Luigi Alici
Collevalenza, giovedì 17 novembre 2005
Attualità della "Dives in misericordia"
Introduzione
Sono veramente contento di incontrare in questo luogo (che è molto più di uno spazio geografico) tutti voi e all’interno di una iniziativa che mi riporta indietro negli anni, quando iniziò un ciclo di Convegni sulla "Dives in Misericordia", che hanno, in un certo senso, segnato anche la mia formazione, perché mi hanno costretto a prendere in mano, meditare e riflettere un testo che è stato donato alla Chiesa e al mondo, e che ancora oggi continua, come un seme buono, a fruttificare in silenzio.
Mi è stata chiesta una riflessione non facile; non è facile, infatti, fare dei bilanci quando manca una necessaria distanza critica e, nello stesso tempo, quando i fattori da tenere presenti sono molti e sfuggenti.
Proverò in maniera molto semplice - e sicuramente inferiore alle attese - a portare una testimonianza personale di chi ha vissuto questi anni, nei quali è passata molta acqua sotto i ponti, non soltanto della Chiesa, ma anche della società. Rileggere oggi la seconda Enciclica di Giovanni Paolo II è un esercizio veramente interessante, che ci consente di riconoscere meglio gli aspetti profetici che erano racchiusi in quella lettera e che, per altri versi, la Famiglia dell’Amore Misericordioso già aveva incominciato a sperimentare dietro l’intuizione straordinaria di Madre Speranza.
Gli spunti alla riflessione comune che mi riuscirà di offrire sono sicuramente acerbi e meriterebbero un approfondimento; riflettere insieme su questo tema, sicuramente più grande di tutti noi, è un esercizio di discernimento ecclesiale e culturale molto prezioso.
1. Creazione e redenzione
Partirei da uno spunto che troviamo nella lettera con la quale Giovanni Paolo II ha rilanciato, alla chiusura del Giubileo la, grande missione evangelizzatrice della Chiesa: la "Novo millenio ineunte", dove il Papa usa un’espressione suggestiva, anche molto intensa, parlando di Gesù Cristo come della grande "sorpresa di Dio"; una sorpresa che rivela il carattere inaudito e creativo dell’amore del Padre. Rispetto alle defaillances dei suoi figli, Egli non fa un passo indietro verso la sanzione, ma fa un passo avanti verso la misericordia e, in questo modo, fa una grande "sorpresa" agli uomini che rischiavano di implodere sotto la Torre di Babele, un grande dono di misericordia e di salvezza.
Nella "Novo millenio ineunte", come anche in molte delle Encicliche che Giovanni Paolo II ci ha lasciato, ritorna questo tema poi ripreso, con alcune espressioni sobrie ed attente, Papa Benedetto. In maniera particolare nel suo discorso a Colonia, Papa Benedetto ha invitato a guardare al mistero della rivelazione cristiana nella sua complessità ed ha usato questa espressione: «creazione e redenzione vanno insieme».
In quale misura queste parole possono essere messe in relazione con le parole di Papa Giovanni Paolo II? La grande "sorpresa di Dio" era in realtà una sorpresa attesa: questo è un grande paradosso, perché quando qualcuno ci fa un’improvvisata, a volte senza che noi ne siamo veramente consapevoli, ci viene a restituire quello di cui sciaguratamente ci siamo privati. In questo senso, quindi, la sorpresa corrisponde ad un’attesa, anche se inconsapevole. È proprio il caso della redenzione: Cristo ci restituisce in pienezza quello di cui abbiamo bisogno - e quindi aspettiamo - ridonandocelo in sovrappiù con una misura che è sconfinata.
Creazione e redenzione, dunque, vanno insieme. Nel momento in cui il Figlio ricostituisce un’alleanza che era stata ferita, in maniera unilaterale, egli riapre il cuore dell’uomo e la spinta del desiderio dell’uomo, inscritto per così dire nel nostro codice genetico. Noi siamo stati costituiti come creature e l’atto che costituisce l’identità di ognuno di noi, e dell’umanità nel suo complesso, è un atto che segna in profondo questa umanità. L’umanità è segnata dall’impronta creaturale di Dio. Quando questa impronta diventa opaca e non è più leggibile, allora la redenzione assume il carattere di una seconda creazione, che non dobbiamo intendere come un evento che cade dall’esterno su un mondo neutro, o peggio negativo, ma come un evento che risponde ad un bisogno mortificato, presente all’interno della storia.
Questo passaggio è molto importante: riconoscere che la sorpresa è una sorpresa attesa, che la redenzione non sta senza la creazione, che cioè io sono costituito, in tutto quello che sono, come un essere che inclina in una direzione verso la quale non sono più in grado di andare con le mie forze; quindi se viene qualcuno che mi restituisce le forze per andare nella direzione verso la quale dovrei andare, questo evento va letto in continuità con il precedente.
Non stiamo andando fuori tema: tutta la prima parte della "Dives in Misericordia" insiste su questo aspetto, sulla dimensione divina e umana della misericordia, cioè sul fatto che la misericordia indica le potenzialità dell’amore che non si ferma dinanzi al male, non si arresta dinanzi allo scandalo del negativo, non fa un passo indietro, non si riprende i suoi doni, ma fa un passo avanti. E questo passo avanti risponde ad un bisogno umano, ma è possibile grazie ad un dono che è molto più che umano.
Tutta la prima parte di "Dives in Misericordia" richiama il dibattito (che è stato molto forte nella Chiesa post-conciliare) tra antropocentrismo e teocentrismo, di cui noi oggi troviamo dei riflessi nel dibattito, soprattutto italiano e francese, sulla laicità, che è precisamente l’equivalente politico della questione che in realtà era stata anche già anticipata ed impostata nella "Dives in Misericordia".
Proviamo a tradurlo nei termini più semplici possibili.
L’uomo che riflette su se stesso, si trova davanti, per così dire, due strade: o cercare dentro le fibre del proprio essere le radici di quella spinta in avanti, oppure, proprio nel cercare le radici di quella spinta in avanti, è invitato ad andare ancor più in profondità, ad aprirsi all’Altro che possiamo scrivere con la lettera maiuscola, ma che non è un altro nel senso dell’estraneità, perché è Colui che mi ha costituito.
Sant’ Agostino usa un’espressione intensa e suggestiva, che è anche una forzatura della lingua latina: "Interior intimo meo". Se scendo dentro di me (ed interior è il comparativo dell’avverbio intra), trovo ad un primo stadio il mio vissuto, le mie emozioni, le scelte che ho fatto, insomma la storia della mia vita; a questo livello posso riconoscermi in quella specie di "cabina di regia" dalla quale sono partite tutte le scelte che mi hanno fatto fare le cose che ho fatto nel corso della mia vita. Ma questo livello potrebbe non essere il più profondo; proviamo allora ad andare "ancora più dentro". Il comparativo di intra è interior, ma se proviamo a scendere ancora di più, raggiungiamo il superlativo e il superlativo di interior è intimus. Dunque se raggiungo la radice più profonda di quello che io sono, lì incontro un Altro; ma, considerato che quest’Altro è la radice più profonda di quello che io sono, Egli non è veramente un altro, nel senso di un estraneo, ma è Colui che mi sostiene in mano e mi fa essere quello che sono Interior intimo meo.
Dunque oltre il superlativo c’è ancora un comparativo: Interior intimo. Questo vuol dire mettere insieme antropocentrismo e geocentrismo:la rivendicazione umana della mia identità e l’incontro con Dio non sono due vie diverse, che la cultura moderna ha spesso inteso come antitetiche; non sono infatti due vie antitetiche, se Dio non lo considero un essere esterno che dal di fuori piomba su una storia che gli è estranea. No, la redenzione e la creazione vanno insieme. Quindi Colui che viene a salvarmi è anche Colui che mi ha costituito; in questo modo la spinta del desiderio dell’uomo viene, per così dire, liberata: Gesù Cristo è una sorpresa, ma è nello stesso tempo una sorpresa attesa.
La misericordia coglie molto bene questo intreccio. Perché? Perché esprime un rapporto immediato della persona umana con la fonte di senso della sua vita. Noi possiamo interpretare le scelte che facciamo, organizzare la vita politica, impostare la ricerca scientifica, attraverso una serie di strumenti razionali, di pratiche deliberative, di scelte contrattate; però, prima di tutto questo, c’è un imprinting che mi porta a riconoscere il misero, il debole, il povero come legato a me da un rapporto originario, tale per cui il momento della necessità, dell’incontro, dell’amicizia, della cooperazione precede tutti i ragionamenti. Il misero resta bisognoso del mio aiuto, anche se non ha le mie stesse idee politiche, anche se è di un’altra religione, se professa filosofie diverse. Quindi, da un certo punto di vista, l’amore e la misericordia colgono l’identità umana nelle sue radici originarie, ad un livello ancor più originario rispetto alle differenze di cultura, di colore della pelle, lingua, razza ecc.
Da un certo punto di vista è così, però, da un altro punto di vista, se non riportiamo questa spinta al dono gratuito della misericordia divina, nella misericordia umana resta qualcosa di enigmatico, di fragile, di impotente. Ecco, la spinta teocentrica e la spinta antropocentrica sono legate insieme; quindi quando il cristiano annuncia la misericordia, parla un linguaggio che tutti possono capire, che tocca il cuore più profondo di ogni creatura. Quel cuore, in quanto è il cuore di una creatura, a prescindere dalla sua confessione religiosa o dalle idee che egli professa, rappresenta la sua identità primaria. L’amore che non si impaurisce dinanzi al male, che non fa un passo indietro dinanzi al male, ma fa un passo avanti verso la misericordia, è una cifra fondamentale dell’umano e nello stesso tempo è una cifra fondamentale del divino. Questo è il grande mistero cristiano: nel segno della misericordia umano e divino si toccano.
I credenti non si debbono "abituare" troppo a questa verità, perché a volte, oggi, rischiano di addormentarsi su un cristianesimo indolore ed addomesticato, abituandosi a questo mistero inaudito, che è il mistero sconvolgente dell’Amore di Dio spinto fino alla Misericordia. Non possiamo smettere di meravigliarci di questo. Se oggi la Comunità cristiana evangelizza poco, probabilmente è perché si è abituata troppo a questo enigma straordinario, e chi si abitua troppo all’amore non ama più, cioè vive un processo di inerzia; è questo lo stesso processo di apatia (cioè di mancanza di passione) che porta due persone, che hanno scommesso di condurre una vita insieme e di sposarsi, a dire dopo un po’ di tempo: "Non abbiamo più niente da dirci", mentre, lo sappiamo, l’amore autentico è quello che dice sempre e non ripete mai.
Probabilmente ci siamo un po’ troppo abituati a questo tema della misericordia e ne abbiamo fatto un concetto accanto ad altri, lo annunciamo ai nostri figli come se fosse una ovvietà, una banalità; una delle caratteristiche del nostro tempo contro le quali dobbiamo ribellarci è proprio la banalità. L’avversario frontale del cristianesimo nell’epoca illuministica è stato l’ateismo; oggi potremmo dire che la cifra diabolica del post-moderno è la banalità, cioè la possibilità di accogliere, nel grande supermarket delle idee che circolano e che i mass-media rilanciano continuamente, tutte le idee purché vengano deprivate di qualsiasi carica rivoluzionaria. Devono essere piccole pillole simboliche di consumo, compatibili con altre.
Papa Benedetto nell’omelia della domenica a Colonia ha usato un’espressione veramente forte, che va proprio in questa direzione: ha parlato dell’Eucarestia, del dono Eucaristico, come il dono grazie al quale la morte è vinta attraverso la resurrezione, quindi come il passo in avanti dell’amore che vince il male. Benedetto XVI ha usato un’espressione che non possiamo intendere come una metafora; ha parlato di una «fissione nucleare portata nel più profondo dell’essere». Dunque l’amore che sconfigge la morte è letteralmente come una bomba atomica e, come ogni bomba atomica che si rispetti, produce una reazione a catena, il cui termine finale saranno i cieli nuovi e la terra nuova. Il problema è se noi cristiani ci lasciamo investire da questa onda d’urto o se, quando essa arriva, ci facciamo da parte e continuiamo a celebrare e ad annunziare un cristianesimo pallido ed illanguidito dalla routine, una sorta di galateo indolore che non appassiona nessuno, meno che mai i nostri figli.
Da qui la necessità di fare i conti con il mistero cristiano in cui l'umano e il divino stanno insieme, la creazione e la redenzione stanno insieme, l’antropocentrismo e il teocentrismo stanno insieme. Per questo, quando parliamo della misericordia, comunichiamo una verità che il cuore dell’uomo comprende subito; eppure, rispetto a quello che ogni uomo è in grado di comprendere immediatamente, c’è un’eccedenza infinita che è custodita nel cuore stesso della "buona notizia" del Vangelo: è questo il grande mistero affidato alla Chiesa, che la Comunità cristiana deve evitare di trasformare, appunto, in un’idea sbiadita ed indolore, che non mette in discussione la nostra vita.
2. Individuo e comunità
A partire da questa considerazione di fondo, possono discendere considerazioni complementari e possiamo chiederci, in tempo di bilanci, cosa è accaduto in questi anni. Dal punto di vista storico-culturale mi limiterei a segnalare due date, che hanno immediatamente un valore simbolico: 1989 e 2001. La prima è una data che ha un valore simbolico; sappiamo che gli storici hanno bisogno di simboli, ed allora potremmo anche metterla in relazione con il 1789, l’anno della Rivoluzione francese, che esplode con la presa della Bastiglia. Il 1989, invece, è l’anno del crollo del muro di Berlino. In un certo senso tra queste due date si racchiude il progetto illuminista di conquista della storia attraverso la ragione; un progetto che prometteva di secolarizzare la salvezza cristiana, cioè di tradurla in un messaggio politico, in nome del quale si potevano fare le barricate, si poteva predicare la rivoluzione, si poteva annunciare una salvezza tutta mondana. Il 1989, in un certo senso, segna simbolicamente la fine di questo progetto di liberazione secolare.
Il Papa, lo sappiamo, ha scritto un’Enciclica dedicata in maniera particolare ai fatti dell’’89, che meritano una grande riflessione. Perché? Perché quell’anno rappresenta il crollo non soltanto del marxismo e del comunismo, ma anche di un’idea salvifica della politica. E’ crollata l’illusione utopica di chiedere alla politica di darci la felicità.
Ecco, in un certo senso, è crollato questo. Ma quando crollano i muri, a volte crollano anche pezzi di un edificio che sarebbe meglio che rimanessero in piedi. Infatti in mezzo alle macerie del crollo del muro di Berlino rischia di essere travolta anche un’idea buona della politica, una idea della politica come edificazione del bene comune al servizio della comunità. Il risultato di questo crollo (anche se ovviamente il processo è molto complesso e viene da molto lontano) sembrerebbe aver legittimato una ideologia di tipo individualistico, secondo la quale - questo è il punto che forse merita di essere esaminato con attenzione - caduto il marxismo, cade anche la convinzione che le persone possano avere qualcosa in comune tra di loro.
In un certo senso con il muro di Berlino ha cominciato a cadere anche questa idea positiva che la relazione tra le persone possa essere un elemento che contribuisce ad identificare le persone stesse. Da qui quella deriva libertaria con la quale stiamo facendo i conti ogni giorno e che ci sta portando verso una società di tipo facoltativo. I referendum sulla procreazione assistita ed i passaggi successivi che ci aspetteranno - sull’eutanasia, sulla liberalizzazione delle droghe, sulla omosessualità, - si fondano tutti su questo assioma libertario semplicissimo: "Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?" Tale assioma nasce dal presupposto che tra me e te non abbiamo niente in comune, quindi non c’è bisogno di una forma politica che protegga la relazione tra le persone; di conseguenza tutti i legami sociali, di solito protetti da una carta costituzionale, tendono ad essere progressivamente spostati nel paniere delle opzioni facoltative.
Se tu vuoi sposarti solo con una donna, nessuno te lo impedisce, ma perché devi impedire che due uomini, o due donne, abbiano dinanzi alla società gli stessi diritti e gli stessi doveri che avete voi due? Perché impedire ad un malato terminale, se chiede di staccargli la spina, che il medico lo faccia? Se si fa una legge ad hoc, questa legge non costringerà nessuno. Ecco il sofisma libertario.
Qui entra in gioco l’idea che la relazione tra le persone è buona solo se è scelta liberamente. Ora noi sappiamo che non tutte le relazioni che abbiamo tra di noi sono buone solo per il fatto che sono libere. Certo, io ho una libera relazione di amicizia con alcune persone e questa è sicuramente una relazione buona, ma potrei altrettanto liberamente decidere di entrare in una associazione mafiosa; per il fatto che lo scelgo liberamente, non è detto che quella relazione sia buona. Ma si può dire anche il contrario: non tutte le relazioni che io non scelgo sono cattive solo per il fatto che non le ho scelte; io non ho scelto i miei genitori, non ho scelto di nascere in Italia, non ho scelto la Costituzione Italiana, il sistema scolastico e il sistema sanitario nazionale. Se progressivamente si fa strada la convinzione che le relazioni tra me e l’altro siano buone solo nella misura in cui sono il risultato di una mia preferenza, qui si consolida una grande confusione tra la bontà della relazione e la libertà della scelta.
Il 2001 è un’altra data, che in un certo senso potremmo mettere accanto al 1989, una data che, in un certo senso, introduce nel mondo una variabile di tipo diverso, il tema del terrorismo, di un particolare terrorismo. Non dimentichiamo che la prima espressione di tutti i proclami dello Sceicco del terrore è la seguente: «In nome di Dio misericordioso». Il terrorismo fa esplodere, in un certo senso, l’altra faccia della medaglia; il problema del legame tra le persone ritorna, perché si rovescia l’ottica libertaria: il legame identitario tra le persone non solo non è alienante, ma deve essere protetto con tutti i mezzi, anche con la forza, addirittura con la violenza. Certo, questo rappresenta una sfida per i cristiani, perché ci dovremmo subito chiedere: "Dio ha creato la singola persona o anche la relazione tra le persone? Gesù Cristo ha redento le singole persone o anche la relazione tra le persone? La Chiesa evangelizza la singola persona o anche la relazione tra le persone?".
E il legame buono che esprime la relazione tra le persone, secondo la logica evangelica, è il legame oblativo del dono, dell’amore, della carità che nel mistero cristiano raggiunge il suo vertice nella misericordia. Oggi questa difficoltà di riconoscere il valore dei legami originari tra le persone corrisponde alla difficoltà culturale di riconoscere, a livello pubblico, il valore dell’amore e della misericordia. In questo arco di tempo racchiuso tra il 1989 e il 2001, se prendiamo le due date in senso simbolico, si è sviluppato un dibattito culturale interessante proprio sui legami che dovrebbero essere posti alla base della convivenza, e si sono confrontate fondamentalmente due posizioni: una la posizione tradizionale del liberalismo, secondo la quale in una società multiculturale e multietnica lo Stato, le strutture politiche debbono essere - e diventare sempre più - sottili e neutrali. L’individuo è il centro, è il soggetto dei propri bisogni e nessuna autorità superiore può arrogarsi il diritto di controllare l’esercizio dei suoi bisogni; l’unico valore che giustifica l’autorità politica è rappresentato da una legge che consenta ad ognuno di noi di gestire i nostri bisogni e di non farci male l’uno con l’altro. Progressivamente, in una società fatta di tante tribù culturali, religiose, lo Stato deve chiudere gli occhi, alzare le mani, limitarsi a diventare sempre più arbitro.
L’altro orientamento, che si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti ad opera di autori anche cattolici, interpreta, invece, la questione della convivenza in termini diversi. Secondo questo filone, chiamato del comunitarismo, proprio perché viviamo in una società multiculturale, in cui il musulmano vive accanto al cristiano, il negro accanto all’uomo di pelle bianca, l’uomo di destra accanto all’uomo di sinistra, se la società non vuole raggiungere livelli preoccupanti di anarchia deve preservare e riconoscere degli spazi comuni, all’interno dei quali ogni individuo possa vivere la sua identità comunitaria. Io non posso vivere la mia vita se nessuno mi consente di vivere delle relazioni positive. Da questo punto di vista si è sviluppato un dibattito interessante, che recupera ad esempio il tema del dono, prima di tutto nell’ambito dei sociologi, degli economisti e poi anche dei filosofi. In altri termini, ci si rende conto che una società fondata unicamente sul principio dello scambio, della competizione, alla fine genera uno spazio invivibile, una forma di violenza strisciante e basta poco perché questa violenza si possa scatenare.
Non dobbiamo fare un grande esercizio di fantasia: pensiamo alla Francia, dove è bastato un innesco minimo e la deflagrazione che si è prodotta è stata di gran lunga più drammatica del cerino che l'ha originata. Pensiamo anche a quello che è accaduto a New Orleans, dove dopo il cataclisma naturale è bastato che mancasse la polizia per dodici ore perché si scatenasse la forma peggiore di guerra tra bande, non assimilabile nemmeno al peggiore Far West. Se in un nazione di sedimentata tradizione cattolica il terremoto fa scattare la solidarietà e in un altro paese fa scattare la guerra, è segno che i legami sociali sono vissuti in modo diverso.
Conclusione
Provo allora a concludere. A distanza di venticinque anni, il vero problema, che oggi ci troviamo a fronteggiare, confrontandoci con l’Enciclica, è questo: nei legami di convivenza nella società si sono, per così dire, radicalizzati due modi diversi di intendere i rapporti tra le persone.
Da una parte si è cercato progressivamente, soprattutto nei più giovani, di riconoscere come autentici solo i rapporti corti, diretti, immediati, in cui io ti incontro, tu mi incontri, ci scegliamo, stiamo bene insieme sulla base di un principio di gratificazione reciproca; da un altra parte, invece, in maniera quasi schizofrenica, si tende a guardare la dimensione dei rapporti lunghi come una dimensione inautentica. Quali sono i rapporti lunghi? Sono i rapporti che ho con gli altri, non in maniera diretta, ma attraverso un’istituzione. Io sono in rapporto con tutti i battezzati attraverso la Chiesa e nel mistero della Comunione dei Santi non è necessario che conosca personalmente ognuno per ritenermi parte di una comunità. Allo stesso modo, anche se a livello molto diverso, io sono in rapporto con gli altri cittadini italiani, perché c’è un’istituzione imparziale, che al disopra di me e di te, garantisce a me e a te gli stessi diritti, e non li garantisce perché mi conosce, ma perché è imparziale, perché è fondata sul principio di giustizia, che è come una dea bendata che mette tutti sullo stesso piano.
Ecco progressivamente, noi oggi viviamo una tendenza a delegittimare i rapporti lunghi, a ritenerli inautentici, a viverli con un atteggiamento di prevalente utilitarismo e a riconoscere come positivi e come gratificanti i rapporti corti; questo, spesso, anche da un punto di vista religioso: si sta bene nel piccolo gruppo, ci si conosce, ci si raccontano le proprie esperienze e, per così dire, ci si impermeabilizza nei confronti di una società che è troppo caotica e genera ansia.
Ma i rapporti corti, lo sappiamo bene, non solo sono corti nel senso dell’apertura della relazione, ma lo sono anche nel senso della durata, cioè brevi, effimeri, destinati a mutare rapidamente, mentre i rapporti lunghi possono essere legittimati se siamo in grado di riconoscere una istituzione che li protegge. La crisi delle istituzioni e della politica, oggi, non è poi una cosa molto diversa dalla crisi del matrimonio, dalla crisi della scuola, dalla crisi della giustizia: si fa fatica a accettare che ci possa essere una istituzione che al di sopra di me e al di sopra di te ci garantisca tutti.
In questa schizofrenia, la tendenza che investe anche il mondo cattolico è quella di accontentarsi di attribuire all’amore e alla misericordia solo uno spazio vitale nei rapporti corti, ed allora in questa prospettiva la misericordia e la compassione, intese in chiave prevalentemente psicologica, sono emozioni che si giustificano solo nella misura in cui possono aumentare la gratificazione reciproca; per il resto, l’amore cristiano sembrerebbe non avere diritto di cittadinanza nell’ordine dei rapporti lunghi, dove, tutt'al più, possiamo appellarci solo al principio di giustizia. Il grande problema che abbiamo oggi credo sia precisamente questo: la difficoltà di sottrarre l’amore cristiano a questa specie di lottizzazione tra l’aspetto emotivo ed empatico da una parte, in cui l’amore cristiano ha qualcosa da dire, ed il governo dei rapporti lunghi, dove invece l’amore cristiano non avrebbe niente da dire.
L’Enciclica "Dives in Misericordia", invece, non soltanto mette in circolo amore e giustizia, ma dice delle cose molto interessanti che, in presenza di questa schizofrenia, meriterebbero di essere riprese; afferma ad esempio che la giustizia ha bisogno dell’amore e si fonda sull’amore perché l’amore restituisce l’uomo a se stesso. L’amore è un legame originario tra le persone, e quindi non possiamo confinarlo o nella nicchia empatica dei rapporti corti, oppure farne una forma di riparazione assistenzialista che entra in giuoco solo quando la giustizia o le istituzioni non ce la fanno a governare la società. Se c’è una situazione tragica, se l’Aids dilaga e nessuno scommette sulla possibilità di accogliere i malati di Aids, se c’è un terremoto e le istituzioni con la carta bollata non ce la farebbero se qualcuno non parte senza chiedersi tante cose, se la misericordia è immediata, ecco, allora in quei casi sì, apriamo le porte alla misericordia. Una volta riportate le cose alla normalità, però, allora la Croce Rossa deve chiudere i suoi uffici e si deve tornare ad una logica fondata sulla competizione. Ecco, questo, oggi, è il vero grande problema.
Invece la "Dives in Misericordia" contiene un altro messaggio: attenzione, se ci interroghiamo sui legami di reciprocità che rendono comune la nostra coabitazione sulla terra, i legami, letti nella prospettiva dell’amore, appaiono in maniera molto più ricca che se noi li leggiamo solo nella prospettiva della giustizia, poiché una giustizia che perde di vista il cuore dell’uomo diventa una forma di contabilità astratta e formalista. La logica della giustizia è la logica del dare, del prendere, dell’ottenere. La logica dell’amore è la logica del donare, del ricevere, dell’accogliere, che sono due dinamiche completamente diverse. Se la dimensione della giustizia si lascia "contaminare" dalla dimensione dell’amore, allora essa viene rimessa in circolo in una forma ancora più alta.
C’è una interessante apologo orientale che esprime bene la singolarità di questo rapporto tra l’amore e la giustizi: un uomo muore e lascia ai tre figli tutti i suoi beni con questa proporzione: al maggiore deve andare la metà, al secondo figlio un quarto, al terzo figlio lascio un sesto. I figli si impegnano a dividere l’eredità, ma poiché il loro padre aveva soltanto undici cammelli (e undici cammelli non si possono dividere né per due né per quattro né per sei). Chi aveva diritto alla metà comincia a litigare con chi aveva diritto a un quarto e chi aveva diritto a un sesto con gli altri due. La giustizia non ce la fa a risolvere il problema, i tre stanno venendo alle mani quando da lontano arriva un vecchio saggio sul suo cammello. Egli chiede a queste tre persone quale sia la ragione di quella lite furibonda; i tre ne spiegano il motivo e il saggio con un lampo di genio dice: "La cosa è molto semplice, vi regalo il mio cammello; così i cammelli diventano dodici: il primo ne prende sei, il secondo ne prende tre, il terzo ne prende due". Alla fine della divisione, resta un cammello: il vecchio saggio si riprende il suo cammello e se ne va.
La storia è meno banale di quello che possa sembrare e fa pensare a quel paragrafo della "Dives in Misericordia", intitolato: "Basta la giustizia?", dove si ricorda che il massimo di giustizia può spesso capovolgersi nel massimo di ingiustizia ("Summum ius summa iniuria"). Il principio del dono introduce invece una visione completamente diversa delle cose; se il principio del dono è vissuto positivamente, nessuno ci rimette niente, anzi tutti ci guadagnano. Il dono sblocca in altri termini una situazione bloccata; dunque l’amore non è una mortificazione o una fuga dalla giustizia; il vecchio con il suo dodicesimo cammello non viola le regole della giustizia, ma introduce una dinamica di tipo diverso che consente alla giustizia di tornare a funzionare.
In Italia oggi la grande sfida che ci attende è quella della laicità, di cui si discute tanto. La società multiculturale nella quale viviamo ci ha portato davanti a questo bivio: o facciamo terra bruciata, azzeriamo le istituzioni, togliamo i crocifissi dalle scuole, neutralizziamo la Costituzione, assumiamo una forma di laicismo estremo, di neutralismo assoluto come il modello francese; oppure incominciamo ad assumere l'onere di introdurre il criterio dell'amore oblativo e della misericordia per realizzare un confronto severo con il mondo del diritto, della politica, dell'economia, delle istituzioni.
Questo da un lato non lo si vuole, e dall’altro, da parte dei cristiani, forse non lo si fa; forse si sta andando verso una sorta di patto tacito, implicito, per cui il cristianesimo è una religione delle coscienze, politicamente indolore, e la vita sociale viene governata con principi di carattere diverso. Continuiamo a vivere in questa schizofrenia, per cui magari i nostri ragazzi sono estremamente generosi nel mondo del volontariato, ma fanno fatica ad accettare il valore di istituzioni che possono essere migliorate e rese permeabili al principio di misericordia.
Basterebbe aggiungere, se ci volessimo un po’ amareggiare, che due delle proposte che Giovanni Paolo II ha fatto, nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo, quella relativa al debito pubblico e quella relativa alle carceri, non hanno avuto nessun seguito, ma solo consensi teorici e un po’ di retorica buonista. Questo che cosa significa? Vogliamo responsabilmente chiederci: "Quali sono i legami, che questa Nazione Italiana pone a fondamento delle relazioni tra le persone? E’ un problema pubblico, o è un problema privato?".
Oggi corriamo tutti il rischio di mettere i guanti alla "Dives in Misericordia", di toglierle questo potenziale profetico e critico. Se questo dovesse accadere, sarebbe veramente una sconfitta. In una società che tende in maniera schizofrenica a dividere i rapporti corti dai rapporti lunghi, il cristiano non può accettare di confinare l’amore misericordioso nella sfera dei rapporti corti; sarebbe veramente un tradimento del Vangelo. Ricordare, oggi, a venticinque anni di distanza, questo dono che il Papa ha fatto alla Chiesa, e che alcune Famiglie Religiose, come questa, annunciano e continuano ad annunciare, è non soltanto una commemorazione indolore, ma anche un’occasione per riconfermare il proprio impegno di straordinaria, grandissima responsabilità.
A noi oggi, infatti, si chiede di evitare di fare della misericordia un dolcificante per edulcorare una società fondata sull’ingiustizia. Dobbiamo fare della misericordia anche un principio di interpretazione, di rigenerazione, di ricostituzione della società in cui viviamo; questo forse è il modo più alto di interpretare il valore cristiano, qui è in gioco l’identità stessa del messaggio cristiano. In tutti i momenti storici di grande crisi il passo in avanti che è stato fatto nella storia della Chiesa, lo si è fatto quando si è detto: "Con l’amore cristiano si possono affrontare e risolvere molte più questioni di quelle che oggi stiamo affrontando". Dobbiamo attingere a piene mani a questo coraggio profetico della "Dives in Misericordia", un messaggio estremamente attuale, che mette in crisi le nostre sicurezze e ci mette in cammino.