che si dispiega gratuitamente dall’alto come libero traboccamento della pienezza di Dio è quanto di più originale si possa concepire nei confronti dell’ eros greco, che invece è motivato da un vuoto che va riempito. Secondo San Paolo bisogna avere l’amore per essere veramente. La sua dichiarazione "se non si ha l’agape non si è nulla" è ancora più forte di quella di 1Gv 3, 14: "chi non ama rimane nella morte". Amare è uguale ad essere. Chi ama è. Accanto al cogito, ergo sum, di Cartesio, esiste anche un diligo, ergo sum, anzi un diligor, ergo sum, della Rivelazione.

Non solo si deve affermare: "amo, dunque sono". Ma si deve anche precisare: "sono amato, dunque sono". Se poi si tiene conto della qualità relazionale dell’amore, non si può non dire conseguentemente: "amo, dunque siamo". L’amore ha come costitutivo l’interesse dell’altro. San Paolo scrive che l’amore non quaerit quae sua sunt (13, 5b). Perciò, esso non solo dà una consistenza al soggetto che ama, ma dà corpo e rilievo e importanza al termine del suo amore e lo fa esistere in pienezza davanti a sé. Si vede bene che esso suppone un rapporto, ma soprattutto crea una comunione; cioè, vive e prospera, anzi semplicemente esiste in una dimensione comunitaria. Se l’amore è la massima espressione della vita, esso non esiste nemmeno finché non giunge a dimostrarsi in concreto sul piano del vissuto quotidinao. L’ammonimento di 1Gv 3, 18 costituisce sempre una sferzata salutare; "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità". Questa del resto è la legge di Cristo: "portare gli uni i pesi degli altri" (Gal 6, 2). L’immagine cristiana di Dio rivela che l’uomo è creato per amare e che questo amore che inizialmente appare soprattutto come eros tra uomo e donna, si trasforma poi interiormente in agape, in dono di sé all’altro. La dimensione individuale dell’eros si allarga a diventare corresponsabilità per il destino della società.

Non va dimenticato, tuttavia, che amare una persona, secondo Dostoewski, vuol dire vederla come Dio l’ha voluta. Una mamma mi ha raccontato che un giorno il suo bimbo di poco più due anni, ancora stropicciandosi gli occhi perché si era appena svegliato, guardò il fratello maggiore, muto, strabico, iposviluppato a causa di una anossia da parto, e lo salutò chiamandolo: "bellezza!". L'aveva sentito chiamare in quel modo dalla nonna, e lo ha ripetuto con tutta la carica della sua innocenza. E' proprio vero che ex ore infantium et lactentium, cioè dalla bocca dei bambini e dei lattanti, escono la lode più pura per Dio, e le parole più vere e consolanti per l'uomo. Anche dietro l'aspetto di una esistenza compromessa, l'occhio del cuore può sempre scorgere la firma di Dio.

 

3. L’amore è unico.

Nel presentare l’uomo quale persona creata e amata da Dio, Benedetto XVI interloquisce in modo particolare sia con due filosofi del mondo occidentale, Nietzsche e Cartesio, che hanno decostruito l’immagine cristiana dell’uomo, il primo denunciando l’alienazione umana prodotta dai valori cristiani di trascendenza e spiritualità, il secondo teorizzando il dualismo ontologico che esalta l’anima e deprime il corpo, sia con Marx, che la cui istanza di rivoluzione ha disumanizzato l’uomo invece che spingerlo alla ricerca di un "mondo migliore". Nella sua spiegazione personale dell’enciclica, Benedetto XVI precisa che l’agape cristiana, cioè l’amore per il prossimo nella sequela di Cristo, non è qualcosa di estraneo, posto accanto o addirittura contro l’eros, ma comprende il sì dell’uomo alla sua corporeità creata da Dio. Ciò significa che la corporeità ricopre una grande importanza nella visione cristiana dell’antropologia, e che l’amore è unico. L’esperienza erotica è unificata all’agape. L’eros non è solo egoismo; l’agape non è solo altruismo. L'importanza data alla corporeità è dovuta soprattutto al fatto che la salvezza annunziata dal messaggio cristiano è una salvezza "incarnata". Essa si manifesta specificamente come salvezza che si attua attraverso il corpo. La bellezza del Dio di Gesù Cristo viene percepita corporalmente, come emerge dal famoso testo delle Confessioni di S.Agostino: "Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te…Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai anelo verso di te; gustai, e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace"(S. Agostino, Le confessioni, Città Nuova, Roma 1965, 333).

Secondo l'espressione del vangelo di Giovanni, il Figlio di Dio ha assunto una carne, "il Verbo si è fatto carne", e il cuore dell'evento di Cristo è riassunto nel mistero dell'Incarnazione, tanto da far dire a Tertullinao che caro salutis est cardo: la carne è il cardine della salvezza (De carnis resurrectione, 8). L'espressione "incarnazione", oltre alla sottolineatura veristica della kenosi di Dio, vuole affermare che Dio è diventato uomo assumendo un corpo umano, per cui il processo dell'incarnazione corrisponde al processo dell'umanazione. Ciò sottolinea il fatto che Gesù ha operato la salvezza e la redenzione nella carne, che gli uomini sono stati giustificati nel sangue e dal sangue di Cristo, che la Chiesa ha una venerazione per il preziosissimo sangue di Cristo. La carne è la "parte" che simboleggia il "tutto" del corpo. Per questo, si dice che l’obbedienza redentrice del figlio Gesù di fronte al Padre si è realizzata nell'offerta del suo corpo. La comunione di grazia ristabilita con il sacrificio del suo corpo è riversata nei cuori dei cristiani. Essa, quindi, ha inizio "in quella profondità radicale della soggettività umana che dapprima ricerca e finalmente possiede se stessa nella sua continua obiettivazione corporeo-terrestre." Il piano di salvezza presentato da Gesù nella sua predicazione del Regno non è puramente spirituale, bensì umano, cioè, spirituale e materiale insieme. Infatti, nella seconda e nella terza beatitudine di Luca si proclamano beati coloro che hanno fame, perché saranno saziati e coloro che piangono, perché saranno consolati (Lc 6, 21). E nella seconda parte del Padre Nostro si ripetono le richieste spirituali e materiali che costituiscono i beni del Regno che sta per venire.

Per la Bibbia, che ignora la radicale "spiritualità" greca detestatrice della materialità, il corpo è l'espressione della realtà della persona, è la nostra identità psico-fisica e della nostra comunicazione. Il Cantico dei Cantici, indicato da Benedetto XVI come inizio di un cammino di ascesa e di purificazione dell’eros, è l’esaltazione del corpo, descritta dalla sposa per il suo sposo e dallo sposo per la sua sposa, di modo che tale esaltazione sia sempre quella del corpo dell’altro. Inizia la descrizione del corpo della sposa nelle parole dello sposo: "Come sono belli i tuoi piedi nei sandali figlia di principe, le curve dei tuoi fianchi sono come monili opera di mano d’artista, il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai divino drogato, il tuo ventre è un mucchio di grano circondato da gigli, i tuoi seni come due cerbiatti gemelli di gazzella, il tuo collo è come una torre d’avorio. Quanto sei bella e quanto sei graziosa o amore mio. La tua statura rassomiglia a una palma, i tuoi seni a grappoli". Fa eco la descrizione dello sposo nelle parole della sposa: "il suo corpo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma neri come il corvo, i suoi occhi come colombe su ruscelli di acqua, i suoi denti bagnati nel latte posti in un castone, le sue guance come aiuole di balsamo, aiuole d erbe profumate, le sue labbra sono gigli che stillano fluida mirra, le sue mani sono anelli d’oro incastonate in gemme di Tarsis, il suo petto è tutto d’avorio tempestato di zaffiri, le sue gambe colonne di alabastro posate su basi di oro puro, il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri, dolcezza il suo palato" (vv.4-5).

Per l'uomo della Bibbia, dunque, non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, e questo corpo esprime la bellezza e la perfezione dell’opera divina. E' in questa luce, allora, che i sensi non si riducono a organi e a sensazioni ma diventano messaggio ed epifania sperimentabile dello spirito: la vista può diventare contemplazione, l'udito si fa adesione partecipe, l'olfatto scopre l'odore di santità, il gusto può rivelare la sobria ebbrezza dell'anima e il tatto è il suggello di questa religiosità dell'Incarnazione come scriveva San Giovanni nella sua prima lettera: "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita...noi lo annunziamo a voi". L'antropologia biblica, veterotestamentaria e neotestamentaria, ha offerto tutto un ricco alfabeto di simboli e di gesti, che ha assegnato alle parti del corpo una molteplicità di significati e di funzioni. Un organo del corpo come la mano, per esempio, è quello tra i più citati dalla Bibbia (più di millecinquecento volte). In un linguaggio ancora oggi familiare alle culture del bacino del mediterraneo, il tatto esprime l'atto creatore, la forza, la tenerezza di Dio e lo slancio dell'uomo, la misericordia, il perdono, la compassione. Dio tocca la bocca del profeta Geremia, prima di affidargli la sua missione (Ger 1, 9-10). Un angelo del Signore tocca Elia, quando è ormai allo stremo delle forze, e gli ordina di mangiare (IRe 19, 4-6). Un altro angelo tocca la bocca di Isaia, e, con quel gesto, cancella l'iniquità e il peccato di colui che è stato scelto come profeta (Is 6, 6). Allo stesso modo, un angelo in sembianze di uomo tocca le labbra di Daniele, prostrato da una lunga penitenza, e gli rende le forze (Dn 10, 16-19). Dunque, l'antropologia biblica veterotestamentaria ricorre al significato di questi gesti "corporali" per esprimere il concetto di purificare, infondere sicurezza, dare coraggio. Nel Nuovo Testamento, il verbo "toccare" ricorre più di trenta volte, soprattutto nei racconti di guarigione. Gesù stende la mano e tocca un lebbroso, e, al suo gesto, scompare la lebbra (Mt 8, 1-4). Poi tocca la suocera di Pietro, ed essa si alza e si pone a servirlo (Mt, 8, 14-15). Allo stesso modo, egli guarisce l'emorroissa, che aveva toccato il lembo del suo mantello (Mc 5, 25-34). Prende la mano della figlia di Giairo, e le ridà la vita (Mc 5, 35-43). Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 19). In tutti questi racconti di guarigione, il tatto si fa gesto sacramentale, segno di misericordia, di benevolenza, di tenerezza. Esso è testimonianza di ciò che i Padri della Chiesa di Oriente chiamano "divina filantropia", l'amore infinito di Dio per gli uomini. Il significato salvifico e sacramentale del gesto corporeo non è annullato da quei casi in cui il toccare è segno di poca fede, di incredulità, come nella scena del dubbio di Tommaso (Gv 20, 24-29). Questo fatto mette in evidenza che il tatto non sfugge alla regola degli altri sensi, al contraddittorio richiamo dell'alto e del basso, dello spirituale e del materiale, del cielo e della terra.

La ricca e complessa antropologia biblica, in ultima analisi, fa vedere come solo nella condizione di incorporazione la salvezza possa essere ciò a cui è stata originariamente destinata, cioè nuova creazione dell'uomo uno e integrale. Proprio per questo, la corporeità non è soltanto una condizione provvisoria dell'uomo, ma è qualcosa di permanente, seppure con l'acquisizione di modalità diversa di esistenza. L'aspettativa escatologica della salvezza è orientata ad un perfezionamento dell'uomo uno e completo, che si raggiunge per mezzo della risurrezione della carne. Nell'evento della risurrezione, il corpo umano diventa luogo della rivelazione totale e dell'attualità piena della salvezza, che s'è venuta maturando sulla terra, e nella quale si esprimerà definitivamente l'amore di Dio.

IGNAZIO SANNA