Eros e agápe: dal conflitto-esclusione all’unità-comunione

Enrico Peroli

 

I

La prima parte dell’enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI ha al suo centro una riflessione sulle due forme o dimensioni nelle quali viene generalmente distinto il fenomeno dell’amore, ossia ha al suo centro una riflessione sulle figure dell’ eros e dell’agápe, secondo la terminologia greca, o dell’amor e della caritas, secondo la terminologia latina. In una prima approssimazione (che dovremo subito precisare) possiamo dire che il termine eros designa l’impulso immediato che spinge l’amante all’appagamento del proprio desiderio, mentre l’agápe caratterizza l’amore disinteressato che dona se stesso, il quale ha il suo modello e fondamento originario nell’amore con il quale Dio viene incontro all’uomo, quell’amore che si rivela (manifesta) pienamente nell’invio e nel sacrificio del suo unico Figlio. Ora, queste due forme o figure dell’amore hanno conosciuto una lunga storia di separazione e a volte di aperto conflitto. Secondo una consolidata tradizione di pensiero, infatti, la distinzione tra eros e agápe è stata spesso interpretata nel senso di una radicale contrapposizione tra due forme dell’amore antitetiche ed alternative l’una all’altra, tra le quali, pertanto, non sarebbe possibile alcuna reciproca comunicazione: "nel dibattito filosofico e teologico — si dice nel § 7 dell’enciclica — queste distinzioni Csc. tra eros e agápe) spesso sono state radicalizzate fino al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l’amore discendente, oblativo, l’agápe, appunto; la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall’amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall’eros".

L’espressione forse più significativa dell’orientamento interpretativo al quale fa qui riferimento Benedetto XVI è costituita dal celebre volume Eros e Agápe di Andreas Nygren – un volume che ha esercitato un notevole influsso non solo nella ricerca teologica e che, per quanto non citato, è probabilmente sullo sfondo della critica che, nelle righe che seguono immediatamente il passo che ho letto, viene condotta nei confronti di una tale impostazione. Secondo Nygren, infatti, eros e agápe costituiscono due figure totalmente inconciliabili ed anzi tendenzialmente distruttive l’una dell’altra, due figure che, ad un tempo, separano in modo radicale mondo greco e mondo cristiano; di una tale contrapposizione, tuttavia, per Nygren non è stata in grado di avvedersi la tradizione cristiana, la quale, sin dai primi secoli, ed in modo particolare e paradigmatico con Agostino, ha invece cercato di operare tra eros e agápe un accordo sostanzialmente impossibile ed anzi profondamente pericoloso: "non può esserci effettivamente alcun dubbio – scriveva in modo programmatico Nygren nell’introduzione del suo volume — sul fatto che eros e agápe appartengono originariamente a due mondi spirituali fra i quali non è possibile alcuna diretta comunicazione".

Questa contrapposizione tra eros e agápe – contrapposizione che, come dirò tra breve, ha radici profonde nel mondo moderno, radici delle quali la tesi di Nygren è in parte il riflesso — viene generalmente formulata mediante tutta una serie di classificazioni, tra le quali quella forse più significativa, in quanto riassume in qualche modo tutte le altre, è la distinzione tra "amor concupiscientiae" e "amor benevolentiae". Secondo una tale distinzione, l’eros è quella forma di amore che, conformemente alla concezione greca, viene messa in moto da qualcosa che ci appare desiderabile, attraente, ed in questo senso bello; ed attraente e desiderabile è anzitutto ciò che ci manca, ciò di cui pertanto vogliamo entrare in possesso per completare o potenziare noi stessi. In questo senso, l’eros descrive quella direzione immediata e naturale del desiderio umano che tende al soddisfacimento di un bisogno e che, anche quando si esprime nella richiesta di un legame affettivo, mira all’appagamento (emotivamente) gratificante di sé, in un movimento sostanzialmente egocentrico che ci spinge a relazionarci all’altro per soddisfare o realizzare noi stessi. L’"amor benevolentiae", l’agápe come dono di sé, descriverebbe invece una dimensione completamente diversa ed intrinsecamente estranea all’esperienza e alla forma naturale che il desiderio amoroso assume nella sua dimensione affettiva, passionale o erotica; descrive, cioè, quella morale dell’amore disinteressato alla quale si può pervenire solo abbandonando ogni interesse per se stessi, in quell’etica, per così dire, eroica — e quindi eccezionale — del sacrificio entro la quale la cultura occidentale ha spesso collocato la dimensione dell’agápe, la logica del dono.

Questa contrapposizione tra "amor concupiscientiae" e "amor benevolentiae" ha attraversato per molti versi la tradizione cristiana ed ha posto radici profonde dentro l’età moderna – radici che hanno costituito anche lo sfondo entro il quale dev’essere letta la posizione radicale di Nietzsche citata nel § 3 dell’enciclica. A questo riguardo, un esempio significativo e rivelatore della posizione caratteristica dell’età moderna lo si trova nella disputa sull’"amore puro", sull’essenza dell’amore a Dio, tra Bossuet e Fénelon, l’ultima disputa teologica che vide impegnati il papa, il re e tutta l’Europa colta del tempo. Si tratta di una disputa che, come ha osservato Robert Spaemann, scaturisce dell’ontologia moderna, una ontologia che non è più capace di pensare l’autotrascendenza: all’uomo ne va sempre e necessariamente di se stesso, per cui il suo amore nei confronti di Dio o nei confronti del prossimo può essere inteso solo come un modo mascherato in cui l’uomo cerca egoisticamente la propria felicità; per questo, se esiste qualcosa come un "amore puro" per Dio o per il prossimo, esso può essere raggiunto solo attraverso l’annullamento di ogni interesse personale, di ogni tensione dell’uomo alla felicità, attraverso il sacrificio di se stessi. In piena età moderna, questa concezione troverà la sua completa espressione nella morale di Kant, con la sua radicale avversione nei confronti di ogni impulso ed inclinazione naturale, di ogni forma del desiderio umano, considerata nella sua essenza come sempre egocentrica, come espressione della "Selbstliebe" dell’amor-proprio. Per questo, per Kant risulterà inaccettabile il modo in cui Leibniz aveva cercato di risolvere la disputa tra Bossuet e Fénelon: "delectatio in felicitate alterius", "gioia per la felicità dell’altro", era la formula con la quale Leibniz aveva cercato di comprendere il fenomeno dell’amore, un fenomeno che non è né privo di interessi, né egoistico. Ma il fatto che il desiderio dell’uomo possa trovare il suo compimento (la sua gioia) nell’apertura originaria alla felicità altrui è impensabile per Kant, per il quale anche questa forma di amore può essere intesa solo come una forma di egoismo mascherato – in una concezione nella quale trova in fondo la sua eco filosofica il "maledicta sit charitas" di Lutero.

Ora, la riflessione che viene condotta nella prima parte dell’enciclica mira a mostrare come questa contrapposizione tra eros e agápe che ho cercato fin qui di illustrare, questa contrapposizione tra "amor concupiscientiae" e "amor benevolentiae", sia per molti versi fuorviante e ci metta di fronte una falsa alternativa nella quale si finisce per privare la struttura affettiva dell’amore della sua autentica profondità umana — per relegarla, come spesso è accaduto anche nella tradizione cristiana, in una sfera infra-umana, nella sfera irrazionale degli istinti e delle passioni — e, dall’altro lato, si finisce per disarticolare la dimensione dell’agápe, la logica del dono, "dalle fondamentali relazioni dell’esistere umano" per farne "un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell’esistenza umana". In realtà "eros e agápe – così prosegue l’enciclica – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera unità dell’amore in genere" (§7).

In questo senso, ripensare il legame profondo che lega eros e agápe nell’evento dell’amore significa ricomporre in unità le diverse dimensioni della realtà e dell’esperienza dell’uomo; significa sviluppare una fenomenologia dell’amore umano che metta in luce l’insopprimibile componente oblativa del desiderio e che, quindi, sottragga quest’ultimo dall’iscrizione "naturale", normale, nell’orbita dell’amor concupiscientiae, dell’egoismo, secondo una concezione per la quale, se è naturale, il desiderio dev’essere spontaneamente possessivo, autocentrato, dominatore. La conseguenza di una tale impostazione è poi la tendenza, che attraversa in profondità la nostra cultura, a considerare la figura della caritas, la dinamica del dono, che fa la sua comparsa dentro le mille pieghe dell’esistenza individuale e, come mostra la II parte dell’enciclica, dell’esistenza collettiva, come una variabile indipendente rispetto alla struttura naturale del desiderio e ad inquadrarla come una anomalia rispetto alla normale razionalità dell’esistenza e alle forme della sua costruzione sociale.

Ripensare l’unità dinamica che lega eros e agápe significa invece vedere nella logica del dono la verità radicale e quindi il senso del desiderio, significa vedere nella cura liberamente offerta e condivisa il luogo idoneo nel quale può fiorire l’appagamento e il compimento di sé che il desiderio ricerca. In questo senso, diversamente dall’idea – non cristiana – di un altruismo che godrebbe della propria sacrificale distruzione, la cura liberamente offerta e condivisa non è un amore nel quale si dimentica semplicemente se stessi o si sopprime ogni interesse nei confronti di sé, perché questa supposta dimenticanza di sé è in realtà una astrazione e noi stessi non sentiremmo l’amore di un altra persona come un atto buono e puro se fosse semplicemente disinteressato, se all’altro, cioè, non interessasse avere a che fare con noi: questa benevolenza, questo altruismo senza desiderio ci apparirebbe come il gradino più basso dell’amore, non come il più alto. Ciò che in realtà accade in ogni autentica esperienza d’amore è un nuovo modo di rapportarsi a se stessi, un modo nel quale la realtà dell’altro, e quindi la cura e la promozione nei suoi confronti, ci appaiono come un bene insostituibile per noi, come quel bene presso il quale il nostro desiderio trova la sua fioritura. Per questo, in ogni autentica esperienza di amore avviene un radicale allontanamento da se stessi a favore di una nuova vicinanza a sé. Nel dono che liberamente si fanno l’un l’altro, ciò che l’io amante e il tu amato sperimentano è il fatto che ciascuno di essi è ridato o ridonato in modo nuovo a se stesso, ed è proprio in questa esperienza che risiede il vero piacere e la vera gioia dell’amore. In questo senso, come si dice nel § 6 dell’enciclica, l’amore è un cammino permanente nel quale l’io esce "verso la sua liberazione nel dono di sé e proprio così verso il ritrovamento di sé".

II

A) Elaborare questa nuova fenomenologia dell’amore significa anche ripensare e ripercorre criticamente quei luoghi, quei modelli culturali e antropologici nei quali la scissione tra le diverse componenti dell’esperienza umana, e con esse tra eros e agápe, si è venuta codificando nel corso della nostra storia. L’intento che mi propongo nella seconda parte del mio intervento è quello di provare ad attraversare alcuni di questi "luoghi", cercando in questo modo di evidenziare e di riflettere su alcuni dei molti riferimenti culturali, che percorrono l’intera prima parte dell’enciclica.

In questo senso, vorrei prendere le mosse dalla concezione greca dell’amore, che abbiamo già in parte incontrato nella tesi di Nygren e con la quale si apre anche l’enciclica. La quale inizia giustamente osservando come, con la sua concezione dell’eros e anche, come vedremo, della philia, la cultura greca ha cercato di tematizzare forme e dimensioni diverse dell’esperienza umana dell’amore – forme che la tradizione cristiana ha sin dai primi secoli recepito, ma che, ad un tempo ha dovuto anche integrare e trasformare in modo profondo. Per illustrare questo processo di recezione e di trasformazione, vorrei prendere le mosse dalla concezione platonica, alla quale si fa esplicito riferimento nel § 11 , ma che, in modo indiretto, è presente anche in molte altre pagine dell’enciclica. Della dottrina platonica dell’eros —dottrina che, come cercherò di dire, ha costituito per molti versi un paradigma che ha attraversato a lungo la tradizione occidentale — vorrei inizialmente evidenziare due aspetti:

1) L’amore è per Platone la forza fondamentale dell’anima umana, è il fondamento e l’incessante impulso che spinge il pensiero a trascendere se stesso, ad orientarsi nella direzione del suo fine ultimo, nella direzione del Fondamento divino.

2 Proprio in quanto tale — e questo è il secondo aspetto della concezione platonica che vorrei sottolineare — l’amore non è semplicemente l’espressione di un aspetto particolare dell’esistenza umana, ma rivela la condizione fondamentale dell’essere dell’uomo, quella di un essere collocato "tra" la sua costitutiva finitezza e la sua (insopprimibile) aspirazione ad una relazione con l’in-finito. In quanto tale, l’amore attesta le presenza nell’uomo di una eccedenza rispetto al suo modo d’essere empirico; per questo, eros è un grande demone, come lo definisce Platone, ossia è la forza presente nell’anima umana che media attivamente ed incessantemente tra i due ambiti in cui si colloca l’essere dell’uomo, tra il mortale e l’immortale, tra il tempo è l’eternità.

Proprio questa aspirazione ad istituire una relazione con il divino, con l’eterno è ciò che è all’origine di ogni desiderio, è l’intenzionalità che sta al fondo di ogni amore umano. Per questo, nel Simposio Platone descrive una "scala amoris", un cammino di ascesa dell’amore che giunge al suo compimento solo nella contemplazione della Bellezza divina, nella visione di "ciò che sempre è, di ciò che non nasce e non perisce"; questa visione, che rappresenta il fine ultimo cui da sempre tende ogni desiderio ed ogni amore umano, si realizza, dice Platone "all’improvviso", nell’"istante" in cui all’amante appare l’Eterno nella sua eternità, in quel "momento della vita — conclude Platone— che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo".

Questa concezione platonica dell’eros, che ho cercato qui brevemente di tratteggiare, ha esercitato un ampio influsso nella tradizione cristiana dei primi secoli, quando, sulla scia di Filone di Alessandria, molti Padri hanno impiegato il Simposio di Platone per interpretare in chiave allegorica e mistica il Cantico dei Cantici; a partire da Origene che, per primo, ha visto in questo poema dell’amore della sposa per lo sposo un’immagine del desiderio dell’anima per Dio. Se la tradizione cristiana dei primi secoli si è potuta richiamare alla dottrina platonica dell’eros, essa, tuttavia, ha dovuto sottoporre una tale dottrina ad una profonda trasformazione. Nella concezione platonica, infatti, il cammino di ascesa al divino, che si compie spinti dalla forza motrice dell’amore, viene pur sempre inteso come un movimento di autoredenzione, come un processo di purificazione, di disciplina morale ed intellettuale affidato completamente all’autonoma iniziativa dell’uomo, il quale, sospinto dall’amore, riscopre la sua originaria affinità con il divino iscritta già sempre nella sua stessa natura. Nella tradizione cristiana, l’eros, l’amore che aspira al divino e che desidera istituire una comunione con esso è in realtà una risposta ad un dono che da sempre lo precede, ad una iniziativa di cui l’uomo non può mai disporre completamente, ma che è affidata a Dio stesso. Come sappiamo da sempre a partire dalla nostra esperienza, ad amare, infatti, noi impariamo venendo amati e lasciandoci amare. Per questo, non si potrebbe amare Dio né amarsi l’un l’altro se non ci si ponesse già amati da Dio e se non ci si lasciasse amare da lui. Per questo, nella Prima lettera di Giovanni, con cui si apre l’enciclica, si sottolinea che è "Dio che ci ha amato per primo" (1 Gv 4, 19). È Dio che mette in moto l’evento dell’amore, perché egli solo può iniziare senza motivo ad amare, ed anzi ha iniziato da sempre senza motivo ad amare. Per questo, come si esprime l’enciclica al § 7 , "eros e agápe, amore ascendente e amore discendente, non si lasciano separare completamente l’uno dall’altro [...] I Padri hanno visto simboleggiato in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l’eros che cerca Dio e l’agápe", l’amore che Dio rivolge all’uomo, quell’amore che trova la sua piena rivelazione nell’invio e nel sacrificio del suo unico Figlio.

Per questo, nel VII libro delle Confessioni, ricostruendo il suo itinerario spirituale e sottolineando l’importanza avuta in tale itinerario dall’incontro con i libri dei platonici, Agostino può dire, con il suo impareggiabile linguaggio, che la differenza tra la concezione platonica e quella cristiana è la differenza che passa "fra il vedere dove bisogna andare senza vedere come e la via che conduce al paese di origine, per abitarlo non solo per vederlo", quella via che, come si dice qualche riga prima, passa attraverso la caritas, il cui fondamento è Gesù Cristo.

B) C’è un secondo aspetto della dottrina platonica dell’eros che vorrei sottolineare, e vorrei farlo prendendo come punto di riferimento proprio questo testo di Agostino. Del testo di Agostino vorrei ora sottolineare la distinzione che viene fatta nell’ultima riga del passo che ho appena letto tra "vedere" ed "abitare", tra la contemplazione delle verità metafisiche propria della filosofia greca e il prendere dimora presso il paese di origine nel quale si realizza la fioritura della nostra esistenza. Questo "abitare", che si edifica, come abbiamo visto, sul fondamento della caritas, esige per Agostino quel coinvolgimento della intera persona e della sua dimensione affettiva, in particolare, che è necessario per arrivare a quella conversio di cui parlavano anche i platonici. Ora, è proprio di questa dimensione profondamente personale ed anzi interpersonale dell’esperienza umana dell’amore che nella dottrina platonica dell’eros non troviamo traccia. Nella "scala amoris" descritta da Platone nel Simposio, in quella scala lungo la quale l’amante deve salire per giungere alla contemplazione della Bellezza divina, la dimensione interpersonale dell’amore umano rappresenta appena il primo gradino che il vero amante deve ben presto superare per ascendere verso gradi sempre più elevati di universalità. Questa idea trova la sua espressione significativa nel mito dell’androgino originario cui l’enciclica fa riferimento al § 11. Secondo questo mito, che Platone pone in bocca ad Aristofane, ciò che costituisce la condizione iniziale, originaria dell’essere umano non è la dualità dell’uomo e della donna, secondo la prospettiva del Genesi, ma è l’unità indistinta di un essere totipotente ed autosufficiente, unità, che, nell’attuale condizione di separazione in cui vivono gli esseri umani, ciascuno di noi desidera ricostituire, cercando spasmodicamente di ricongiungersi con la sua originaria metà. Questa prospettiva, questo ideale di una unione fusionale alla quale tenderebbe il desiderio amoroso, viene rafforzata da Platone, quando, riprendendo il discorso di Aristofane sull’androgino originario, sottolinea come l’unità e la totalità di cui, attraverso l’amore, ogni uomo va alla ricerca, anche se non sempre ne è consapevole, è in realtà l’unità del Bene divino, rispetto alla quale la dualità della relazione interpersonale non può che rappresentare un gradino provvisorio che rinvia oltre se stesso e che quindi va presto superato. Come abbiamo visto, per Platone l’eros è quella forza presente nell’anima che spinge l’uomo a tale ricerca del Bene, dell’Uno divino, una ricerca che si compie non nell’amore umano, ma attraverso l’amore umano, in modo tale che l’ascesa progressiva dell’eros porta sempre più lontano dalla relazione tra soggetti concreti reali.

Questa concezione ha costituito un paradigma che ha attraversato per lunghi secoli la cultura occidentale, un paradigma nel quale per tutte quelle posizioni, come quella platonica, che riconoscono una trascendenza antropologica o metafisica, la vicenda dell’eros si compie come un passaggio dal basso all’alto, in sostanza nell’opposizione tra l’eros fisico e quello spirituale, tra l’"amor profano" e l’"amor sacro" — una opposizione nella quale anche quest’ultimo, anche l’"amor sacro", l’amore spirituale, finisce, come abbiamo già letto nell’enciclica, per essere "disarticolato dalle fondamentali relazioni dell’esistenza umana" (p. 20). Al fondo di un tale paradigma vi è tuttavia l’idea, espressa in modo emblematico nel mito platonico dell’androgino, di una totalità originaria che include e risolve in sé le differenze e rispetto alla quale non vi è più spazio per l’effettiva esperienza dell’amore umano: l’unità dell’amore non è infatti abolizione delle distinzioni, ma è l’unità di una relazione. Per questo, come proverò a dire più avanti, nella tradizione cristiana l’esperienza dell’amore umano potrà trovare il suo modello originario ed insieme il suo autentico fondamento nella dottrina trinitaria, dove l’unità dell’essere di Dio si compie non "nonostante", ma proprio attraverso le relazioni che intercorrono tra le singole Persone divine.

C) Quanto ho cercato sin qui di dire veniva espresso molto bene da un celebre studioso di Platone G.M.A. Grube, il quale, in un vecchio saggio del 1935, osserva, a proposito del Simposio: "quando seguiamo Platone lungo il suo viaggio verso l’alto avvertiamo che c’è qualcosa di errato, che l’oratoria appassionata ha in qualche modo lasciato l’amore dietro di sé". Ciò che la dottrina platonica dell’eros ha lasciato dietro di sé, ossia la dimensione propriamente interpersonale, intersoggettiva, dell’amore umano è invece al centro del pensiero di Aristotele, della sua riflessione etica. Per questo, in Aristotele, diversamente da Platone, troviamo quel linguaggio che, come ci ha insegnato Agostino, segna la differenza tra il vedere e l’abitare la verità, in questo caso la verità dell’esperienza umana dell’amore: il linguaggio della condivisone e della partecipazione a fini comuni, il linguaggio della fiducia e della fedeltà, il linguaggio della speranza e del ricordo, il linguaggio del dolore per la separazione e quello della gioia per il ritrovarsi. Èquesto il linguaggio che percorre da un capo all’altro i libri che Aristotele dedica alla philia, l’altro termine che, insieme ad eros, viene usato nella tradizione greca per indicare l’amore; un termine che usualmente traduciamo con "amicizia", ma che in realtà designa la sfera delle relazioni interpersonali nel loro complesso, da quelle familiari ai rapporti che coinvolgono individui che hanno un qualche fine in comune, fino alle relazioni più intime e più profondamente affettive che noi chiamiamo, appunto, "amore", il cui esempio paradigmatico è costituito per Aristotele dall’amore coniugale tra marito e moglie e dall’amore della madre nei confronti dei figli. Ora, alla dottrina della philia, al tema dell’amicizia e dell’amore Aristotele dedica due terzi delle sue opere di etica, più spazio di quanto sia dedicato a qualsiasi altro tema – una circostanza, questa, che dovrebbe già farci riflettere sull’importanza che questo tema assume nel contesto della riflessione aristotelica. Ed è davvero sorprendente che, nella voluminosa indagine che conduce nel suo saggio Eros e Agápe, Andreas Nygren non dedichi neppure una pagina alla concezione aristotelica, potendo in questo modo costruire quella contrapposizione fra eros greco e agápe cristiana che domina, come ho già accennato all’inizio, la sua trattazione. Che una tale contrapposizione, qualora venga assolutizzata, sia in effetti per molti versi fuorviante, come fa giustamente intendere l’enciclica, risulta già dal fatto che, tra le diverse forme di relazione interpersonale che possono essere considerate, ciascuna a suo modo, come philia, come amicizia o come amore, questo termine per Aristotele designa in senso proprio, compiuto o perfetto (teleia philia), quel tipo di rapporto nel quale ciascuno ama l’altro per quello che l’altro è "in se stesso" (kath’hautoús) o "per se stesso" (di’hautoús) ed ha cura di promuovere il suo bene. È solo quando perviene a questa forma di condivisione che la philia raggiunge per Aristotele quella profondità che è propria di un autentico legame personale, di un legame che implica un effettivo interesse per la persona stessa dell’altro ed ha cura del suo bene. Amare l’altro per se stesso è in effetti ciò che Aristotele tratta con il nome di philia.

L’aspetto della concezione aristotelica su cui, tuttavia, vorrei soffermarmi è un altro, è la tesi, che Aristotele sostiene ripetutamente nelle sue opere di etica, secondo la quale la relazione con cui ci leghiamo all’altro in ogni autentica forma di philia, in ogni autentica forma di amicizia personale o di amore, rappresenta una parte costitutiva dell’eudaimonia umana, rappresenta qualcosa di necessario affinché la vita umana possa essere una vita buona, una vita compiuta, una vita riuscita. Ora, proprio questo è per Aristotele ciò che differenzia la condizione umana da quella divina, dalla solitaria autosufficienza di Dio, il quale, come ci ricorda l’enciclica al § 9, viene concepito da Aristotele come un pensiero che si relaziona sempre compiutamente a sé, come una interiorità, per così dire, sazia di se stessa, la quale, pertanto, non ha bisogno dell’altro, e quindi non ha rapporto né con la philia (come si dice nell’Etica Eudemia), né con la polis, con la storia degli uomini (come si dice nella Politica). Per questo, come Aristotele pone in luce nel VII libro dell’Etica Eudemia, non è possibile istituire – ed anzi sarebbe "assurdo" e "ridicolo" farlo (cfr. Grande etica)— nessuna analogia tra la condizione umana e quella divina perché – così si dice nell’Etica Eudemia — "Dio è per se stesso il proprio bene", mentre il bene cui l’uomo può accedere e nel quale può rapportarsi alla pienezza della propria vita implica sempre il rapporto, la relazione con l’altro.

In questo modo, il ruolo centrale che, a differenza della concezione platonica dell’eros, Aristotele attribuisce, nella sua dottrina della philia, alla relazione, al legame e alla cura dell’altro viene conquistato al prezzo di una radicale separazione tra antropologia e teologia, tra l’umano ed il divino (la cui unità, come abbiamo visto, era invece al centro della concezione platonica dell’eros); nella prospettiva di Aristotele, tuttavia, questo comporta che la philia, l’amicizia e l’amore con le quali ci leghiamo all’altro, per quanto necessarie, rischiano pur sempre di essere concepite come qualcosa di provvisorio e di inferiore rispetto alla forma di vita compiuta esemplificata in modo paradigmatico dal divino, quella
forma alla quale, secondo lo stesso Aristotele — come mostra, non senza contraddizioni, l’ultimo libro dell’Etica Nicomachea —, deve tendere, come suo fine ultimo, il filosofo, il quale, per quanto gli è possibile, deve cercare di imitare e di realizzare nella propria esistenza la forma di vita che è propria di Dio.

 

III

Se, nella prospettiva di Aristotele, la relazione e il legame con l’altro possono essere pensati solo nel contesto di questa radicale scissione tra l’umano ed il divino, tra antropologia e teologia, il superamento di una tale scissione sarà uno dei contributi essenziali della riflessione cristiana sin dai primi secoli, un contributo che potrà essere raggiunto attraverso la elaborazione di una nuova immagine di Dio e, con essa, di una nuova immagine dell’uomo. Di questa duplice novità introdotta dalla fede biblica l’enciclica si occupa a partire dal paragrafo nono, dove appunto troviamo il riferimento ad Aristotele, e viene poi ripresa anche nella seconda parte, la quale si apre con la citazione delle parole del De Trinitate di Agostino: "Chi vede la carità vede la Trinità".

La concezione trinitaria dell’essere divino rappresenta in effetti la radicale novità introdotta dalla riflessione cristiana rispetto allo spirito greco. Ciò che, nella sua riflessione sul "mysterium Trinitatis", la tradizione cristiana ha cercato sin dagli inizi di porre in evidenza — e lo ha fatto, in modo particolare, quando, nel IV secolo, con i Padri Cappadoci (Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa) essa è pervenuta ad una essenziale chiarificazione concettuale della fede trinitaria fondando, in questo modo, l’orizzonte razionale per sostenere il dogma di Nicea — è anzitutto il fatto che le singole Persone divine, che sussistono nell’unica sostanza di Dio, sono caratterizzate dal nesso inscindibile tra idion e schesis (secondo la terminologia greca), tra il "proprio" e la relazione, un nesso per il quale l’identità dei singoli Soggetti divini dev’essere concepita come un evento per essenza interpersonale. In questo senso, secondo la teologia greca del IV secolo, ciò che caratterizza in modo essenziale le singole Persone della Trinità, che sussistono nell’unica ousia divina, ciò che è peculiare o proprio (idion) di ciascuna di esse è determinato unicamente dalle loro reciproche relazioni (scheseis), dall’inesausta koinonia (come la chiama Basilio) che le mantiene sempre riferite le une alle altre e nella quale ciascuna di esse realizza la sua specifica identità. Per questo il "proprium" che si addice in modo unico alle singole Persone divine, quel "proprium" per il quale ciascuna di esse è se stessa e si distingue dalle altre, è in realtà il proprium di una relazione, è il modo rispettivamente unico con il quale ciascuna di esse è in rapporto con le altre: è solo in questa eterna dinamica relazionale, in questo processo del "donarsi" e del "riceversi", come lo chiamerà Riccardo di san Vittore, che i singoli Soggetti divini hanno la loro realtà, ed è solo in questo processo che si compie l’unità dell’ousia divina, l’unità dell’unico essere di Dio. Per questo, diversamente dalla concezione greca, l’essere di Dio non può essere più concepito come una monade isolata, come l’"ultima solitudo" alla quale, secondo le parole di Plotino, l’uomo deve ascendere "da solo a solo", ma dev’essere concepito come un "esodo originario immanente, come un uscire da sé per darsi all’altro e ricevere l’altro in sé", come una "communio" animata dall’amore, nella quale ogni Persona divina svolge sia il ruolo dell’amante che dell’amato in maniera del tutto responsoriale, e proprio in questo modo, proprio in questa dinamica relazionale, donando e ricevendo ad un tempo, afferma e conserva la sua specifica identità personale, la su rispettiva ed unica individualità.

Per questo, "chi vede la carità vede la Trinità", secondo le parole di Agostino citate da Benedetto XVI: è proprio nella sua riflessione sul "mysterium Trinitatis" che la tradizione cristiana ha infatti potuto pensare la verità dell’affermazione neotestamentaria con la quale si apre l’enciclica, l’affermazione della Prima lettera di Giovanni secondo la quale "Dio è amore": l’amore non è una qualità, una possibilità in qualche modo aggiunta all’essere di Dio, non è un predicato, un attributo della sostanza divina, né descrive semplicemente l’agire di Dio all’esterno, il suo agire provvidente nei confronti della realtà creata: l’amore, piuttosto, connota l’essere stesso di Dio, la sua stessa identità.

Proprio per questo, la riflessione sul "mysterium Trinitatis" ha potuto costituire per la tradizione cristiana un impulso decisivo per elaborare una "nuova immagine dell’uomo", secondo le parole dell’enciclica, per chiarire, cioè, "in rei origine", nel suo fondamento ontologico, in che modo la dinamica relazionale strutturi la nostra stessa identità personale. È questa la lezione che la teologia greca del IV secolo ricava dal racconto sacerdotale della creazione, dove l’enigmatico plurale dell’interlocuzione divina ("Facciamo l’uomo..."), che, secondo Gn 1, 26, è all’origine della decisione di Dio di creare l’uomo a sua immagine, viene interpretato come una manifestazione "ad extra" (dell’unità in sé relazionale) della essenziale comunione trinitaria dell’unico Fondamento divino, in modo tale che la somiglianza con Dio, alla quale l’essere umano è chiamato a partecipare con l’atto della creazione, viene ora vista consistere non solamente nella sostanza spirituale del singolo individuo, conformemente all’interpretazione tradizionale, ma, anzitutto, nella sua destinazione ad una vita di comunione. Per questo, nel quinto dei suoi Discorsi teologici (Or., 31, 11), Gregorio di Nazianzo può mostrare come l’imago che corrisponde alla trinitarietà interiore di quel Dio che, da sempre, ha il suo stesso essere nella o attraverso la reciproca relazione delle Persone divine è quella comunione umana delle origini che Gregorio vede esemplificata in modo paradigmatico, ossia "in cielo", nella famiglia di Adamo-Eva-Seth. In questo modo, la lezione che la teologia greca del IV secolo trae dalla storia della creazione, dall’enigmatico plurale che è all’origine della decisione di Dio di creare l’uomo a sua immagine, è il fatto che un tale plurale, un tale "noi", inabita sin dall’inizio, en archeî, nella costituzione ontologica dell’essere umano, in modo tale che, vista anche a partire dal suo télos, dal futuro del suo compimento — da quel futuro che è già sempre racchiuso nell’imago Dei —, l’unicità e la singolarità di ogni essere personale trovano il loro senso solo in un destino di relazione.

 

IV

La riflessione su un tale destino sarà al centro, nel XII secolo, anche della dottrina trinitaria di Riccardo di San Vittore — dottrina che, per molti versi, è connessa con la teologia greca del IV secolo. Se faccio qui riferimento a Riccardo di san Vittore è per il fatto che, nel suo De Trinitate, Riccardo sviluppa la sua speculazione trinitaria sulla base di quella che potremmo definire una "ontologia dell’amore", nella quale, con un percorso inverso rispetto a quello che abbiamo sin qui seguito, egli parte da una riflessione sull’esperienza dell’amore umano, nella quale Riccardo vede il riflesso e la manifestazione più elevata della dinamica trinitaria della vita divina.

Nel condurre la sua riflessione, Riccardo prende le mosse dal concetto di Dio come "summum bonum" e "summa caritas", seguendo una lunga tradizione teologica che risale alla riflessione trinitaria di Agostino; nel far questo, tuttavia, Riccardo percorre una propria via, e di questa originalità egli è perfettamente consapevole. L’accesso razionale al "mysterium Trinitatis", infatti, Riccardo lo ricerca anzitutto (come ho accennato) nell’esperienza dell’amore umano; un’esperienza della quale egli evidenzia in primo luogo la dimensione propriamente affettiva, i sentimenti di gioia, di felicità, di piacere che la contraddistinguono in maniera essenziale. È su questi sentimenti che Riccardo intende sin dall’inizio richiamare l’attenzione del lettore, invitandolo, quasi in apertura del libro, a riandare con la memoria alle proprie esperienze personali: "chiunque interroghi la propria coscienza e, senza dubbio, indiscutibilmente, si accorgerà che non c’è niente di più gioioso dell’amore", niente di più soave, niente di più dolce, "niente di cui l’anima possa godere di più". Chi percorra anche solo rapidamente queste pagine del De Trinitate non può non restare sorpreso dell’insistenza con la quale la dinamica dell’amore umano viene descritta in termini di "gaudium", "delectatio", "delicium", "iucunditas", "dilectio", "dulcedo", ecc. — in un linguaggio il cui uso teologico lo stesso Riccardo si sentirà in dovere di giustificare verso la fine del libro. Perché tanta insistenza?

La ragione profonda che spinge Riccardo ad utilizzare questo linguaggio per descrivere l’esperienza dell’amore umano risiede nel fatto che è già in esso, è già nell’ordine degli affetti che viene insopprimibilmente alla luce in che modo la dinamica relazionale strutturi la nostra identità personale. Diversamente dalle esperienze puramente fisiche e indifferenziate di piacere, ciò che infatti caratterizza tutte le gioie profonde dell’uomo, di cui parla qui Riccardo, tutte le gioie, cioè, che coinvolgono e dispongono positivamente l’intera nostra esistenza, è il fatto di possedere un contenuto intenzionale, un contenuto che si fa incontro alla persona e che, ad un tempo, la chiama all’autotrascendenza, la chiama ad uscire da se stessa in direzione dell’altro: "dilectio in alterum tendit", come si esprime Riccardo riprendendo una sentenza di Gregorio Magno. Per questo, appartiene per Riccardo alla natura di ogni autentica gioia personale il fatto che essa venga comunicata: un uomo che non comunicasse, e più ancora che non "provasse piacere nel comunicare le sue gioie più profonde" sarebbe privo di un aspetto essenziale di un’autentica esperienza affettiva. Qui, in effetti, non si tratta di un sentimento che possa essere descritto come un semplice stato del soggetto: più che interna a ciascuno di noi, ogni vera gioia personale porta a parola l’attesa di un riconoscimento, solo nel quale il desiderio umano può giungere a chetarsi. Per questo, a differenza di un semplice stato di piacere, di ogni autentica gioia personale, di ogni gioia che, come dicevo, coinvolge lo stato complessivo della nostra esistenza, nessuno può godere da solo; tali gioie, in realtà, noi possiamo possederle solo nel cuore dell’altro: "non tam de proprio, quam de alieno corde hauriuntur".

Questo è quanto per Riccardo ci mostra l’esperienza dell’amore e di ogni vera ed autentica amicizia (13, 924 A), senza la quale, come sapeva bene Aristotele, nessuna vita umana, per quanto ricca di ogni altro bene, può essere una vita buona, una vita riuscita. Diversamente dalla "plenitudo sapientiae", infatti, che può sussistere anche in una sola persona, e le cui "delizie" ciascuno può ricevere "dal proprio cuore", la "plenitudo felicitatis", la pienezza della vita umana e la gioia che ad essa è connessa sono una realtà per essenza interpersonale — una realtà che, ancora una volta, può essere declinata solo al plurale: "perfectio personae unius consortium requirit alterius", il compimento del proprio essere personale è per ciascuno di noi già sempre affidato alla relazione e alla comunione con l’altro.

B) @"Non si può trovare niente di più soave della dolcezza dell’amore, niente di cui l’anima possa godere di più". Chiunque interroghi la propria esperienza è per Riccardo consapevole del fatto che l’amore, nel quale ci scopriamo affidati al cuore dell’altro, rappresenta quanto di migliore vi è nella nostra vita, costituisce la fonte di ogni autentica gioia personale: "non c’è niente che sia migliore, niente che sia più gioioso dell’amore. È questo che ci insegna la natura stessa, ed è ancora questo che ci è rivelato dalla nostra molteplice esperienza". La vera gioia dell’amore, tuttavia, può spettare solo a chi non si fissa su di essa. Ne era consapevole Aristotele, il quale, da uomo dell’antichità, sapeva che un uomo non può avere buoni amici se non è egli stesso un buon amico. Ed una buona amicizia non può prosperare quando l’altro è amato solo a motivo del piacere o della gioia che egli mi procura, e quindi pur sempre come una parte o una funzione del mio mondo. Il pieno godimento dell’amicizia o dell’amore può fiorire solo sul terreno di un autentico rapporto reciproco, sul terreno, cioè, di quella reciprocità per la quale ciascuno riconosce attivamente nell’altro, nell’amico o nell’amato, "un altro se stesso", secondo le parole di Aristotele, qualcuno, cioè, che non ha anzitutto significato nel mio mondo, ma che, al pari di me, è egli stesso un soggetto per il quale c’è mondo, per il quale c’è significato: in questo senso, come scrive Riccardo, "non può esservi amore gioioso (amor jucundus) se non l’amore reciproco (amor mutuus)".

La dinamica relazionale nella quale si tesse la nostra stessa identità personale, tuttavia, per Riccardo non può essere ridotta alla sola reciprocità condivisa dell’"amor mutuus", di cui ci siamo finora occupati, alla mutualità propria dello scambio dialogico tra un "io" e un "tu". È per questo che, nella seconda parte del suo De Trinitate, Riccardo riprende la sua analisi dell’esperienza umana per condurre, questa volta, una critica molto specifica nei confronti dell’"amor mutuus". Ciò che Riccardo pone in luce nel corso di queste pagine è il fatto che un amore che si accontenti della semplice reciprocità della relazione "io-tu" rischia, in realtà, di ricadere in un nuovo isolamento, rischia, cioè, di ripiegarsi nella chiusura autoreferenziale dell’"amor privatus", finendo in questo modo, tuttavia, per privarsi della sua dimensione più propria, della sua stessa dinamica comunicativa: qui, in effetti, possono pur sempre amarsi due solitari ("solus solum diligit": 19, 927 B), siano essi due amici, marito e moglie, padre o madre e figlio. Ciò che manca alla semplice ed ancora "privata" reciprocità dell’ "amor mutuus" è in realtà la gioia per un "terzo", per ciò che Riccardo chiama, con un termine di suo conio, il "con-dilectus", è l’apertura senza riserve nei confronti di un mondo di "terze persone".

È solo in questa apertura, infatti, che la relazione interpersonale raggiunge per Riccardo la sua pienezza. Per questo, "è un segno di grande debolezza il non poter tollerare una comunanza nell’amore (consortium amoris)"; ciò che questa "infirmitas" indica è il fatto che un "noi" esclusivo, un "noi" che si rinchiudesse in una autosufficiente e solitaria dualità, mancherebbe in realtà la sua intenzione più profonda, non riuscirebbe, cioè, a realizzare quella stessa comunicazione dialogica e quella reciproca condivisione che sono al fondo di ogni autentico legame interpersonale, di ogni autentico legame di amicizia o di amore. Per questo motivo, la "probatio" di un amore pieno consiste nel "desiderio che sia comunicata la dilezione con la quale si è amati"; in questa "votiva communio", come recita qui il testo di Riccardo, in questo uscire-da-se stessi per farsi incontro al "terzo", nel servizio e nel compiacimento nei suoi confronti, l’"io" e il "tu", infatti, possono in lui, nel "condilectus", condividere ed offrirsi effettivamente l’un l’altro anche quella "delectatio" e quella gioia che essi sperimentano nel loro "amor mutuus".

È il "terzo", dunque, è l’apertura senza riserve nei confronti di un mondo di "terze persone" che custodisce quella comunicazione dialogica e, con essa, quel vincolo relazionale nei quali si radica la nostra stessa identità personale. Spezzando la chiusura ermetica di ogni relazione a due ed aprendola verso l’"esterno", il "terzo", infatti, fa entrare il rapporto tra l’"io" e il "tu" in un nuovo orizzonte di prossimità, consente alla dualità di realizzarsi in una "vera pluralità", come la definisce Riccardo, nella pluralità viva di un "noi" comune, in quella autentica "communio" animata dall’amore che Riccardo definisce "consocialis amor" e che rappresenta la modalità più originaria di ogni realtà personale.

È per questo che l’esperienza dell’amore umano può costituire per Riccardo un’analogia teologica, può essere uno "specchio" nel quale contemplare il "mysterium Trinitatis", può servire come una "scala" per giungere a comprendere come, in quanto "summa caritas", in quanto evento per essenza di comunicazione, il Dio personale della fede cristiana non possa essere concepito come una monade isolata, ma debba necessariamente sussistere come una "pluralità di persone". "Chi vede la carità vede la Trinità", secondo le parole del De Trinitate di Agostino che Benedetto XVI cita in apertura della seconda parte dell’enciclica. E in effetti, di questo movimento della riflessione di Riccardo si può dire quello che una volta un filosofo contemporaneo, Charles Taylor, ha scritto a proposito di questo testo di Agostino: "Quando raggiungi la prospettiva secondo la quale quel che è importante nella vita umana è ciò che intercorre tra di noi, allora ti stai avvicinando alla Trinità".