Una giustizia più grande: Condividere l’amore di Dio con tutti

Roberto Mancini

 

1. Il valore antropologico dell’amore

Lo scopo di questa relazione è quello di tornare a portare attenzione sull’amore di Dio e sulla sua natura. La riflessione offerta nell’Enciclica Deus Caritas est è un invito in questo senso che va accolto considerando l’Enciclica non come una teoria rigida e conclusiva, ma come un richiamo che apre una strada, che guarda in una direzione rinnovata di impegno e che quindi dilata l’orizzonte perché possa essere percorso un cammino nuovo. Il pensiero, quindi anche il pensiero consegnato all’Enciclica, può essere orientato almeno in due modi: possiamo usare i concetti letteralmente per definire e per chiudere una questione, quasi congelando le cose che pensiamo, oppure il pensiero può essere usato per aprire spazi e vie. Così accade quando dal pensiero interprete fedele della vita emerge una parola importante, per esempio la parola misericordia, la parola perdono, la parola amore fraterno, quella parola non è una espressione verbale senza valore, perché invece schiude e custodisce uno spazio di senso abitabile, vivibile, assumibile positivamente. È il caso in cui, come ha notato il teologo brasiliano Ruben Alves1, il pensiero ci dà parole da mangiare, che nutrono il nostro divenire pienamente persone.

Gli esseri umani, nonostante tutte le contraddizioni, vogliono vivere all’altezza del senso, del valore, della luce, e quando avvertono che non ha senso quello che stanno facendo non accettano più di andare avanti. Allora le parole, il pensiero, la riflessione non sono inutili, ma ci aprono, ci custodiscono questi spazi aperti. La riflessione sull’identità di Dio in quanto carità, in quanto amore incondizionato, amore assoluto, tocca quanto di più centrale, di più essenziale e di più fondante ci sia nel cristianesimo e, direi, nella condizione umana e cosmica. E al tempo stesso tocca la realtà più nuova, proprio quella realtà che non abbiamo ancora finito di comprendere e di assumere nell’esistenza. Si può dire "Dio è amore" come se fosse una pura definizione concettuale, quasi una conclusione dell’identità di Dio. Oppure si può avvertire che questa affermazione è concreta e precisa, eppure possiede un’immensa profondità simbolica,carica di un significato che noi non riusciamo a spiegare. Questo eccesso di significato ci invita, ci chiama sulla strada; direi anzi, per essere più chiaro, ci interrompe. Ricordare che Dio è amore, riflettendo sulle implicazioni del fatto che ogni sua rivelazione risale al dinamismo di un amore trascendente e sconosciuto e insieme costitutivo del nostro essere, è qualcosa che ci spinge ad avere un’esperienza del mistero di Dio stesso. Tale esperienza non si dà se non imparando a ospitare in noi e nella vita quotidiana una scintilla di questa identità del Dio amante. Il che per noi è particolarmente importante perché perdiamo spesso di vista ciò per cui vale la pena vivere e ciò che in questo vivere davvero vale. L’esperienza della confusione e del disorientamento non è un dato esclusivo della situazione degli altri o della società, è un’esperienza anche delle comunità cristiane, della chiesa stessa.

Per noi amare vuol dire imparare ad amare. Vivere con e per amore non è affatto immediato, spontaneo, soprattutto se il riferimento è all’amore di Dio, che si può caratterizzare nella differenza con l’amore abituale di cui noi siamo capaci semplicemente con questi tre aggettivi: un amore generoso, fedele, misericordioso. La buona notizia, qui, illumina una possibilità inaudita. l’amore umano può imparare questa qualità d’amore, può confluire nell’amore divino e ricomunicarlo. Il nostro amore può essere geloso, avaro, distruttivo, accecato, delirante e tutte le nostre tragedie derivano dall’amore mancato o dall’amore sbagliato.

L’amore non è soltanto un sentimento, tanto meno un impulso irrazionale, quasi una malattia,ma è essenzialmente il dinamismo fondamentale del diventare persone e, per il genere umano, del diventare una famiglia indivisa, armonica, non più lacerata dall’iniquità. Questo amore luminoso lo possiamo apprendere solo da Dio, da quella che è la nostra esperienza di Dio, ma dobbiamo fare un cammino per interpretarla senza pretendere di chiuderla ed esaurirla in definizioni. Perciò dire che Dio è amore non è una definizione, è un invito, un appello, una vocazione perché noi apriamo la nostra esistenza all’identità misteriosa di Dio stesso, a quell’identità misteriosa che però si è rivelata nell’amore misericordioso. Ha scritto Abraham J. Heschel: "La vita umana rappresenta un punto d’incontro tra la mente e il mistero. Perciò l’uomo non riesce mai a vivere con la sola ragione, né riesce a svilupparsi con il solo mistero. Arrendersi al mistero è fatalismo, rifugiarsi nella ragione è solipsismo. L’uomo è spinto a comunicare con ciò che è al di là del mistero. L’ineffabile dentro di lui cerca una strada che porti oltre il mistero. A Israele è stato insegnato il modo con cui accostarsi a Colui che è oltre il mistero. Oltre la mente c’è il mistero, ma oltre il mistero c’è la misericordia"2. Dio non è solo mistero, è mistero che si è generosamente rivelato e incarnato: in Gesù Cristo è vissuto e perennemente vive come misericordia nel cuore della condizione umana.

 

2. Una società disperata e piena di promesse

È necessario comprendere le condizioni e le implicazioni di questo nostro bisogno di tornare ad attingere all’essenziale. Infatti abbiamo bisogno sempre di nuovo di assumere questo amore di Dio in maniera che sia la corrente vitale del nostro modo di vivere, perché questa verità si comprende con la vita e non solo con lo studio, non solo con la mente, non solo con i convegni, ma si può maturare soltanto con l’intero nostro essere lungo il cammino dell’esistenza. Dire che Dio è amore non può essere una frase. Comprendere il valore la verità di questa frase dentro la vita può richiedere molti anni. In questo percorso non possiamo pensare di partire anzitutto portando agli altri l’amore di Dio; a volte abbiamo la fretta di portare, di salvare, di dare. Alla logica del dono, che è quella che ci è rivelata dalla tradizione evangelica, si accede imparando a ricevere e non anzitutto cominciando a dare. Tutto quello che noi siamo e anche quello che abbiamo lo dobbiamo agli altri; siamo unici e originali perché abbiamo elaborato originalmente i doni che gli altri ci hanno dato: doni di cura, di ascolto, di amore, di pazienza, di perdono. Questo ci ha permesso di "costruirci" come persone, di esistere come persone. Imparare a ricevere questo messaggio come alimento di vita, come cammino di vita, come pane che nutre e acqua che disseta richiede anche, tra l’altro, un impegno del pensiero, un tentativo di orientarsi attraverso i significati di questo percorso.

Dove siamo noi oggi che ci interroghiamo sull’esperienza di Dio come Amore ? Da quale luogo storico stiamo riflettendo ? La nostra è una storia disperata e piena di promesse. Disperata perché segnata da una grande iniquità; se dall’alto oggi qualcuno guardasse la storia dell’umanità, vedrebbe una famiglia di sei persone dove due sono all’opulenza, mentre quattro persone di quella stessa famiglia sono alla fame e alla disperazione. Questa iniquità strutturale che oggi viene chiamata globalizzazione promette apparentemente l’unificazione dell’umanità: sembra che globalizzare significhi unificare. Ma quella promessa e questa equazione sono false perché in realtà questo modello unico di realtà vive su una strutturale disparità nella tutela dei diritti umani, nella tutela della dignità del lavoro, e persino produce una proliferazione delle nuove schiavitù. Se la tutela dei diritti umani fosse omogenea su scala mondiale a tutte le latitudini, la globalizzazione finirebbe il giorno stesso, avremo un altro modello, un’altra forma di convivenza.

In una società che venera il denaro, l’essere umano fa la fine di un "esubero", cioè qualcuno che è di intralcio, oppure di una "risorsa", come quando si dice che i giovani o i migranti sono le risorse dell’umanità. Non è un complimento, vuol solo dire che si è dei mezzi utili per produrre profitto. Non è un riconoscimento della dignità della persona. E la risorsa di oggi sarà l’esubero di domani. In una società in cui i valori fondamentali sono di fatto i valori quotati in borsa, i valori monetari, i valori viventi incarnati naturalmente recedono, sono minoritari e puramente funzionali al denaro. Parlo di valori viventi per dire valori che respirano: le persone, le relazioni, le comunità, l’umanità intera, il mondo vivente. E anche il Dio vivente. Mi riferisco dunque a tutto quello che realmente incarna un valore, dove "valore" non vuol dire un concetto. Non è in gioco tanto il concetto di libertà, il concetto di giustizia, e così via, ma quei valori radicali che sono le persone, le vite e la loro Origine. Tutto questo viene considerato secondario. Da questa angolatura, allora, si capisce anche che emergano tendenze culturali di relativismo, di rinuncia alla verità, di egoismo diffuso e sbandierato come se fosse un merito; ma bisogna vedere che la radice di tali tendenze sta in questa idolatria della potenza del denaro che in qualche modo fatalmente subordina i valori viventi. Costretta entro questa logica alienata l’umanità non ha futuro; non si può sperare che ci sia un meccanismo salvifico - nel nostro caso odierno il Mercato -. Un meccanismo è un idolo che ha occhi ma non vede, ha orecchie ma non ascolta, come la Bibbia ha mostrato una volta per tutte. Nessun meccanismo è salvifico.

C’è un altro versante di questa nostra esperienza storica e si delinea grazie alla coscienza crescente della interdipendenza profonda di tutta la famiglia umana. E anche della famiglia umana con il creato, con il mondo naturale. Cominciamo a capire anzitutto che l’essere umano ha un valore incondizionato, non lo posso subordinare, e questo vale per la vita innocente e per la vita colpevole. Qui non posso più usare lo schema buoni-cattivi, amici-nemici: il valore dell’essere umano è un valore incondizionato, va al di là di questi nostri calcoli. L’altra cosa che si comincia a vedere è che non solo siamo responsabili l’uni degli altri, ma siamo anche responsabili della vita del creato, del mondo vivente. Ne siamo i custodi, non i signori, non i dominatori. Il mondo naturale non è solo l’ambiente. Finché lo chiamiamo "l’ambiente", sembra una cornice poco rilevante rispetto a noi che siamo il quadro. La natura non è la cornice, è la rete vitale a cui anche noi apparteniamo, seppure con una capacità e un dovere di andare oltre. Ma tale capacità e tale valore originale dell’umano è il valore del custode, del responsabile, di colui che dà voce a queste forme di vita che non hanno voce, perché anche esse sono espressione della creazione di Dio e ci sono affidate nella prospettiva dell’armonia definitiva del Regno.

Siamo allora in questa situazione ambivalente: da un lato la disperazione di una società che non vede per sé una promessa, ma solo la crescita ossessivamente cercata del Prodotto Interno Lordo, oppure le catastrofi sociali ed ecologiche prodotte dalla sua stessa logica; dall’altro la nuova consapevolezza della condizione creaturale e delle responsabilità che ci affida. Quando impariamo a sperare, quando riconosciamo lucidamente futuro e valore nel segno della promessa di Dio, allora possiamo vedere strade lì dove tutto sembrava precluso. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer che "il concetto non biblico di ‘senso’ è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama ‘promessa’ "3. Non c’è un altro criterio di senso, non è una filosofia la Bibbia, non è una costruzione di concetti, è la narrazione di una storia dell’incontro con Dio, dove Dio si rivela con questa promessa di compimento, la promessa che fa un padre, che fa una madre. Promessa di felicità. Chiunque crea o genera non fa nascere l’altro per soffrire, o perché muoia. La promessa inscritta nell’atto creativo è una promessa di trasfigurazione dell’esistenza, di liberazione totale in modo che la vita sia una comunione irreversibile, quello che l’Evangelo chiama il Regno di Dio.

 

3. Il cammino della chiesa oggi

In questa situazione la Chiesa è convocata non certo a riaffermare una ideologia religiosa. Quando la religione si ripiega su di sé è essa stessa, non l’ateismo, a perdere contatto con il Dio Vivente. Quante volte ci accade che slittiamo dall’esperienza, dalla presenza di Dio all’idea di Dio, a un concetto su Dio: in tal caso restiamo entro il limite dell’ideologia e se è solo un concetto, una rappresentazione culturale, allora Dio sarà la ragione fondamentale delle nostre divisioni, perché il nostro concetto di Dio non sarà diverso solo tra varie religioni, sarà diverso persino da persona a persona. Chi riduce Dio o la verità a una rappresentazione si pone in una zona di immunità dalla relazione con Dio o con la verità stessa e pretende di spiegarne e contenerne la realtà con le proprie categorie. Chi fa in questo modo non sa che cosa sia la conversione in atto. Non è il concetto di Dio che ci unifica, è l’esperienza liberante e misericordiosa del Dio Vivente.

Il compito attuale della chiesa, in questo cammino di apprendimento e di assunzione dell’Amore di Dio, non assomiglia a quello degli scribi e dei farisei. Non è cercare l’egemonia culturale nella società attraverso un’ideologia religiosa; la chiesa è convocata piuttosto come coloro che si trovarono a passare sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico (Lc. 10, 29-37), in modo che si fermi a prendersi cura dell’altro, della sorella o del fratello che è stato travolto da una storia che non sa vedere il valore dell’umanità e dunque non sa neppure vedere il valore di Dio. La chiesa è viva e fedele lì dove vive la giustizia dell’amore, dove instaura e serve la sororità e la fraternità della filiazione con Dio.

I modi per passare oltre di fronte al corpo ferito dell’altro sono diversi: il primo modo è forse proprio quello di un giudizio a distanza, come se la chiesa fosse autorizzata a rovesciare l’indicazione evangelica di Gesù che annuncia, a nome di Dio: "Misericordia io voglio e non sacrificio" (Mt 9 e 12; cfr. Os 6, 6). Noi non possiamo rovesciare questa Parola per dire "sacrificio io voglio e non misericordia". Non sarebbe questo il volto vero della chiesa, quello chiamato a comunicare tale infinita misericordia a tutta l’umanità. Per fare davvero questo la chiesa non può ridurre l’Evangelo a regole e divieti morali, come facevano gli scribi e i farisei; non lo può ridurre a norma giuridica, né ricondurlo a un puro ordinamento biologico della natura. Infatti non è negli automatismi della natura che si trova il senso della vita evangelica, né negli automatismi della società. Questa misericordia che a noi appare incomprensibile, eccessiva, impossibile, eppure accettando la conversione possiamo apprenderla, ricomunicarla. Solo da una reale esperienza di Dio sgorga una reale esperienza di Chiesa. La misericordia è la soglia ineludibile e universale di tale esperienza.

Un altro modo per mancare ed evitare l’incontro con la vittima sulla nostra strada sta nel pensare che il nostro compito oggi sia la lotta ideologica. Secondo la logica dello scontro delle civiltà, letta dall’angolatura della tradizione occidentale, i cristiani dovrebbero battersi contro le altre religioni, contro il secolarismo, l’illuminismo, il relativismo, il nichilismo. Ma noi non abbiamo il diritto di inculcare le nostre idee nella mente degli altri. Si tratta piuttosto di dare umilmente una testimonianza credibile di un modo di vivere che forse può aiutare a superare le cadute di speranza e le forme di rinuncia alla verità. Senza responsabilità verso verità vivente non riusciamo a convivere: se non c’è una verità che fa da orizzonte alla esistenza collettiva resta un solo criterio: la violenza, il dominio del più forte. Anche in questo senso il Vangelo dice "la verità vi farà liberi" e non sarà in nome della verità che qualcuno potrà opprimere o instaurare un dominio. Perché la verità è amore, è l’amore di Dio.

Di fronte a questa realtà essenziale il compito della chiesa non è quello di una lotta ideologica, di dare un giudizio a distanza quasi da una posizione di superiorità del credente nei confronti della comune umanità. Il suo compito è di agire per condividere l’amore di Dio con tutti. Per fare questo la chiesa deve lasciarsi liberare dalla paura, deve risentire su di sé l’amore di Dio che guarisce dall’angoscia. Uno dei primi frutti dell’esperienza di un amore vero sta nel fatto che esso toglie la paura e libera il cuore. Non si può amare finché il nostro cuore è serrato dalla paura dell’irrilevanza, dalla paura della vita come perdita e sconfitta, dalla paura della morte, dalla paura degli altri. Fin quando il cuore è pieno di paura, anche se le nostre labbra evocano Dio e la sua Parola, in realtà non siamo credenti. Liberarsi della paura, esserne liberati, vuol dire cambiare lo sguardo del cuore e dell’anima. Se davvero crediamo che Dio è Amore generoso, fedele e misericordioso, non possiamo restare nell’angoscia. Recuperare uno sguardo liberato è una svolta che toglie i cristiani da una posizione di difesa, di ripiegamento, quasi di inimicizia nei confronti del resto del mondo. I cristiani non hanno nemici: l’invito di Gesù all’amore dei nemici vuol dire non solo una benevolenza nei confronti di chi ci è avversario, ma più radicalmente prefigura il dissolvimento della relazione di ostilità. Perché ora vediamo in colui che appariva nemico un fratello. Da questo punto di vista il cristiano ha persecutori, non ha nemici; è un problema degli altri se vogliono ostinarsi a essere nemici. Ma il cristiano non considera l’altro come un nemico, perché si ricorda che nonostante la violenza, il delirio dell’altro, nell’altro c’è una radice divina, c’è Dio che abita in lui anche se l’altro può non sentire questa presenza. Il cristiano, allora, non è uno che va alla guerra contro i nemici; questi fenomeni sono stati errori storici che non dobbiamo ripetere più.

Porsi in questo modo non violento e umilmente positivo nei confronti dell’umanità significa sperimentare realmente la condizione di vita che Kierkegaard chiamava il farsi contemporanei di Cristo. Finché percepiamo dei pericoli la nostra reazione è nel segno della paura, ma se noi ci riconosciamo contemporanei di Cristo, allora la nostra risposta è amorevole, non è una mera reazione di difesa o di attacco. Infatti la libertà è risposta originale e creativa, non un reagire meccanicamente e simmetricamente. La libertà inizia dove smettiamo di reagire e cominciamo a rispondere. E qui si vede che, come ha sottolineato Emmanuel Levinas nella sua riflessione etica, che dire "io" significa in verità dire "eccomi". Credo che questo valga anche per la chiesa: la parola "chiesa" in questo senso significa "eccoci", è la disponibilità di chi ha ricevuto e dunque può ricomunicare la fiducia, la pazienza, la generosità, la misericordia di un amore che è talmente umano da essere di origine divino. La radice dell’umano è l’amore creativo del Dio Vivente.

 

4. La fede nasce dalla misericordia

Gesù ci invita a una "giustizia più grande" (Mt 5, 20), quella che si attua nel condividere l’amore di Dio con tutti. Non è una giustizia puramente retributiva, cioè fare del bene ai buoni e fare del male ai cattivi; per una simile simmetria non serve il legame con Dio, non c’è niente di divino nella giustizia retributiva. E non è una giustizia penale, nel senso di una logica che porta a infliggere una pena a chi sbaglia. La giustizia più grande è proprio questo amore di misericordia, per cui l’amore non è l’opposto della giustizia, non è un’altra cosa dalla giustizia: l’amore generoso, fedele e misericordioso è la giustizia superiore, è la giustizia radicale, e se la giustizia non è capace di amore, non ha alcun rapporto con esso, non è vera giustizia.

Una svolta così profonda non nasce semplicemente dallo sforzo o dal senso del dovere. Nasce dall’esperienza del Cristo risorto. Il cristianesimo nasce dalla memoria della resurrezione, dall’annuncio che il Signore è risorto, è tornato dai morti. Rimettere al centro questa memoria vuol dire anche iniziare a volgersi nella direzione da cui possiamo trarre l’energia necessaria alla conversione e alla condivisione dell’amore di Dio. Non possiamo infatti trattenere l’amore di Dio per noi come se fosse un tesoro da nascondere gelosamente, così come "Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio" (Fil 2, 5-6). Nel dilatarsi della dinamica di condivisione dell’amore l’energia fondamentale è quella della vita risorta. La resurrezione ci interpella non come l’atto finale dell’esistenza biologica, tanto meno come un premio o una specie di assicurazione sulla vita; ci interpella invece come una esperienza da anticipare in frammento dentro la nostra condizione umana, come una esperienza di liberazione dal male.

La libertà dei figli di Dio è la libertà dalla morte, è la libertà dalla paura, dal male. Non vuol dire che siamo immuni dalla paura, dalla morte, dal male noi: con tutto questo noi ci confrontiamo come tutti, ma siamo chiamati a rendere credibile una filiazione con il Dio vivente che già oggi ci permette, se attingiamo al Suo amore, di sperimentare l’esperienza di liberazione dal male fino a quella che sarà la liberazione dalla morte biologica. Questa speranza e questa qualità di vita diversa da immettere nelle nostre vite è al centro dell’esistenza cristologia. Se non troviamo in essa il centro del nostro modo di vivere, tutto ciò che diciamo è ideologia staccata dalla vita, è una predica staccata dalla carne, è una esortazione staccata da quello che veramente poi facciamo. A quel punto i cristiani diventano testimoni a rovescio, inattendibili rispetto alla realtà divina a cui dicono di rifarsi. Da questa energia nella vita risorta siamo chiamati alla fedeltà nei confronti di Dio, nei confronti dell’umanità, nei confronti del creato.

In questa prospettiva imparare ad amare vuol dire imparare a donare e a sperare, imparare a credere che dal male c’è ritorno, dal male è possibile la liberazione. Se dal male e dalla morte non ci fosse ritorno e la vita fosse invano, l’angoscia di tale condizione si direbbe che tanto vale essere violenti, egoisti, cercando di addossare la morte agli altri finché è possibile: morte civile, giuridica, sociale, economica e certo anche morte fisica. Il cristiano invece sa che dal male si può uscire e che dalla morte c’è ritorno. Dio ci ha resi figlie e figli, corresponsabili di questo percorso. In tutta la narrazione biblica, Dio non revoca mai neppure per un attimo la libertà umana. Che non è solo libero arbitrio, potere di dire "si" o "no", ma è un cammino di maturazione e di integrazione della soggettività nella relazione con gli altri, con Dio, con la vita. La libertà intera, nell’unità del cuore, della ragione, dell’anima, di ogni fibra del nostro essere, può giungere ad assumere lo stesso sguardo di Gesù nei confronti degli altri, lo sguardo di Dio nei confronti dell’umanità. È importante rinnovare lo sguardo, perché noi agiamo sulla base dello sguardo che abbiamo. se io vedo dinanzi a me un treno che arriva, con terrore cercherò di togliermi, di correre via. Quindi finché vedo un pericolo, le mie azioni saranno semplicemente difensive o di fuga, oppure di aggressione. Quando invece il mio sguardo è pieno di questo amore di Dio, allora la mia azione, in un modo inimmaginabile quando ero nella fatica della contraddizione, esprimerà naturalmente quello sguardo. Non più attraverso il sacrificio, lo sforzo, un senso del dovere che va da una parte ed il desiderio che va dall’altra.

In fondo condividere con tutti l’universalità di Dio vuol dire realizzare l’universalità del Cristo come qualcosa di tangibile e liberante per tutta l’umanità. Spesso tendiamo a scambiare l’universalità con l’universalismo. La nostra pretesa è di impossessarci del Cristo e vogliamo che gli altri abbiamo tradizioni, concetti, linguaggi, modi di fare identici ai nostri. Se guardiamo attentamente questa non è una conversione al Cristo, è una conversione al nostro modo di interpretare il Cristo. Testimoniare e comunicare la Parola del Cristo, Cristo come Parola viva, non si traduce nel fatto che gli altri si convertano alle nostre tradizioni, per esempio che diventino occidentali, con mentalità europea, scambiando il cristianesimo con l’Occidente o con la storia d’Europa. L’universalismo è una falsa via, sarebbe una nuova forma di colonialismo, un tradimento dell’eredità evangelica. L’universalità del Cristo è un’altra cosa, si dà solo nell’esistenza cristologia, cioè in una disponibilità a vivere in maniera che il riferimento a Cristo dà la forma della nostra esistenza. L’esistenza cristologica è quella che si lascia trasformare e prima di pretendere di convertire gli altri si espone a conversione, dà ospitalità alla Parola di Dio e al modo che Cristo aveva di rivelare Dio. È una trasformazione di sicuro personale, ma richiesta direttamente alla Chiesa. Una Chiesa intera che si impegna in questo cammino nel dare forma cristologica alla sua esistenza sarebbe l’attendibile rivelazione della presenza di Dio nella storia presente.

Il tratto distintivo, la soglia, il punto di accesso alla forma cristologia dell’esistenza è l’esperienza della misericordia. Dice Paolo nella lettera ai Romani che la fede nasce dall’udito (Rm 10, 17), ma non si tratta di un qualunque messaggio verbale: quello che realmente ascoltiamo è la misericordia di Dio. Finché non sono passato per questa sorta di battesimo dell’anima per cui io sento che Dio mi ha sognato, mi ha voluto, ha voluto proprio me, e mi ama incondizionatamente nonostante gli errori, nonostante le manchevolezze, i tradimenti, finché dentro non sono illuminato da questo amore misericordioso di Dio, anche la mia fede è piena di angoscia, di distanza dal Dio che a parole dico di onorare. La soglia della vera esperienza di fede si apre entrando nello sguardo misericordioso di Dio. Chi è entrato in quello sguardo in modo naturale ricomunica ad altri misericordia, non lo può trattenere, non è un oggetto di proprietà privata. Ma allora la Misericordia non è solo un sentimento, poiché diventa forma di vita, forma di convivenza, logica di correlazione nei confronti degli altri. Così il problema dell’amore diventa un problema di traduzione: si tratta di imparare a tradurlo in ogni ambito della realtà: nell’economia, nella politica, nella educazione, nel rapporto con la natura. Imparare a tradurre l’amore in modo che in ogni situazione noi riusciamo a portare questo sguardo e questa forza liberante. La forma dell’esistenza cristologica si manifesta nei suoi frutti, nell’azione che fa la sintesi di quello che siamo. Ancora una volta non basta avere in testa una ideologia cattolica, bisogna agire da cristiani ed è necessario che l’azione sia feconda, che porti liberazione, riconciliazione, giustizia più grande.

 

5. Criteri per l’azione storica

Ci sono criteri di discernimento per l’azione storica dei cristiani, criteri conformi all’eredità evangelica ? Al termine di questa riflessione vorrei indicarne alcuni. Anzitutto mi riferisco a quello che chiamerei la tolleranza degli effetti del negativo. Uso questa parola in genere usata nel linguaggio politico su un altro piano; dire che la tolleranza va agli altri è ambiguo, perché alle persone non va riservata la tolleranza. E tanto meno l’intolleranza. Se uso tolleranza verso di te, ciò vuol dire solo che non ti perseguito, ti sopporto finché ci riesco. Alle persone va il riconoscimento della loro dignità. Ti riconosco come fratello, come sorella, sei un valore vivente. Certo la convivenza comporta pesi, conflitti, ostacoli. Affrontarli con lo sguardo di chi riconosce nell’altro un valore è una cosa, affrontarli con lo sguardo di chi vi sente un peso è un’altra. Dalla tolleranza arriverò all’intolleranza. Mentre alle persone va il riconoscimento, la tolleranza, nel senso latino del termine, va agli effetti del male. Il male infatti produce effetti e continua a produrli nel tempo. Pensiamo alle ingiustizie nella storia, quanto ancora continuano a produrre frutti velenosi. Questi effetti vanno disinnescati, vanno portati per essere spenti, per ripristinare nuove possibilità di bene. Il dolore del mondo cerca chi lo porti, gli effetti del male devono essere in qualche modo affrontati e risanati. Così il cristiano è qualcuno che di fronte al negativo che c’è da portare non si tira indietro addossandolo agli altri, ma se ne fa carico in prima persona. Nel cuore del cristianesimo c’è il simbolo della croce, l’esperienza della croce, questa "tolleranza" del carico dell’odio e del delirio.

Un altro criterio è quello dell’azione non violenta. Il criterio evangelico giunge all’amore per i nemici, invitandoci a condividere con gli altri un amore di Dio che è capace, a differenza del nostro, di rispondere al male con il bene. La violenza è un contagio, se io rispondo alla violenza per fermare la violenza non faccio altro che alimentare il contagio. È chiaro il legame indissolubile tra tolleranza degli effetti del negativo e azione non violenta; l’una non sta senza l’altra.

Un criterio ulteriore dell’azione dei cristiani è l’incarnazione. Questa è proprio è una legge antropologica, universale: amare vuol dire incarnare un amore, passa sempre per percorsi di incarnazione, di profonda condivisione. Ecco perché l’amore non è solo un sentimento, non è solo una benevolenza mentale, ma è un percorso di trasformazione della vita. "Incarnazione", in una società iniqua come la nostra, vuol dire essere disposti ad agire aprendosi a relazioni di condivisione di vita nei confronti dei respinti, degli ultimi del mondo, di quelli che nessuno vorrebbe avere neppure seduti vicino. Il che significa prendere congedo dall’assistenzialismo, dalla delega a qualche istituzione. L’azione cristiana è quella che entra in una relazione strutturale di condivisione con la vita degli ultimi, non ha paura di questa discesa agli inferi, non la lascia solo a Gesù di Nazaret, la assume con responsabilità personale e collettiva. Non c’è azione feconda che non passi per questa incarnazione, poiché il mondo non si cambia con la propaganda, avendo tutte le televisioni, tutti i soldi, tutti gli strumenti per fare campagne pubblicitarie; il mondo lo cambia realmente solo chi ha il coraggio di questa incarnazione.

L’ultimo criterio che evidenzio è quello della restituzione. Vuol dire la reintegrazione delle persone nella loro dignità, la restituzione dei diritti e dei loro doveri fondamentali perché noi siamo sempre co-soggetti del bene, non siamo degli assistiti dal bene. Quindi abbiamo diritti, ma nella stessa misura abbiamo doveri fondamentali che dobbiamo poter esercitare. Forse per questo la parola restitutio in latino traduce il apokatastasis negli Atti degli apostoli (At 3, 21). Il criterio della restituzione, non quelli dell’appropriazione, dell’accumulazione, dell’esproprio, è tipico dell’azione giusta e feconda.

Se i cristiani e la Chiesa saranno perseveranti e fiduciosi nel cammino dell’imparare ad amare da Dio, attingendo al Suo amore, si libereranno della tentazione di cercare un’egemonia culturale e politica, etnica o economica, dilatando invece lo spazio del Regno nella storia. Dall’esperienza del Dio vivente nasce la liberazione dal male, che rinnova il volto della Chiesa e del mondo. Il compito attuale e permanente dei cristiani è quello di vivere un’esistenza cristologica, in modo che gli altri possano davvero scoprire la vita come dono e Dio come Padre, Madre d’infinita misericordia, tenerezza, consolazione.


1 Cfr. R. Alves, Parole da mangiare, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2001.

2 A. J. Heschel, Dio in cerca dell’uomo, Roma, Borla, 1980, p. 379.

3 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1988, p. 475.