Don Leonardo Zega

I DIALOGHI DELLA MISERICORDIA

Leggo il passo conclusivo del primo capitolo della "Dives in misericordia", al n. 2: "La rivelazione e la fede ci insegnano non tanto a meditare in astratto il mistero di Dio come 'Padre delle misericordie', ma ricorrere a questa stessa misericordia nel nome di Cristo e in armonia con Lui. Cristo non ha forse detto che il nostro Padre, il quale 'vede nel segreto', attende, si direbbe, che noi, richiamandoci a Lui in ogni necessità, scrutiamo sempre il suo mistero: il mistero del Padre e del suo amore? Desidero, quindi, che queste considerazioni rendano più vicino a tutti questo mistero e diventino al tempo stesso un vibrante appello della Chiesa per la misericordia, di cui l'uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno. E ne hanno bisogno anche se sovente non lo sanno".

Poco prima il Papa aveva scritto: "Il mistero di Dio 'Padre delle misericordie' diventa, nel contesto delle odierne minacce contro l'uomo, quasi un singolare appello che si indirizza alla Chiesa".

L'Enciclica si muove dunque, mi pare, tra questi due poli: appello della Chiesa, perché, in nome di Dio, gli uomini riscoprano e pratichino la misericordia; appello alla Chiesa, perché traduca in termini concreti, visibili, esemplari, tra gli uomini e per gli uomini del nostro tempo, il mistero della misericordia di Dio. Tutto ciò per rispondere sia a coloro che soffrono e invocano misericordia, perché sanno che è questa l'unica via di salvezza; sia a coloro che credono di non averne bisogno, perché a ben altri mezzi e medicine vorrebbero affidarsi per guarire i mali del mondo. Sullo sfondo di questo scenario, io scorgo, ancora e sempre, l'immagine di Paolo VI, che si inginocchia ai piedi degli "uomini delle B.R." e poi celebra la messa di suffragio per Aldo Moro; vedo il figlio di Vittorio Bachelet, che offre il suo perdono agli uccisori del padre, vedo la moglie e il figlio di Walter Tobagi raccolti con i parenti in una saletta della parrocchia milanese ove stanno per iniziare i funerali del giornalista assassinato; vedo il sangue di Giovanni Paolo II e quello sparso in tante altre città. E, dietro di essi, una lunga schiera di volti dolenti, vittime d'un mondo che ha ucciso la pietà. Sembrano tutti - dal Papa alla più umile vedova - degli sconfitti; sono invece profeti della misericordia, che chiedono, con la forza della loro testimonianza, che essa torni sulla terra a sedare l'odio e la violenza.

È dunque possibile una lettura dell'Enciclica di Giovanni Paolo II in chiave di attualità, come messaggio di speranza, strumento di dialogo e di incontro con gli uomini del nostro tempo. E la mia presenza qui si giustifica soltanto per questo: non sono un teologo di professione, né un sociologo del genere; sono piuttosto un "cronista", un testimone. Rappresento una rivista, Famiglia Cristiana; una Congregazione religiosa, la Società San Paolo (proprio oggi ricordiamo il decimo anniversario della scomparsa del suo Fondatore, d. Giacomo Alberione); e un gruppo editoriale con un cospicuo numero di giornalisti, professionisti e tecnici della comunicazione sociale, fortemente impegnati in questo dialogo della misericordia con una vasta platea di ascoltatori. Il dialogo è anzitutto ascolto, e l'ascolto è forse la prima e più delicata opera di misericordia necessaria oggi. Noi ascoltiamo - per dovere professionale e per missione apostolica - un gran numero di persone, sia attraverso i contatti diretti, sia attraverso la corrispondenza. Su queste "voci" costruiamo settimanalmente la rivista. Riceviamo oltre 400.000 lettere l'anno, 8.000 la settimana. Pur escludendo quelle di carattere tecnico-organizzativi, ne resta un blocco impressionante che toccano problemi esistenziali. Non possono ora addentrarmi in un esame dettagliato: posso però affermare che la richiesta di misericordia non è mai stata così presente e così pressante come di questi tempi; e tentare di indicare, al tempo stesso, sulla scorta di alcuni fatti, controllati di persona dai colleghi di redazione o da me stesso, le opere di carità che paiono oggi più urgenti e più attese dalla gente. ROSA è una ragazza del Centro-Sud, 23 anni famiglia benestante, al quarto anno di medicina, quando accadono i fatti descritti in una lettera giuntaci verso la metà dello scorso anno. Conosce un giovane, se ne innamora, resta incinta. I due devono lasciare il paese natio, si rifugiano al Nord, finiscono in un abbaino che s'affaccia su una via, un tempo splendida, oggi malfamata. Gli studi interrotti, il lavoro precario, un ambiente che li ignora quando non gli è ostile. Lei perde il primo bambino, poi ne nascono altri due, senza che nessuno la tenda una mano. Quando ci scrive sono già passati quattro anni d'inferno. Avrebbero voluto regolare la loro situazione: lei si presenta ad un sacerdote, racconta il suo caso. Le si muovono tante obiezioni; al suo lamento d'essere stata abbandonata da tutti, si sente rispondere: "Ma cosa volevi, che ti battessero le mani dopo quello che hai fatto?".

"Anche i preti mi rifiutano", ci scrive. E aggiunge: "Sono tornata in paese l'estate scorsa per un breve periodo. La gente faceva finta di non conoscermi". Mandiamo qualcuno a controllare. Tutto vero. Pubblichiamo la lettera. Lei è molto dignitosa, piuttosto intimidita dalla pubblicazione. Ma si intenerisce per il nostro interessamento. Le indichiamo un sacerdote che, opportunamente preavvertito, sistema rapidamente ogni cosa. Adesso sono una coppia serena: il marito si è laureato ed ha un buon lavoro, lei ha ripreso gli studi. Si sono "sciolti" persino alcuni parenti. Un caso fra mille, ma emblematico. Chi si cura delle ragazze madri, degli emigrati per forza, di tante vite buttate via per la nostra durezza di cuore?

Racconta Franca Zambonini, capo della nostra redazione romana: "Visitare i carcerati", imparavo alla dottrina; ed era l'opera di misericordia che mi appariva più avventurosa ma anche meno praticabile. Oggi sembra una delle più richieste. Albino Cimini, 28 anni, da Terni, è un suonatore di chitarra in complesso rock; anzi lo era, attualmente è condannato a 30 anni e li sconta nelle prigioni turche. L'hanno arrestato laggiù con un etto e mezzo di hascisc in tasca. L'hanno condannato ad una pena così lunga perché in Turchia sono severissimi con la droga, anche con chi la usa, non solo con chi la spaccia. La madre di Albino, la signora Anna, si è rivolta a noi di Famiglia Cristiana, perché facessimo qualcosa per il figlio. Che cosa? Niente, le leggi turche sono inflessibili. Quel po' che abbiamo potuto fare per Albino è stato chiedere ai lettori di stargli vicini, scrivendogli. I nostri lettori, soprattutto i giovani, hanno mandato ad Albino, nel carcere di Ankara, lettere, cartoline, giornali. La signora Anna ci ha detto che Albino trova in queste corrispondenze l'unico conforto. Anche questa è misericordia: una versione possibile e attuale del "visitare i carcerati".

Ci ha scritto un siciliano accusato di parricidio, aveva 16 anni all'epoca del fatto, l'hanno prosciolto in istruttoria; poi ci hanno ripensato; lo hanno arrestato di nuovo e rinchiuso nel carcere minorile di Palermo; compiuti i 18 anni, l'hanno trasferito nel carcere adulti di Termini Imerese. Si chiama Antonio Pirrone ed è in attesa di giudizio. Forse il padre non lo ha ucciso lui, si è addossato la colpa per salvare la madre, credendola colpevole. Lo dirà il processo, noi non ci possiamo sostituire alla giustizia. Ma intanto "visitiamo il carcerato" raccontando la sua storia, denunciando l'assurdità di una legge che tiene un ragazzo forse innocente in mezzo agli ergastolani solo perché ha compiuto 18 anni. In attesa di giudizio o in attesa di pietà?

Il giornalista Cenzino Mussa, racconta un altro dramma dei giorni nostri. Un uomo passa la vita a spaccarsi la schiena in fabbrica, rinuncia a tutto per dare alla famiglia un domani migliore del suo, poi un mattino apre il giornale e scopre di essere il padre di due "brigatiste". Si chiama Ambrogio Zoni, ha 57 anni, e si domanda disperato: quale errore ha commesso?

È la fine del '78, quando accadono i fatti, a Gerenzano, un paese del Varesotto, ottomila abitanti, una fungaia di ciminiere. Zoni ha letto molti giornali nelle ultime settimane. E domanda: "Ma quei signori non sentono la responsabilità che hanno verso i lettori? Dico una cosa e loro ne scrivono un'altra". Sfoga un'amarezza: "La nostra famiglia è in questo paese da centinaia d'anni: tutti sanno che siamo gente onesta. Eppure adesso ci guardano come se ci vedessero per la prima volta". Sua figlia Marina, l'ultima donna di Corrado Alunni, il presunto erede di Curcio arrestato a Milano, è in carcere; un'altra figlia, Maria Teresa, si nasconde da qualche parte. Nella casa di Gerenzano sono rimasti i genitori e l'ultimo figlio, studente di medicina.

Ambrogio Zoni e Gioconda Restelli sono sposati da 32 anni. Lui confida: "Se non ci fosse lei...". Lei dice: "Senza di lui...". Non riescono a finire la frase, per pudore. Hanno conosciuto la povertà: "Con la prima tredicesima abbiamo comperato le posate". Quando comprarono la Lambretta avevano già le due figlie. "Le ho caricate tutte e due con mia moglie che le teneva strette sul sedile, il vigile voleva farci la multa, noi eravamo felici". La moglie racconta: "Ambrogio non fuma, non beve, non è mai andato al cinema e neppure al bar". Lui non sente e continua a dipanare la storia della sua vita, chissà mai che un estraneo possa indicargli dove, in che cosa ha sbagliato: "Forse sono stato ottuso a pensare che lavorare molto per i figli fosse sufficiente. Le mie ragazze, del resto, erano brave, a scuola non s'accontentavano mai dei voti, volevano sempre dieci". Marina si era laureata in lingue alla Bocconi, poi s'era sposata. "Con un rosso che non volevamo in casa. L'abbiamo ostacolata, e questo forse è stato uno sbaglio. Lei si è chiusa, ha perso la sua confidenza. Non riuscivo più a capire, lei e sua sorella. Mi dicevano: Tu te ne stai tranquillo a mangiare la pastasciutta e c'è chi muore di fame. Tu te ne stai tranquillo a guardare la televisione, e c'è chi muore in guerra. Pensavo: ma non sono mica io il colpevole della fame nel mondo, non sono io che dichiaro le guerre. Non è facile parlare con i figli. Forse è soltanto una questione di linguaggio, loro sono più istruiti.... di notte mi sveglio e mi domando: dove ho sbagliato"?.

Ambrogio Zoni è un uomo disperato, che cerca di capire. Per tentare di aiutarlo, noi abbiamo riferito la sua storia, le sue angosce, esattamente come ce le aveva raccontate. Non potevano fare altro. Come consolare questi afflitti? Come parlare a questi e a tanti altri genitori che hanno visto crollare, pezzo dopo pezzo, una famiglia messa insieme con enormi sacrifici. Come evitare i giudizi sommari, l'emarginazione per paura, se non ci soccorre la pietà?

Quella che segue è per certi versi, la storia più penosa. Me l'ha riferita Renzo Giacomelli, che è il nostro vaticanista.

Si tratta d'un uomo sulla sessantina, dirigente di un'azienda elettronica torinese. Felicemente sposato e felicemente padre. Eppure si chiede: sono un uomo o un appestato? è un "ex", un prete sposato. Ha lasciato il ministero sacerdotale nel 1954, dopo nove anni di messa. Ha smesso di celebrare il giorno stesso che sua madre morì. Perché la sua vocazione era in realtà soprattutto la vocazione della madre: lo voleva prete, e un gioco di ricatti, più o meno sottili, aveva sostituito la vera vocazione. Ottenuta la dispensa e sposatosi, deve lasciare il paesotto emiliano dove ha esercitato il ministero. Impianta casa a Torino. La moglie lo sostiene nella difficoltà di inserimento nella vita "normale" e, soprattutto, nelle acute crisi di fede alimentate dall'indifferenza o dall'astio di quelli che un giorno erano stati i "suoi" fedeli.

Arriva il Concilio, c'è qualche apertura. Rimasto finora cristiano esemplare ma silenzioso, decide di farsi avanti per collaborare in parrocchia. Rivela il parroco la sua identità. "Il parroco", confessa, "ha mostrato una grande apertura. Ha accettato in pieno la mia collaborazione. Adesso sono membro del consiglio pastorale, faccio catechesi agli adulti e curo la preparazione dei coniugi al battesimo dei loro figli. Ma tutto questo lo devo fare di nascosto. Non posso dire che cosa sono stato, chi sono. Il parroco dice: 'I fedeli non sono maturi'. Ma se continuiamo a star zitti sui preti che hanno lasciato, i fedeli non matureranno mai, continuerà la discriminazione, se non il disprezzo".

Non hanno diritto, anche questi uomini, alla nostra misericordia?

A lieto fine è invece la storia di Gabriella.

Un giorno dello scorso aprile arrivò in direzione una lettera firmata da una ragazza di Pisa. Il tono particolarmente accorato ma pieno di coraggio con il quale era scritta colpì la mia attenzione. La lessi a voce alta durante una riunione di redazione e ci fu un sussulto tra i presenti. Erano increduli e sgomenti. La lettera raccontava la vicenda di una ragazza di 22 anni rimasta paralizzata in seguito a un intervento chirurgico fallito, costretta sulla carrozzella, rifiutata da tutti, a cominciare dalla famiglia; senza lavoro, senza casa, costretta a vivere in un sottoscala dividendo lo spazio con un drogato dal quale doveva difendersi barricandosi nella sua stanza. Tutto questo a Pisa, a due passi dal "Campo" e nell'anno dedicato agli handicappati.

"Andiamo a vedere", dissi, e un redattore, Claudio Ragaini, si offrì per incontrare Gabriella. Tornò sconvolto, confermò il tutto e pubblicammo insieme alla lettera un breve commento per svegliare le coscienze addormentate. C'erano solo alcuni ragazzi di una parrocchia di Pisa che stavano vicino a Gabriella; loro stessi le avevano suggerito di scriverci. Ebbene, l'appello della ragazza e il nostro intervento, se non hanno svegliato i pubblici poteri, hanno commosso centinaia di lettori. La storia ha avuto poi una conclusione quasi inimmaginabile. Un monsignore di Prato ha offerto alla ragazza un posto di custode e l'abitazione in una colonia marina di Pisa. I lettori con i loro contributi hanno permesso di arredare l'appartamento. E soprattutto Gabriella non è più sola, ha trovato il compagno della sua vita. Ci ha scritto a settembre per comunicarci che si sposava e ci ha voluto presenti al suo matrimonio al quale hanno fatto corona tutti i ragazzi che l'hanno seguita in questo periodo. Noi eravamo là, a rappresentare tutti i nostri lettori, partecipi in qualche modo di un miracolo di solidarietà.

Un'ultima annotazione cronistica. In Italia si sta completando la chiusura degli ospedali psichiatrici, in ossequio alla legge "180" del 1978. È una buona legge, almeno nelle intenzioni. Sui vecchi manicomi (luoghi sinistri in alcuni casi) nessuno versa lacrime. Il pianto comincia quando si guarda alla sua attenzione. Che cosa è accaduto degli "ospiti" (oggi si chiamano così) già "liberati". Che cosa accadrà di coloro che stanno per uscire? Secondo un'inchiesta, condotta per conto di "Famiglia Cristiana" da Pier Michele Girola (sarà pubblicata su uno dei prossimi numeri), "è un destino che incombe su circa 40.000 persone. Nel 1978 al momento dell'approvazione della legge, i ricoverati erano 100.000. Per moti si trattava di una inutile e perversa condanna: dimenticati dalla società, avevano perduto ogni possibilità di reinserimento. Chiusi là dentro, anche i sani finivano per impazzire".

C'è però, il rovescio della medaglia. Lo scrittore (e psichiatra) Mario Tobino ha scritto recentemente che tra i soli dimessi dall'ospedale di Lucca i suicidi sono stati 106. Poi ci sono stati dappertutto omicidi, incidenti, porti per freddo, fame, abbandono. "E non bisogna dimenticare" - aggiunge Anna Rosa Andretta, presidente della Diapsigra, un'associazione che si batte in difesa dei malati psichici gravi - "il lungo elenco dei dispersi". È una cifra impressionante: mille ex ricoverati di cui non si sa più nulla. Buttati fuori dall'ospedale, quando è entrata in vigore la legge, sono scomparsi. Non avevano famiglia, non sapevano dove andare, altri rifugi non ne conoscevano. Dove sono finiti? Prima, venivano definiti emarginati. Oggi che cosa sono? Non era prevedibile che tutto ciò sarebbe accaduto? In nome di principi, anche nobili, si possono fare esperimenti sulla pelle della povera gente? Chi alloggerà questi "pellegrini della disperazione" che si aggiungono ai giovani scappati di casa, ai drogati, ai già tanti figli malati della nostra società malata?

Concludo qui, non già perché siano finite le storie, ma perché mi paiono sufficienti le indicazioni che poi si riassumono in questo: celebriamo il primo anniversario di un'Enciclica sulla misericordia, in questo luogo dedicato all'amore misericordioso di Dio, con l'impegno di tradurre in pratica l'insegnamento. Ma dobbiamo tradurlo in pratica dentro la realtà d'oggi, rivedendo e aggiornando mentalità e metodi, rivisitando, con tutto l'impegno e l'amore di cui siamo capaci, le opere di misericordia classiche, corporali e spirituali. Non possiamo sottrarci al compito di combattere fame, sete e nudità, che oggi hanno assunto una dimensione cosmica; tocca anzi a noi cristiani l'onore e l'onere della prima linea, senza reticenze e senza opportunismi tattici. Intanto nel nostro piccolo, nella vita d'ogni giorno, non vergognamoci d'essere buoni, sempre e con tutti. Non cessiamo di predicare e praticare la bontà. Offriamo, almeno noi, ad un mondo sconvolto ma non privo di sussulti innovatori, un soffio di speranza, tanto più credibile quanto più alimentato da una carità, che non ignora ma supera la giustizia, e da una misericordia che abbia davvero "la forma interiore dell'amore". Grazie.