Armando Rigobello
LA CONDIZIONE FILIALE
Introduzione.
La parola "condizione" ha ormai un uso piuttosto frequente non solo nel suo significato normale, ma anche in quello che riceve accompagnandosi ad un aggettivo: "condizione umana", "condizione operaia", ecc.. All'interno di tali espressioni indica una serie di modalità, di circostanze, di forme di vita che caratterizzano un gruppo sociale o l'esercizio stesso della vita umana. Da un lato la "condizione" si differenzia da "situazione", dall'altro si distingue da "natura". Il termine "situazione" indica la singolarità di un fatto, di una circostanza e non comporta quella permanenza di modi e di strutture che caratterizza la "condizione". "Natura", d'altra parte, indica una sostanza, una serie di note costitutive che, di diritto, danno luogo a ciò di cui si parla. "Situazione" è l'aspetto esistenziale, puntuale, empirico della "condizione" e "natura" è il suo corrispondente metafisico. Forse "condizione umana" è più vicina al significato di "natura umana" che a quello che esprimono le singole situazioni in cui l'uomo può venirsi a trovare, ma mentre la "natura" dà l'idea di una definizione di un ché di costitutivo e statico, "condizione" richiama maggiormente l'aspetto dinamico della natura stessa, il suo concreto esercizio, anzi si precisa proprio nel concreto esercizio ed è da tale esercizio che, per via induttiva, enuclea le proprie componenti caratterizzanti.
La presente relazione sarà in parte speculativa e in parte storiografica, o per meglio dire, sarà da un alto il tentativo di delineare una fenomenologia della "condizione filiale", dall'altro cercherò di situare tale fenomenologia in alcuni riferimenti storici atti ad illustrarla e a mettere in luce interne implicanze ed articolazioni.
1. Fenomenologia della condizione filiale.
Tentiamo quindi di enucleare un breve contributo ad una fenomenologia della condizione filiale, cioè indicare i modi di essere, le "figure", le forme-categoriali dell'essere figli; descrizione fenomenologica che sia una descrizione categoricale.
Ci soffermiamo sul fatto, sul "fenomeno" dell'essere figlio. Che cosa lo caratterizza? Quali categorie si rintracciano, ossia quali forme si possono individuare riflettendo su questo punto così elementare, ma anche così denso di espliciti ed impliciti significati?
La prima di queste categorie, la più emblematica della condizione filiale stessa è quella di "avere una causa, una radice personale". La nostra genesi rinvia ad un disegno di amore, è frutto di una espressione creativa all'interno di un progetto di amore. La controfigura di questa "forma" primaria del fenomeno che esaminiamo è l'"esser gettato" di cui parla tanta letteratura esistenziale, la Geworfenheit di Heidegger, ad esempio. Non siamo a caso nel mondo. Se alcune tragiche o disperanti situazioni, esperienze al limite della avventura umana di ciascuno possono talvolta dare il lucido ed angosciato senso di una solitudine irrelata e di un consistere senza fondamento e senza speranza, la considerazione più approfondita, la più serena meditazione sul nostro essere al mondo ci rinvia ad una genesi personale che, se anche infranta dalla morte dei genitori o da una loro separazione, ha, in se stessa, ontologicamente, metafisicamente la forza della affermazione, della positività amorosa e espressiva di tale amore. Anche se le disgrazie dell'esperienza sono di segno contrario, una paternità è inscritta in re nel nostro stesso esistere, ci richiama ad un senso positivo e personale della condizione umana" che è in noi, al di là di qualunque situazione in cui di fatto ci troviamo.
Una seconda "condizione" che emerge dalla riflessione sul fatto dell'essere figlio è quella, connessa alla prima, dell'"attesa di una eredità". Il discorso sulla rilevanza giuridica di tale considerazione è ovvio e, al limite, banale, ma acquista ben più profondo significato se si inscrive questa considerazione in un contesto di meditazione religiosa. L'attesa di eredità, in quel contesto, è attesa, speranza, fiduciosa speranza di salvezza. Anche in questo caso può valere la considerazione fatta sopra sulla natura costitutiva di diritto della condizione, al di là delle situazioni di fatto. Anche quando ci sentissimo abbandonati, privi di radici famigliari e storiche che ci rinviano ad una eredità, la condizione di figli ci costituisce eredi di una speranza, di un progetto generale di vita umana che trascende la curva dei giorni di dimensione escatologica. Questa nota della condizione filiale che ci vede costituiti come eredi è qualcosa che dà un senso positivo al presente in vista del futuro ed apre questo futuro alla globale considerazione di una "salvezza", di un riscatto totale e quindi religioso della vita.
La "condizione filiale" nel porre in evidenza il nostro rinvio ad una causa, per quanto personale e forte di positive attese, è pur sempre indice del fatto che noi, non siamo l'Assoluto e l'essere figli è un a ulteriore riprova della nostra contingenza del limite in cui viviamo e che da ogni lato ci caratterizza. In questo senso la "condizione filiale" è emblematica della "condizione" umana e con essa si confonde
Potremmo come riassumere queste prime tre connotazioni della "condizione filiale" ed insieme approfondirne il significato richiamando, per analogia, la nota espressione con cui il Simbolo niceno-costantinopolitano (il "credo" della Messa) indica il rapporto tra il Padre ed il Verbo: "genitum non factum". Nella attività divina i Padri conciliari che hanno redatto il Simbolo distinguono un generare da un fare, ove generare è un gratuito atto d'amore che trasmette la propria stessa natura, e il fare è un agire produttivo che porta nell'opera l'impronta dell'autore ma non dà luogo alla trasmissione della propria natura. Il generare realizza ad una comunità interpersonale, creativa anche all'interno della condizione umana, mentre il fare è un operare, tecnico, finalizzato alla propria compiutezza strutturale, è un agire funzionalistico. Il figlio non è un "socius", un "partner", un "compagno", ma qualcosa di profondamente diverso, anche se talvolta può essere anche un socio o un compagno in viaggio. Son questi elementi che si sovrappongono, ma anche sono estranei a ciò che è più caratteristico nel rapporto padre-figlio. Una considerazione di questo tipo apre un ampio discorso sulle condizioni morali e spirituali della società in cui viviamo che è una società del fare, dominata dalla funzionalità tecnologica, ove l'uomo è socius, patner, compagno, ma mai, in quanto partecipe alla società, un figlio e molto raramente un amico. Viviamo in una società senza padri, frutto radicalizzato di una generazione senza maestri. Per superare la società del benessere consumistico e il suo disumano razionalismo occorre risalire alla genesi personalistica di ogni uomo, a quella elementare condizione di casualità personale, di eredità, di umile senso del limite ed insieme di fiduciosa attesa.
Un ulteriore forma o figura fenomenologica della "condizione filiale" è il "riconoscimento della colpa e del perdono". Di fronte ad una società tecnologicamente organizzata ci può essere il riconoscimento di un "errore", non di una "colpa". Per giungere al sentimento del rimorso, all'avvertimento della colpa, occorre porre il nostro atto di fronte ad un padre. La colpa è la mancata risposta ad un progetto di amore dal quale e nel quale siamo stati generati. Giustamente Paul Ricoeur osserva che il sentimento della colpa è possibile solo in una dimensione religiosa della vita (cfr. P: RICOEUR, Finitudine e colpa, trad. it., Bologna 1970). Ricoeur illustra efficacemente l'intreccio della situazioni morale con l'esperienza religiosa, un intreccio che ha i suoi punti di riferimento nel "rispetto" (Achtung, il termine tedesco corrispondente a rispetto, ma significa anche attenzione, riverente atteggiamento; un termine che ricorre in Kant), nell'avvertimento della "colpa" (avvertimento che il "rispetto" facilita, rende evidente, spinge alla "confessione"), nella richiesta del "perdono". La parabola evangelica del figliol prodigo, cui dedica puntuali considerazioni la lettera enciclica di Giovanni Paolo II "Dives in misericordia", è particolarmente significativa dei problemi che emergono da questa forma categoricale, da questa "figura" della fenomenologia della "condizione filiale".
Possiamo individuare ancora una di queste figure fenomenologiche inscritte nel fatto di essere figli, quella dell'"esperienza di alterità generazionale". Tra padre e figlio si instaura, naturalmente, un rapporto dialettico, un latente conflitto di generazioni. Ciò è connaturato nella relazione che si disegna nel tempo e quindi in un mutare di esperienza storica: una continuità, a volte sofferta e problematica, nella diversità di linguaggio, nello spostamento delle prospettive. Questa figura presenta una tipologia molto varia che va dalla frattura profonda e intenzionalmente definitiva alla comprensione caritativa pur nell'avvertimento della differenza. Potremmo, seppure con una certa audacia, ricordare le parole di Gesù sulla Croce: "Padre mio, perché mi ha i abbandonato?"
Abbiamo individuato cinque "figure" di questa "fenomenologia dello spirito filiale", cioè della "condizione di figlio". Potremmo individuarne altre, non si tratta infatti di un'analisi scientifica ma di una ricerca riflessiva, meditativa. Tuttavia ci pare che le cinque indicate siano sufficienti a darci il quadro in cui si muove l'esercizio effettivo della condizione filiale e i punti in cui esso va riferito per poterlo comprendere in una compiuta concezione della vita e della realtà. La "condizione filiale" affonda le sue radici nella genesi stessa della vita e nella complessità della sua trasmissione. Comprendere le profondità è, per usare una espressione che Marcel adopera per indicare la sua meditazione filosofica, un "approccio concreto al mistero dell'essere". Il "mistero dell'essere" è qualcosa che va oltre la meditazione filosofica e ci porta alla esperienza religiosa. Forse la nota comune alle figure fenomenologiche indicate è una latente religiosità sottesa a tutta la condizione filiale, supporto di ogni autentica paternità.
2. Riferimenti storiografici
Sarebbe molto interessante tracciare una storiografia relativa alle riflessioni che nel corso dei secoli pensatori o uomini di lettere o maestri di spiritualità hanno dedicato a ciò che qui abbiamo chiamato "condizione filiale". Nell'impossibilità di farlo, ci limitiamo tuttavia a suggerire qualche spunto, ad offrire qualche riferimento per ulteriori sviluppi e a suscitare opportune meditazioni.
Il primo riferimento su cui fermiamo la nostra attenzione è un passo del Sofista platonico ove lo straniero che interviene nel dialogo conducendo il discorso adombra su di sé l'accusa di "parricidio" poiché egli, discepolo del grande Parmenide, sottopone a giudizio le affermazioni centrali del suo maestro: "sarà necessario che noi sottoponiamo ad esame il discorso del nostro padre Parmenide" (241 d). Ci troviamo di fronte alla contestazione del padre, sebbene non si raggiunga i limiti della contestazione della paternità. Si tratta del discepolato umano, dottrinale, della generazione attraverso la paideia, ossia la trasmissione delle idee nel contesto di una tensione educativa. Ciò che prima abbiamo chiamato esperienza di una alterità generazionale riceve, nel testo platonico citato una radicalizzazione resa più acuta dalla natura autonoma, critica del pensiero. Si perviene alla figura del "parricidio" in omaggio alla libertà di ricerca di cui il padre è stato maestro. Per integrare il riferimento al mondo classico, da Platone passiamo a Plotino. Nel clima neo-platonico denso di atmosfera religiosa più che di radicalismo critico, il rapporto filiale si configura come rapporto mistico: "....l'anima, già stando nella legge della natura, è innamorata di Dio e vogliosa di unione, come una vergine di nobile padre serba di lui un amore altrettanto nobile; ma se essa, al suo entrare nel mondo del divenire, si fa sedurre da brama di pretendenti, trascorsa ad altro amore mortale nella lontananza del padre, soccombe al disonore; ma poi ripresa per rispetto delle violenze del mondo, essa si purifica da tutto ciò che è terrestre e, disposta a ritornare un'altra volta al padre suo, ritrova la sua felicità" (Enneadi, VI, 9,9) Mentre il mondo cristiano porrà in primo piano la mistica nuziale, il mondo greco propone il modello filiale come forma emblematica di rapporto mistico: una figura di condizione filiale che va dall'eros platonico alla sua crisi nel "parricidio" per trasfigurarsi poi nella trasfigurazione plotiniana.
Entrando nell'ambito della esperienza cristiana ci soffermeremo a cogliere nelle pagine di Agostino il suo atteggiamento di figlio di fronte alla morte della madre, così che come egli ce lo racconta nel IX libro delle confessiones: "Privato di lei così, all'improvviso, mi prese desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei e per lei, su di me e per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltare c'eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compianto. Ora, Signore, ti confesso tutto ciò su queste pagine. Chi vorrà le leggerà, e
le interpreti come vuole. Se troverà che ho peccato a piangere mia madre per piccola parte di un'ora, la mia madre frattanto morta ai miei occhi, che per tanti anni mi aveva pianto affinché vivessi ai tuoi, non mi derida. Piuttosto, se ha una grande carità, pianga anch'egli per i miei peccati davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo. Io per mio conto, ora che il cuore è guarito da quella ferita, ove si poteva condannare la presenza di un affetto carnale, spargo davanti a te, Dio nostro, per quella tua serva un ben altro genere di lacrime: sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli cui soggiace ogni anima morente di Adamo" (IX, 13, 33-34).
Passata la tempesta del dolore, di cui Agostino ha tracciato una appassionata confessione nella pagina che precede il passo citato, un dolore intenso ma trattenuto ("non erompeva in lacrime né alterava i tratti del viso, ma sapevo ben io cosa tenevo compresso nel cuore" IX, 12,31), Agostino ritorna con il pensiero a colei che lo ha generato con una dolcezza mesta ma serena; la madre diventa oggetto di preoccupazione silenziosa ed orante come lo era stato lui, per lunghi anni, per lei. La figura de condizione filiale che si realizza in Agostino è quella del riconoscimento della genesi amorosa, della dipendenza scaturita da un atto di amore e da un progetto portato avanti tutta la vita nella dedizione nascosta e nell'impetrazione di grazia. Questa figura si intreccia con quella del figliol prodigo, ormai riscattato e delinea una esemplare condizione di figliolanza vissuta, sofferta, trasfigurata. In essa anche i sentimenti umani più elementari e originari trovano luogo e si compongono non artificiosamente ma all'interno di una accesa spiritualità cristiana. La figura di Agostino figlio risulta, in tal modo, potentemente emblematica della condizione filiale nel senso forte del termine, nelle sue radici ontologiche e religiose.
Ben diversa, anzi, sotto alcuni aspetti diametralmente opposta, una pagina di Sartre in cui il filosofo di Etre ed Neèan, allude al suo rapporto con il padre: "Un buon padre non esiste, è la norma; non si accusino gli uomini bensì il legame di paternità che è marcio. Fare figli, non c'è caso migliore; averne, che cosa iniqua. Se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso lungo sopra di me e m'avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto prematuramente (....) Io non dovetti nemmeno dimenticarlo: filandosela all'inglese, Jean Baptiste mi aveva rifiutato il piacere di fare la sua conoscenza. Ancora oggi mi stupisce quando poco io sappia di lui (....) Ho venduto i suoi libri: così poco mi conosceva questo defunto. Lo conoscevo per sentito dire, come la Maschera di Ferro o il Cavaliere d'Eon, e ciò che so di lui non si riferisce mai a me (....) Questo padre non è nemmeno un'ombra, nemmeno uno sguardo; abbiamo pesato, io e lui, sulla stessa terra per qualche tempo ecco tutto (....) La mia fortuna fu di appartenere ad un morto: un morto aveva versato le poche gocce di sperma che costituiscono il prezzo corrente di un bambino; ero un feudo del sole, mio nonno poteva fruire di me senza possedermi" (le parole, trad. it., Milano 1964, pp. 17-20).
Basta leggere queste righe ed avere il capovolgimento dei valori e degli atteggiamenti che abbiamo visto animare le pagine di Agostino, L'essere gettati nell'esistenza trova nel lucido, spregiudicato bilancio sartriano una figura emblematica, una testimonianza vissuta con un sufficiente distacco che forse non cela alcuna amarezza. Circostanze di vita hanno senza dubbio influito nella presa di posizione di Sartre, ma la circostanza, la situazione diventano un dato, un fenomeno intrascindibile, su di loro non si apre alcun orizzonte. "Sono ritornato il viaggiatore senza biglietto che ero a sette anni - conclude Sartre nelle ultime pagine del suo libro autobiografico - il controllore è entrato nel mio scompartimento, mi guarda, meno severo di prima: in effetti non chiede di meglio che andarsene, che lasciarmi finire il viaggio in pace; che io gli dia una scusa valida, una qualsiasi, e lui se ne accontenterà. Sfortunatamente non ne trovo nessuna, e d'altronde non ho nemmeno voglia di cercarla: rimarremo così, da solo a solo, e disagio, fino a Digione dove so benissimo che nessuno m'aspetta" (op. cit., pp. 174-175). La caduta di senso è completa: la vita è un viaggio immotivato, la condivisione filiale è un controsenso. Se vogliamo chiudere questa rapida rassegna ritornando all'aria aperta e pura, possiamo ricordare il mistero famigliare di Gabriel Marcel. Ne riportiamo un brano senza commento, non ne ho bisogno, è di per sé una conclusione ove le considerazioni di una finissima meditazione si intrecciano nel contesto di una presenza religiosa, una atmosfera di profondità metafisiche e di atteggiamenti interiori di alta, cristiana spiritualità. Le figure di quella che abbiamo chiamato la fenomenologia della condizione umana appaiono nella pagina che segue come sintetizzate e tra loro connesse; la profondità della genesi personale, amorosa; l'avvertimento di una eredità e di una contingenza inserita nella consapevolezza di una alterità generazionale.
"...ben lontano dall'essere dotato di un'esistenza assoluta, io sono, senza averlo inizialmente voluto o sospettato, io incarno la risposta all'appello che due esseri si sono lasciati nell'ignoto, e che senza sospettarlo hanno lasciato al di là di se stessi, ad una incomprensibile potenza che s'esprime solo donando la vita. Io sono questa risposta, in origine risposta informe, ma che a poco a poco, man mano che si va articolando, conoscerà se stessa come risposta e come giudizio: sì, io sono irresistibilmente portato a fare questa scoperta, la scoperta che io stesso, per il fatto d'essere che sono, formulo un giudizio su coloro che mi hanno introdotto nell'essere; e nello stesso tempo, un'infinità di rapporti nuovi sorgono tra loro e me. (....) Il mistero famigliare in cui io sono coinvolto per il fatto stesso di esistere è definito da quest'insieme inestricabile di rapporti e di presentimenti: dall'articolazione d'una struttura di cui distinguo solo i primi lineamenti, d'un sentimento che sta tra l'intimo e il metafisico e del giuramento consentito o rifiutato con quale sono chiamato a far mio il voto diffuso che è il centro di fomentazione magica della mia esistenza personale. Tale è il mio posto; il posto di me creatura gettata in questo tumulto, tale è il mio inserimento in questo mondo impenetrabile" (Homo viator, trad. it., Torino 1967, pp. 86-87). Di qui anche il messaggio che questa meditazione sulla condivisione filiale come mistero famigliare rivolge alla società in cui viviamo, una società ove la riflessione sul nostro essere figli sembra essere disperdersi nella dimenticanza dell'origine: "Rievocare il mistero famigliare non significa dunque pretendere di risolvere un problema ma piuttosto impegnarsi a render presente all'anima, a farle ripercepire una realtà tragicamente offuscatasi nella coscienza da parecchie generazioni, obnubilazione, questa, che ha contribuito anch'essa a far precipitare gli uomini nell'inferno in cui oggi li vediamo dibattersi" (op. cit., p.87).
Conclusione
Se vogliamo raccogliere il alcune considerazioni conclusive quanto siamo andati dicendo fin qui potremmo dire che, man mano che il discorso si svolgeva, il tema della "condizione filiale", pur nelle puntualizzazioni e specificazioni che si andavano concretando nella individuazione di "figure" fenomenologiche e di riferimenti storiografici, si è allargato a quello della condizione umana in una concezione creaturale del mondo. Parlando del rapporto padre-figlio ci si è imbattuti in una figura emblematica del senso stesso della vita e della realtà. Naturalmente la vita, la realtà, il mondo di cui si parla qui sono trasfigurazioni nell'esperienza cristiana istruita dalla meditazione del rapporto dell'uomo con Dio padre. Ne scaturiscono i temi di peccato e di redenzione, di rottura e di riconciliazione. La meditazione sulla "condizione filiale" ci ha condotti così ad una radicale riflessione sul senso ultimo e sulle possibilità del messaggio cristiano per il suo annuncio nel contesto del nostro tempo.
La perdita di significato, la lucida aridità di una società senza padri, di una cultura di uguali appiattiti in una funzionalità unidimensionale possono trovare in una rinnovata attenzione alla "condizione filiale" motivi di superamento, elementi per rendere più umana la vita, per risanare le forme espressive e il costume e far balenare in esse una trascendente speranza di "Salvezza". Nonostante tutta la condizione ontologica dell'uomo è quella di un figlio. Questa è la conclusione dell'itinerario che abbiamo cercato di percorrere in questo nostro discorso. La risposta, l'amore misericordioso del Padre ci viene da altre sorgenti ed alimenta una spiritualità ulteriore. Vogliamo chiudere riportando una intensa testimonianza di condizione filiale vissuta e trasfigurata nel colloquio orante col Padre; è una nota preghiera di Charles de Foucauld: "Padre mio,/io mi abbandono a te / fa di me ciò che ti piace / qualunque cosa tu faccia di me, / ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, / purché la tua volontà si compia in me / e in tutte le tue creature; / non desidero nient'altro, mio Dio. / Rimetto la mia anima nelle tue mani, / te la dono, mio Dio, / con tutto l'amore del mio cuore, / perché ti amo. Ed è per me una esigenza d'amore / il donarmi, il rimettermi nelle tue mani, / senza misura, con una confidenza infinita / perché tu sei mio Padre".