Antonio Maria Artola
PROSSIMITA' UMANA E MISERICORDIA NELLA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO (LC 10,29-37)
"Le Parabole, meglio che le altre parole di Gesù, contengono l'essenziale del suo messaggio".
(M. Légaut)
La parabola del Buon Samaritano è una geniale creazione teologica di Gesù per insegnare, sotto forma di caso limite, la possibilità che le lontananze umane create da inveterati odi religiosi, possono risolversi in prossimità, grazie all'intervento della misericordia.
L'insegnamento contemporaneo a Gesù introduceva un'eccezione nella Legge dell'amore verso il prossimo: il nemico personale. Questo stesso insegnamento escludeva l'amore verso i gruppi religiosi etorodossi, quali i Samaritani. Un secolare odio faceva affrontare Giudei e Samaritani, senza possibilità di riconciliazione, a causa di presupposti teologici. In questo ambiente Gesù sviluppa una parabola nella quale contesta tutta quella situazione di esclusioni dall'amore per motivi religiosi. Il personaggio più importante, quello che riesce a superare una tale mentalità, non è un giudeo, ma è un samaritano.
Era un insegnamento radicale quanto al contenuto e quanto alla forma. Radicale e scandaloso.
L'evangelista Luca ha creato un dittico letterario per integrare in un solo insegnamento globale il comandamento principale intorno all'amore al prossimo e al caso limite della misericordia del samaritano.
Giovanni Paolo II nell'Enciclica Dives in Misericordia cita questa parabola insieme a quella del Figliol Prodigo come l'insegnamento parabolico più importante sulla misericordia.
E' questa la relazione che ha la parabola con il tema centrale del Convegno Prossimità ed Estraneità.
L'angolatura nella quale ci collochiamo è la seguente. Studieremo preferibilmente gli aspetti relativi alla Prossimità ed Estraneità nel testo di Luca 10,29-37, inquadrandoli nella teologia biblica dell'AT e delle discussioni rabbiniche al tempo di Gesù. Su questo sfondo emergerà meglio l'originalità e l'importanza della rivoluzione che ha apportato Gesù in materia di prossimità umana i suoi problemi.
Ma, trattandosi di un testo evangelico di particolare difficoltà, offriremo una previa visione panoramica su detta problematica per approfondire il contenuto dottrinale della Parabola.
I - IL PROSSIMO NELL'ANTICO TESTAMENTO
1 - Fratello, Prossimo, Straniero, Nemico
Quando Gesù propose il Suo insegnamento rivoluzionario sulla prossimità umana e i mezzi per crearla, il popolo d'Israele viveva in un periodo particolarmente critico per quanto riguarda l'amore al prossimo. Nel periodo post-esilico erano entrati fenomeni nuovi nel complesso mondo delle relazioni religiose intra-israelitiche.
Lo scisma samaritano e le divisioni settarie avevano introdotto modificazioni importanti nel modo d'intendere il precetto dell'amore al prossimo. In tale contesto storico-religioso, complesso e contraddittorio, si colloca l'originale dottrina di Gesù, mai più superata fino ai nostri giorni, da nessuna religione.
Per comprendere questa novità e tutta la portata del precetto nuovo di Gesù, è necessario risalire alla teologia vetero-testamentaria sull'amore al prossimo. Esponiamo, dunque, brevemente i punti principali di tale teologia.
I concetti di prossimo ed estraneo bisogna situarli a tre livelli significativi per cogliere le sfumature nella presentazione che farà Gesù del Suo insegnamento sulla nuova prossimità umana: livello antropologico, religioso e precettivo-etico.
a) A livello antropologico si rende necessario distinguere innanzitutto un doppio stadio di pensiero israelitico: il periodo collettivistico, preesilico ed il periodo posteriore individualistico, quando la persona è emersa dal gruppo.
Nella mentalità collettivistica preesilica il punto di partenza, per intendere il prossimo, è la considerazione dell'unità che si contrappone all'alterità. L'unità di base è la famiglia o il gruppo familiare. Di fronte a questa unità di base stanno gli "altri". Perciò è necessario distinguere nell'antropologia giudaica il prossimo (reah) dal fratello (ah) anche se in Lv. 19, 17 si identificano ambo i concetti. IL fratello appartiene all'unità primordiale formata dalla casa paterna. Il fratello è parte integrante dell'io collettivo della famiglia. A differenza del fratello, il prossimo (reah) è "un altro" che può associarsi al gruppo famigliare. Il prossimo può entrare a far parte della famiglia e diventare fratello. Però, inizialmente è un'altra cosa. Le forme di associazione e di vincolo dell'"altro" sono molteplici. L'altro può diventare amico (Dt. 13,7; 2 Sam. 13,3; Prov. 14,20; Gb. 2,11; Sal. 35,14) compagno (Gdc. 11,38; Gb. 30,29; Sal. 45,15) vicino (Es. 11,2; Pr. 3,29; 25,17), amato (Ger. 3,1.20; Os. 3,1; Ct. 1,9.15).
Un'alterità diversa da quella del prossimo è quella dello straniero. Lo straniero è l'"altro" che non si integra nella famiglia paterna né in quella nazionale. L'AT distingue due tipi di straniero: il ger o avventizio che si è stabilito nel territorio nazionale israelitico (Es. 12,44; Dt. 10,19) e il nocri o straniero solo di passaggio (Ez. 44, 7.9).
C'è infine un altro concetto di alterità diversa da quelle precedenti: è quella del nemico. In generale le "nazioni" che vivono interno a Israele appaiono come "nemici", ma non necessariamente. A volte l'Egitto e Edom appaiono in relazioni positive e non ostili (Dt. 23,8).
I nemici non sono unicamente le nazioni straniere. Le ostilità sorgono anche all'interno di Israele. Delle volte sono gli stessi fratelli, come accade nel caso di Giuseppe (Gen. 37,4) o gli stessi familiari (Sara e Agar, Gen. 21, 9-10), che diventano persone ostili.
b) Questo livello antropologico generale serve come base alla concezione religiosa del prossimo nel popolo d'Israele. La realtà religiosa israelita dell'elezione e l'alleanza eleva le relazioni normali di comunità razziale o nazionale a dignità di vincoli religiosi che legano, da una parte, il popolo con Yaveh e, l'altra, gli Israeliti tra di loro. Da quanto detto consegue che per l'Israelita il prossimo sia connazionale, unito nello stesso patto religioso con Yaveh; dunque in Lv. 17,3 il prossimo rimane circoscritto all'Israelita il quale si converte così in fratello (Lv 19,17). Questa concezione religiosa tinge di colore diverso la estraneità degli stranieri e i popoli nemici di Israele. E' una estraneità di tipo religioso. A questo livello, lo straniero residente può incorporarsi a Israele per l'avvicinamento alla sua fede, attraverso la circoncisione, potendo partecipare alla celebrazione della pasqua (Es. 12, 48ss.) e ad altre cerimonie giudaiche come il sabato (Es. 20,10), i digiuni liturgici del giorno della Espiazione (Lv. 16,29).
In questo ambito religioso di prossimità ed estraneità è da includere una forma speciale di estraneità qual'è quella dei samaritani in relazione ai giudei. A causa dello scisma religioso e il sincretismo che caratterizzò il popolo samaritano fin dai tempi dell'esilio, tra i due popoli emerse una forma peculiare di inimicizia religiosa, che la tempo di Cristo, assunse una speciale virulenza(1).
E' da notare anche che l'inimicizia religiosa contro i samaritani si estese posteriormente ad altri gruppi intra-israeliti come fu il rifiuto e l'ostilità che caratterizzò le relazioni tra le diverse sette (sadducei, farisei, esseni, ecc.).
c) E' necessario segnalare un terzo livello di razionalizzazione della prossimità ed estraneità. E' il livello morale creato dalla legislazione che si riferisce alla relazione con i prossimi e gli stranieri. In effetti queste relazioni assunsero in Israele al rango di comportamenti inclusi nei precetti della Legge. Tali comportamenti apparivano retti dal Lv. 19, 18 che comandava:"Amerai il prossimo tuo come te stesso".
Questo precetto era, da una parte, il termine evolutivo del concetto religioso del prossimo che abbiamo segnalato e, nel contempo, il punto di partenza di ulteriori sviluppi. Come punto terminale supponeva una formulazione aperta e vasta che includeva la concezione religiosa già indicata in merito alla prossimità elevandola e integrando detta vicinanza all'amore, cambiandola nell'oggetto di un precetto morale esplicito. D'altra parte, consacrava la limitazione dell'"altro" al connazionale giudeo. Tuttavia allargava la possibilità di vicinanza includendo, tra i doveri morali dell'Israelita, l'accoglienza e l'amore per lo straniero residente (ger) in Israele (Lv. 17, 8.10.13; 19,34).
Formulate le relazioni con il prossimo ad un livello di amore, rimanevano intatte le relazioni di estraneità e di ostilità nei riguardi degli stranieri, delle nazioni, ecc.
2 - Le restrizioni post-esiliche
questa legislazione del Lv. non progredì , nei secoli seguenti, sulla linea dello sviluppo e dell'evoluzione integratrice degli "altri". Piuttosto si accentuò nell'epoca post-esilica la tendenza restrittiva. Da una parte la relazione con i gerim si vede limitata. Per poter beneficiare delle condizioni dei gerim, non basta essere stranieri residenti. Devono circoncidersi (Ne. 10,31; Esd.IX-X).Da questa concezione nasce l'idea del proselita che rimpiazza nella diaspora il ger palestinese e indica il pagano pienamente integrato in Israele per la sua fede israelita.
Le restrizioni al precetto dell'amore al prossimo furono temas di discussione tra i rabbini del tempo di Gesù. Il centro della discussione era piuttosto nell'ambito delle eccezioni alla legge dell'amore al prossimo. Avevano allargato tanto i casi di inimicizia d'intergruppo in Israele, che era necessario determinare chi fosse il prossimo concreto che si era obbligato ad amare. La situazione concreta creata da queste divisioni ed emarginazioni religiose viene descritta da Jeremìas nel seguente modo: "I Fariseo tendevano ad escludere i non farisei; gli esseni pretendevano che si odiassero tutti i "figli delle tenebre"; i rabbini dichiaravano che si dovevano "sotterrare" tutti gli eretici, i delatori e gli apostati e non estrarli da sotto terra, e un proverbio popolare molto conosciuto escludeva dal comandamento dell'amore il nemico personale"(2).
Questa era la cornice ideologica israelita in materia di amore al prossimo quando Gesù incominciò la sua predicazione. Il grande precetto dell'amore al prossimo appariva, non solo ristretto ai connazionali israeliti, ma anche all'interno dello stesso popolo d'Israele si verificavano non poche eccezioni quanto alla sua applicazione. Nella pratica, era normale escludere dal precetto dell'amore del prossimo, il nemico personale. Per quanto riguarda lo straniero, non era stato ampliato il precetto del Levitico, piuttosto le norme del proselitismo avevano ristretto la portata di quella normativa. Il fenomeno nuovo era costituito dall'ostilità, dall'odio e dalle esclusioni all'interno del popolo d'Israele che riguardavano gli apostati, i delatori, gli eretici, i figli delle tenebre.
La situazione concreta dei samaritani coincideva con un'epoca di particolare inasprimento a causa di un episodio che ebbe grande risonanza. Tra gli anni 6-9 dell'era cristiana, il giorno di Pasqua, di notte, un gruppo di samaritani fanatici penetrò nel tempio di Gerusalemme spargendovi a mezzanotte, ossa umane con l'intenzione di contaminare il luogo più sacro dei giudei(3).
I rapporti già tesi tra giudei e samaritani si fecero, a partire da quella data, molto ostili. Indizio significativo di questa situazione sono alcuni episodi che si trovano nei Vangeli. (Lc. 9, 53-55).
Nonostante questo indurimento già nello stesso AT si andavano insinuando prospettive più aperte che mettevano a fuoco le relazioni umane da una visione più ampia che la semplice prossimità nazionale. Così il libro dei Proverbi (14, 31) considerava la condizione umana dall'ottica dei Creatori di tutte le cose. Ugualmente, negli ambienti rabbinici cominciavano ad aprirsi prospettive che tendevano verso una nuova impostazione delle relazioni umane, molto simile a quello che Gesù offrì nella sua dottrina sull'amore verso i nemici.
II - L'insegnamento di Gesù
1 - La parabola del Buon Samaritano
Circa le parabole di Gesù si è affermato che "pretendono condurre più in là di quanto si pensava e si faceva in Israele". Si è detto anche che l'insegnamento in parabole scopre "ciò che Gesù viveva"(4).
Questa dottrina si applica particolarmente al caso della parabola del Buon samaritano. La dottrina sulla prossimità umana creata dalla necessità e dalla disgrazia, così come l'insegna il racconto del Buon Samaritano, bisogna collocarla tra ciò che è più personale e caratteristico di Gesù. Al fine di arrivare alla radice del messaggio di questo importante testo, segnaliamo alcune questioni critiche.
I problemi critici della parabola si centrano nella parte introduttiva (Lc. 10,29) formata dalla domanda: "Chi è il mio prossimo?" e il dialogo conclusivo" chi dei tre si fece prossimo di colui che cadde nelle mani dei ladri?" (Lc. 10, 36-37).
Lasciando da parte altri problemi quali l'autenticità (5), cominciamo a segnalare le soluzioni proposte alle questioni nel nesso logico tra Lc. 10, 29-37; e Lc. 10- 25-28.
a) Gli elementi redazionali in Luca 10, 29-38
Nella parabola del Buon Samaritano si considerano redazionali i vv. 29 e 36-37. Ecco le ragioni. Luca 10,29 è un ponte logico tra ciò che si afferma in Luca 10,27 ("Amerai il prossimo tuo come te stesso") e la domanda dello scriba di Lc. 10,29: "Chi è il mio prossimo?". II v. si presenta come redazionale per lo stesso motivo del nesso logico che stabilisce l'evangelista con i vv. 27. 29 e 36. II v. 37 si presenta ugualmente come redazionale per la sua relazione coi versetti 25 e 28.
questa constatazione è facile da accettare. Il difficile è dare una conclusione accettabile alla parabola del documento utilizzato da Luca. Sono state presentate molte soluzioni generalmente scettiche (6) o di semplice affermazione di un finale impossibile da ricostruire (7).
b) La Forma originale della Parabola
Che la parabola sia stata elaborata, non si può negare (8). Però, in che senso è stata modificata? Tutto dipende dalla soluzione che si da a ciò che è redazionale del v. 29 e dall'inquadratura in un contesto di dottrina generale sul prossimo. A nostro umile parere, si presentano due possibili soluzioni:
a) - La parabola prelucana era una parabola sul prossimo in generale;
b) - La parabola serviva da illustrazione per la dottrina dell'amore ai nemici.
Nella primas interpretazione l'elemento redazionale di Lc. 10,29. 36-37 consisterebbe unicamente nell'accoppiare alla discussione sopra il comandamento principale, una parabola indipendente rispetto a tale discussione, ma comunque di un contenuto formalmente pertinente al comandamento principale dell'amore al prossimo. A nostro modo di vedere, questa soluzione è difficilmente accettabile, perché già il testo preparatorio di Lc. 10,25-28 è un testo di una presentazione modificata la cui cornice è redazionale. Vediamo questa problematica prima di risolvere la questione della forma originale di lc. 10, 29-37.
c) La problematica di Luca 10,25-28
Questa pericope si considera come appartenente alla fonte Q modificata a proprio modo da ciascuno dei sinottici (Mt. 22,34-40; Mc. 12,28-31; Lc. 10, 25-28).
Per quel che riguarda al Sitz im Leben, generalmente si considera il luogo più appropriato quello di Matteo e Marco, subito dopo la discussione intorno alla Risurrezione. Luca lasciò in quella narrazione sufficienti indizi di aver soppresso questa discussione (Lc. 20, 39-40). Da quel contesto naturale, Luca avrebbe trasportato il dialogo a metà sezione del viaggio da Samaria a Gerusalemme (Lc. 9, 51-18, 14).
In quanto alla trattazione che Luca conferisce al tema, si ammette che il terzo evangelista conosce il dialogo attraverso una doppia forma: Q e Mc. Rispetto a Marco i punti di contatto sono: Lc. 10,28 e Mc. 12, 34. Al di là di questo, Luca tratta il tema con grande libertà.
I punti di contatto con Mt. sono anche vistosi, per le sue differenze con la tradizione di Mc. Ecco le coincidenze più appariscenti. In primo luogo, il dialogo è più breve che in Marco (manca il parallelo di Marco 12, 32-34). In secondo luogo manca l'introduzione del Dt.: "Ascolta Israele..." di Marco 12, 29. Inoltre, a Gesù viene dato il titolo di Maestro (Mt. 22, 36); colui che interroga è chiamato "legista" a differenza di Marco che lo chiama scriba (Mc. 12, 28).
Infine si suole segnalare la coincidenza di Luca con se stesso in 18, 18 e 10, 25.
Queste sono le considerazioni di coloro che aderiscono alle due fonti (Mc. e Q).
In forma più radicale il P. Boismard ha tentato di arrivare fino alla stratificazione più arcaica del dialogo. Da qui le sue conclusioni (9).
La forma attuale del dialogo sul Comandamento Principale aveva un primo contenuto nel quale si parlava solo del comandamento sopra l'amore al prossimo. Questo dialogo fu collocato da Mc. Nel contesto della discussione sulla Resurrezione (Mc. 12, 18-27). In una seconda tappa, il Matteo primitivo aggiunse all'unico comandamento dell'amore al prossimo, la forma del duplice comandamento: Primo amare Dio, secondo amare il prossimo restando definita per sempre l'attuale forma del doppio precetto. Luca prese il contenuto del dialogo dalla forma del Proto-Matteo inserendolo nel posto attuale (Lc. 10, 25-29) lasciando le impronte dell'appartenenza al contesto della fonte in Lc. 20, 39-40.
Tuttavia Lc. non si limitò ad una utilizzazione materiale del dialogo. Lo modificò profondamente. A tutto il dialogo diede un'inquadratura che si riferisce a ciò che è necessario praticare per ereditare il Regno (10, 25). Ciò proviene da Luca 18, 15. Modificò l'attribuzione delle citazioni bibliche di Dt. 6, 5 e Lv. 19 , 18 mettendole in bocca dello scriba. Il versetto 28 è redazionale, conformemente a Mc. 12, 34. II v. 28 fa tutt'uno con il versetto 25.
La struttura di Luca 10, 25-28 prepara la parabola del Buon Samaritano. Già abbiamo indicato che i vv. 29,36-37 sono redazionali. Il redattore ha conferito a tutta la parabola il senso di qualcosa che è necessario fare (10, 37) come in 10, 26. E ciò che è necessario fare è amare il prossimo.
d) Una parabola dell'amore ai nemici
La ragione più forte che fa sospettare un contesto differente per la parabola originaria di Lc. 10, 29-37 sta nella domanda di 10, 36: "Chi dei tre si mostrò come prossimo ?". Il tema è stato studiato in tutti i commentari della parabola e in lavori monografici, senza esser giunti a soluzioni soddisfacenti. Come è stato già detto, è nostra convinzione che il contesto primitivo della parabola non era l'amore al prossimo, ma l'amore ai nemici. Senza giungere ad una analisi esaustiva, segnaliamo le ragioni principali:
- le relazioni umane tra giudei e samaritani non erano a livello di prossimità, ma di inimicizia. Una parabola che tocca il tema delle mutue relazioni tra giudei e samaritani non può situarsi ad un livello neutro di prossimo, ma nel nemico escluso dalla condizione di prossimo a cui si deve amore. Le ragioni di tale esclusione stavano nel modo teologico di considerare il samaritano, come già si è detto. E questo è lo stesso per quanto riguarda le relazioni tra samaritano e giudeo.
- Gesù aveva prospettato il tema dell'amore al prossimo ampliando il suo contenuto, non in direzione di tutti i prossimi in quanto tali, ma riferendosi esplicitamente ai nemici (Mt. 5, 43-47; Lc. 6, 27-36).
- Nell'insegnamento di Gesù intorno all'amore, il problema non era chi è
il mio prossimo ma quello delle esclusioni intraisraelitiche nel contenuto del precetto dell'amore.
- In questo contesto, Gesù non ha bisogni d'illustrare una dottrina su chi è il prossimo, ma su come non si deve escludere nessuno dall'amore.
Su questa considerazione intorno alla forma primitiva della Parabola rimarrebbe un problema difficile da risolvere: perché Gesù prese il caso del samaritano per indicare l'uomo di cuore aperto ai nemici? Si potrebbe rispondere che lo fece per non esasperare i giudei parlando di un giudeo, che ama il samaritano. Non è, certamente, la migliore delle soluzioni. Personalmente tenderei ad una discreta allusione personale: il samaritano che ama il nemico è Lui stesso, segnalato dai suoi nemici come un samaritano spirituale (Gv. 8, 48). Gesù, Lui stesso, è il giudeo considerato come samaritano, però con un cuore capace di amare come samaritano i giudei e come giudeo i samaritani (Gv. 4, 5-42).
2 - I risultati critici
La conclusione che si trae dalle considerazioni critiche intorno a Lc. 10, 29-37 sono le seguenti.
Ci troviamo davanti ad un testo prelucano fortemente elaborato. Una parabola di Gesù che serviva per illustrare la sua dottrina sull'amore ai nemici, Luca la utilizza per servirsene quale migliore illustrazione della dottrina sull'amore al prossimo in generale. Il caso limite di un samaritano che, mosso dalla misericordia, giunge a prendersi cura di un giudeo ferito gravemente, serve al suo intento. La nuova utilizzazione della parabola non s'inserirà perfettamente nel contesto, tuttavia la stessa tensione della narrazione avrà un effetto psicologico ulteriore che aumenta la forza persuasiva della stessa.
Per formare un tutto dottrinale con la parabola, estrae dal contesto di Lc. 20, 39-40 la discussione sul comandamento principale, presentandolo come condizione necessaria per ereditare la vita eterna.
III - Il messaggio dottrinale
1 - La Narrazione
Iniziamo a chiarire gli aspetti della narrazione necessari per la comprensione del suo messaggio.
Scende un uomo da Gerusalemme a Gerico. Non si dice della sua condizione di giudeo. Tuttavia gli autori la suppongono. Può essere che nella parabola originale se ne faceva menzione e Luca ha soppresso il dettaglio per insistere nella dottrina relativa al prossimo più che all'amore per i nemici.
Si vede vittima di un atto di brigantaggio. Lo colpiscono. Può darsi che abbia provato a difendersi. Ma rimane mezzo morto lungo la via.
Scendono per la stessa direzione due ecclesiastici: un sacerdote e un levita. Girano al largo per evitare d'incontrarsi con il ferito. Magari lo immaginano morto e vogliono evitare l'impurità legale. Nessun dettaglio della parabola lascia intendere che si isolano per motivi liturgici.
Passa per quel luogo un samaritano. E? in viaggio. Sicuramente e è un negoziante che percorre quell'itinerario con frequenza. Conosce il locandiere. Impartisce ordini fino a quando non ritorna indietro. Depone il ferito sulla propria bestia. Probabilmente ne portava con sé due: una con la merce e l'altra che cavalcava. Prende olio e vino per disinfettare e curare le piaghe. E' possibile che l'olio e il vino facessero parte della sua merce. Benda le ferite. E' più strano che porti con sé le bende. Sicuramente fa delle strisce con il turbante o con la sua camicia. Paga due denari e il resto della spesa lo lascia per pagare al ritorno. Probabilmente commercia nella regione di Gerico o in Transgiordania.
2 - Il Messaggio
a) Chi è il mio prossimo?
Questa domanda, di struttura così astratta, in bocca allo scriba, ha un senso ben preciso. Il problema dello scriba scaturisce dalle discussioni fatta dai rabbini intorno alle eccezioni alla Legge universale dell'amore in relazione al connazionale giudeo. La portata generale del precetto nel Lv. 19, 18 era chiara. I problemi si presentavano nelle interpretazioni restrittive che si riferivano ai nemici personali o ai nemici di gruppo (sette giudaiche) all'interno dell'ambito del connazionale giudeo.
La domanda dello scriba nasce dalla impressione che produce in lui l'esigenza dell'amore come comandamento principale così come lo intende Gesù. La coscienza dello scriba nasce rimane turbata. Vuole conoscere meglio. Per questo gli pone la domanda, per esigere da lui una chiarificazione (tentans eum), o per essere sicuro che i suoi criteri su quel punto fossero validi (volens se ipsum justificare).
b) "Un uomo scendeva..."
Cominciare una parabola col nominare genericamente un uomo è tipicamente lucano (Lc. 12, 16; 15, 11; 16, 1. 19; 18, 10). In questo luogo, il procedimento lucano ha una doppia finalità: mantenere il suo proprio stile e sottolineare il fatto di un uomo qualunque che, trovatosi nella necessità, esige una risposta da prossimo. Probabilmente nella parabola originale si diceva: "Scendeva un giudeo da Gerusalemme a Gerico", o "un abitante di Gerusalemme" o qualcosa del genere. In effetti, tutti gli altri personaggi sono caratterizzati concretamente: il sacerdote, il levita, il samaritano, ecc.
c) Il Prossimo
Accanto al viandante giudeo mezzo morto, sfilano tre tipi di personaggi. Ciascuno di loro si vede chiamato in modo diverso dall'uomo malamente conciato. In realtà, secondo ciascuno di quelli, quest'uomo ha degli aspetti che lo pongono nella condizione di prossimità e di lontananza nel medesimo tempo.
Per i primi due, l'uomo malcapitato è un prossimo proprio per la sua condizione di israelita e di giudeo. Tuttavia nel contempo, la condizione nella quale si trova, lo pone in una situazione di lontananza. Se è morto vuol dire che è un cadavere il cui contatto rende impuri sia il sacerdote che il levita. In tal caso, è lontano ed estraneo. Però c'è un'altra circostanza più ambigua in ordine al creare vicinanza o lontananza: è la situazione di necessità nella quale si trova. Davanti a tale situazione, è naturale l'impulso all'aiuto. E' la relazione che crea vicinanza. E' naturale anche l'egoismo, l'attitudine alla freddezza, di chiudere le viscere alla compassione e alla carità, di evitare fastidi e complicazioni, in una parola: di non uscire da se stessi, dal proprio schema, dalle proprie convenienze. In questo caso, le disposizioni egoistiche sono quelle che creano lontananza, anche se sulla linea della obiettività la persona in questione sia prossimo a livello connazionale o religioso.
Per il Samaritano le condizioni obiettive erano di inimicizia, ostilità, lontananza, contrarie tutte alla condizione di prossimo. E' un giudeo quello che sta, moribondo, sulla strada. Però al di là delle condizioni di ostilità e inimicizia di gruppo tra giudei e samaritani, la necessità in cui si trova parla al suo cuore e crea vicinanza. Scende dalla sua cavalcatura; medica il ferito, lo raccoglie e lo fa salire sulla propria cavalcatura.
c) Farsi prossimo
Terminata la parabola, Gesù formula una domanda: "chi dei tre si fece prossimo di colui che cadde nelle mani degli assalitori?" (Lc. 10, 36).
La domanda costituisce il punto culminante della parabola. Risponde all'iniziale questione dello scriba: "chi è il mio prossimo?".
Tutti i commentatori sottolineano la difficile connessione logica tra la domanda del v. 29 e la domanda-risposta di Gesù nel v. 36. E' stata sottolineata anche la somiglianza di questa mancanza di connessione, con un caso simile che s'incontra in un'altra parabola lucana: la peccatrice che unge i piedi di Gesù (Lc. 7, 41-50). In effetti, quella parabola cominciava chiedendo: "chi di loro lo amerà di più"? (7-42) e la conclusione con il v. 47: "Saranno perdonati i suoi molti peccati perché ha amato molto".
Quand'anche si riconoscano le difficoltà del testo, in parte chiarite dall'adattamento della parabola originale a una diversa situazione, si può proporre una soluzione in coerenza con l'insieme del pensiero lucano in questa pericope.
Cominciamo col sottolineare il significato forte del testo greco. Il significato letterale è: "chi dei tre ti sembra si fece (gegonenai) prossimo?".
E' vero che si può tradurre come "si mostrò prossimo", "fu il prossimo", "mise in pratica come il prossimo", ecc. In tutto questo c'è una preoccupazione per collocare il problema non nel piano delle condizioni astratte di prossimità, ma nell'ordine concreto dell'attuazione come prossimo.
Alla domanda astratta dello scriba: "chi è il mio prossimo?" Gesù contrappone quest'altra" chi si fece prossimo? Questa differenza d'impostazione porta logicamente a tutte le altre modifiche. In realtà, se Gesù imposta il problema sul piano del "farsi prossimo", non poteva domandare: "chi fu il prossimo dei tre personaggi della parabola?". Ma se cambia l'impostazione dello scriba, portando la domanda dell'"essere prossimo" al "farsi prossimo", la domanda era normale. Ciascuno dei tre personaggi aveva ragione per sentirsi lontano e ferito grave. Per soccorrerlo tutti lo avrebbero dovuto "farsi prossimi". Solo uno fece questo sforzo morale per mutare nella sua interiorità le disposizioni di estraneità in prossimità. Sicuramente alla radice del Lv. 19, 18 è latente la stessa preoccupazione nell'imporre un precetto che si riferisce al prossimo. In realtà, se uno è prossimo, è evidente che bisogna amarlo. Tuttavia alcune condizioni obiettive di prossimità, possono supporre non poche disposizioni soggettive di allontanamento e ostilità. Per questo s'impone un precetto. Il comandamento esige un'attuazione coerente tra la considerazione obiettiva del connazionale come prossimo, e il comportamento morale corrispondente. Il precetto è per obbligare gli Israeliti a "farsi prossimi" nella pratica.
Questa spiegazione è pienamente coerente con tutta l'impostazione dottrinale dell'evangelista in questa sezione dell'amore al prossimo. La principale preoccupazione si accentra nei comportamenti operativi: " che cosa si deve fare per avere in eredità la vita eterna? (Lc. 10, 25)... Fa questo e vivrai (Lc. 10, 28)... Colui che praticò la misericordia (10, 37a)... va e fa lo stesso (10, 37b)".
In tutta la sezione domina la preoccupazione dei comportamenti operativi. All'interno di tale impostazione ha pieno senso la domanda di Gesù: "chi è colui che si fece prossimo?", che cambia la domanda dello scriba: "chi è il mio prossimo?".
d) "Mossa a Misericordia"
Per spiegare il modo con cui il samaritano si fece prossimo dell'uomo maltrattato, Gesù usa una parola che esprime perfettamente la natura del cambiamento interiore che è necessario avvenga perché uno possa mettere in pratica comportamenti operativi di prossimità. Dice Gesù che il samaritano "ebbe compassione di lui" (10, 33). Il verbo splanchnizomai significa "commuoversi ad uno le viscere". Da qui l'accezione di "sentir compassione", "muoversi a misericordia", ecc.
Ma che significa lasciarsi commuovere? Significa, prima di tutto, essere sensibili al dolore, alla disgrazia, alla necessità; in una parola: capacità di vivere personalmente sentimenti che affliggono l'altro. Però non basta questa sensibilità per l'umanità bisognosa dell'altro. Oltre alla sensibilità si richiede l'atto positivo mediante il quale si accetta la commozione della sensibilità per tradurre in atti positivi la risposta personale alla reazione di simpatia con il dolore altrui. E' la sensibilità nella risposta operativa ciò che provoca il "farsi prossimo".
La mistica ungherese Gitta Mallastaz udì una volta queste parole: "C'è in te un punto in cui sei in errore. E' lì dove sei insensibile. Non è la tua dimensione pagana. E' la tua dimensione nella quale sei pervertita"(10). La mancanza di sensibilità per il bisogno umano, è la perversione della umanità.
La commozione dinanzi al bisogno dell'uomo lancia un messaggio alla libertà e all'amore. Se la libertà e l'amore rispondono, è un atto di misericordia.
Ritornando ai personaggi della parabola, ciascuno di loro si trova in circostanze di lontananza oggettiva rispetto all'uomo gravemente ferito. Tuttavia, se non sono sprovvisti di umanità, colgono il messaggio che alla loro sensibilità lancia la condizione di bisogno del disgraziato mezzo morto. Se il messaggio di commozione umana trova consenso nel fondo del loro cuore, supereranno la estraneità oggettiva e "si faranno prossimi". I due primi personaggi reagiscono con durezza di cuore. Solo il samaritano "provò compassione" e accorse a soccorrere colui che si trovava nella necessità.
e) "Colui che fece misericordia"
Alla domanda di Gesù su chi "si fece prossimo" dei tre personaggi, lo scriba risponde in una maniera indiretta. sente ripugnanza nel pronunciare il nome degli odiati samaritani. Non dice semplicemente: "il samaritano", ma colui che fece misericordia" (10,37). La risposta serve per mettere ancora più in rilievo quanto abbiamo detto nella spiegazione precedente. La reazione di compassione porta a fare atti di "misericordia".
L'importanza di questa espressione in bocca allo scriba, come la menzione della compassione nel v. 33 è grande per la retta comprensione di tutto il problema dell'amore al prossimo. Le due espressioni collocano questo amore nell'ambito della misericordia e fanno di questa parabola e del dialogo che precede, uno dei luoghi più significativi della dottrina neotestamentaria sulla misericordia. Ma "di quale misericordia" si tratta, qui? potrebbe chiedere qualcuno. Vediamolo. Non si tratta qui di misericordia che caratterizza l'essere di Dio in relazione con la miseria umana. E' piuttosto la misericordia che deve manifestarsi tra gli uomini.
Il precetto dell'amore al prossimo diventa misericordia quando l'oggetto di questo precetto è un prossimo qualitativamente differente: il nemico. La ragione di tale cambiamento qualitativo dell'amore in amore misericordioso sta in quanto segue. Nel nemico si danno realtà obiettive di ostilità e rigetto che secondo giustizia cambiano il prossimo in un soggetto da rigettare, tuttavia tali condizioni negative di ostilità e rigetto non eliminano la realtà fondamentale della fraternità umana. Allora, nel conflitto che pone l'uomo contro l'uomo, i motivi giusti di ostilità e rigetto debbono essere superati dall'amore. Ma tale superamento non si ottiene se non mediante l'intervento della misericordia che eleva l'uomo, ad un piano di amore al di sopra dei motivi giusti che ha per mantenere l'ostilità. Ecco che l'amore al nemico non può essere se non un amore misericordioso.
Nella parabola questa dottrina appare chiara.
Posto il samaritano di fronte ad un odiato giudeo, ma messo in condizione di bisogno, mosso a compassione, supera le secolari ostilità e inimicizie tra giudei e samaritani e lo aiuta compiendo un atto di misericordia. Tutti gli elementi di una teologia dell'amore misericordioso da parte dell'uomo, sono perfettamente enunciati e messi in atto.
La parabola del Buon Samaritano è una parabola dell'Amore Misericordioso tra gli uomini.
f) Aspetti cristologici
La parabola del Buon Samaritano è stata considerata dalla tradizione una parabola cristologica(11). Gli aspetti cristologici si sono riscontrati ora nella stessa filologia del testo(12) ora in altre ragioni di tipo più o meno teologico.
A nostro modesto parere, l'elemento cristologico è presente ed è possibile discernerlo ad un livello più profondo che in certe constatazioni basate sulla filologia.
Le parabole descrivono il cammino che aveva percorso Gesù personalmente.
Certamente in quasi tutte le parabole c'è un elemento velatamente autobiografico che rende manifesto il modo con cui Gesù vedeva sé stesso.
In certi racconti parabolici Gesù offre il risultato delle sue proprie riflessioni sulla condizione umana e l'avvento del Regno. Per tutto questo, già dall'esordio è facile accettare che nella parabola del Buon Samaritano ci sia un riferimento alla persona di Gesù. Ma quali criteri adoperare per scoprire gli indizi di una allusione personale?
Un primo elemento che ci orienta nella linea cristologica è la messa a fuoco del tema fin da una prospettiva di caso limite che insegna un paradigma di comportamento, però quasi impraticabile. In effetti, dove incontrare un samaritano che si comporta come il samaritano della parabola? Perché Gesù non presentò i modelli dell'amore fraterno dalla prospettiva del giudeo che fa misericordia a un samaritano?
Il caso limite non può essere puro caso-limite in un tema di così grandi proporzioni qual'è quello dell'amore ai nemici. In altra maniera porterebbe in se stesso il germe del fallimento. Rimarrebbe come la presentazione utopica di un ideale umano che non potrebbe superare la condizione di utopia. Ebbene, tutti i casi utopici o situazioni limite difficilmente applicabili all'usuale degli uomini trovano il loro punto di realismo e di applicabilità nel riferirli alla persona stessa di Gesù nel quale tutte le utopie hanno trovato realizzazione. Letta in questo modo la parabola del Buon Samaritano non offre alcuna difficoltà per capire la sua carica di realismo. Gesù ha amato tutti gli uomini; si è fatto prossimo di tutti; ha amato i suoi nemici.
Però è evidente che questo livello non supera la semplice lettura artificialmente cristologica della parabola.
Un supporto più serio nello stesso testo lo incontreremo nel fatto che Gesù fu chiamato Samaritano dai suoi nemici giudei (Gv. 8,48).
Non c'è dubbio che i giudei di Gerusalemme furono i nemici mortali di Gesù. Questi espressero la loro inimicizia e il rigetto della persona di Gesù accusandolo come samaritano. Gesù assume questa sua designazione e questa accusa superando il rigetto e l'ostilità personale contro i suoi nemici giudei. Gli atti più concreti del suo comportamento verso i giudei sono gli elementi della parabola che riferiscono l'aiuto di salvezza che prestò loro nella condizione di maltrattati e di derubati nella quale si trovavano.
Conclusione
Quando Gesù propose il precetto dell'amore al prossimo includendo nella condizione di prossimo lo stesso nemico personale, indicava ai suoi seguaci una meta difficilmente raggiungibile. In altre parole, era la stessa meta che aveva proposto quando disse:"Siate misericordiosi come il vostro Padre celeste è misericordioso" (Lc.6,36). Era lo stesso traguardo che Lui stesso si era prefisso prima d'insegnarlo agli altri. E nella sua condizione di uomo pieno di grazia e di verità (Gv. 1,14), che tutto ha fatto bene (Mc.7,37) compì questo supremo ideale. Ma non si limitò a vivere lui stesso in una tensione costante verso la perfezione di questa meta, ma la propose ai suoi rivelando la beatitudine che in essa era contenuta: Beati i misericordiosi! (Mt.5,7). Nell'ideale pienamente accettato e convertito in programma operativo, si da una difficoltà difficilmente superabile: "volere il bene è alla mia portata, ma non il compierlo" dice l'apostolo S.Paolo (Rom.7,18). La parabola del Buon Samaritano ci rivela assai al vivo questa drammatica situazione umana. Non basta conoscere il precetto di amare il prossimo per compierlo. Mille circostanze creatrici di lontananza portano all'impotenza lo slancio buono del cuore umano. La realizzazione di tale ideale è possibile solo per una disposizione di sensibilità che "si lascia commuovere". Tutto si racchiude nel mistero della libertà umana potenziata dalla grazia che accade fra il "sentirsi mosso a misericordia" e l'"aderire" a questo movimento e, con l'aiuto di Dio, "praticare la misericordia".
Il caso limite dell'amore al nemico è il caso del comportamento umano, giustificato nelle sue ragioni oggettive di ostilità, che cambia quel piano di oggettività per situarsi in una attuazione pratica misericordiosa.
La legge dell'amore misericordioso umano è "Fà questo e vivrai", cioè a dire: nega la estraneità, crea vicinanza, fà misericordia: questo è vivere.
Di fronte ad una situazione contemporanea molto complessa riguardo all'amore verso il prossimo, Gesù reagisce come in tante altre cose quando vede che la purezza dell'ideale primitivo è stata deformata. Le eccezioni e le esclusioni ammesse dai contemporanei avevano profondamente modificato il tenore del precetto del levitico sull'amore al prossimo.
Gesù nega la legittimità di queste eccezioni ed esclusioni. Si deve amare tutti senza eccezione. Neppure il nemico personale, né gli eterodossi, gli scismatici, gli apostati della religione israelita devono essere esclusi dall'amore al prossimo.
Per spiegare questo insegnamento Gesù racconta la parabola del Buon Samaritano. I motivi delle eccezioni e delle esclusioni si accumulano in questa parabola: Giudei e samaritani; leggi cultuali di sacerdoti e leviti, tutto viene orchestrato meravigliosamente per impartire un insegnamento unico ed essenziale: non c'è nessuna giustificazione per le esclusioni nella legge dell'amore al prossimo.
Il protagonista centrale è un odiato samaritano che, probabilmente, è lo stesso autore della parabola: Gesù.
Nella parabola del Figliuol prodigo Gesù descrisse la misericordia del Padre, cioè: la misericordia di Dio. Nella parabola del Buon Samaritano invece descrive la misericordia dell'uomo. E in questa misericordia il protagonista non è Dio Padre, ma lo stesso Gesù.
Con questi elementi la conclusione sembra evidente. La misericordia di Dio Padre e la misericordia di Cristo Figlio di Dio ci fanno capire che la misericordia è una realtà semplicemente divina.
NOTE
1) Le relazioni fra giudei e samaritani furono caratterizzate da un certo allontanamento fin dai giorni dello scisma di Geroboamo. Si approfondì questo distacco dopo la caduta di Samaria nell'anno 721 e la deportazione che ne conseguì, che significò per il regno del Nord la colonizzazione da parte di gente della Mesopotamia con il conseguente sincretismo religioso (2Re 18, 9-12). La separazione religiosa fu consumata con l'erezione del santuario sul monte Garizim, che fu rivale del tempio di Gerusalemme.
2) JEREMIAS, J.: Die Gleichnisse Jesu, Göingen, 5 ed. 1958; traduzione italiana di L. Algisi: Le Parabole di Gesù. Paideia, Brescia, 2 ed. 1973, pp. 298-306.
3) FLAVIO G.: Antiquitates Judaicae, 18, 30.
4) LEGUAT, M.: Introduzione all'intelligenza del Cristianesimo. Traduzione delle benedettine di Rossano. Cittadella Editrice. Assisi, 1972, p.125.
5) L'autore che più a dubitato dell'autenticità della parabola del
Buon Samaritano è stato SELLIN (Lukas als Gleichniserzähler: Die Erzählung vom barmherzigen Samariter, Lk. 10, 25-37 en ZNW 65 (1974) 166-189; 66 (1975) 19-60). Per questo autore la parabola sarebbe una pura creazione lucana, senza un vincolo formale con le parabole autentiche di Gesù.6) Secondo il parere di Jülicher, grande commentatore delle parabole, la parabola finirebbe come in Lc. 18,14. O anche una conclusione che potrebbe essere più o meno così: "chi dei tre vi
sembra degno di ereditare la vita eterna?" (Die Parabeln Jesu, II, Tübingen, 1899, p. 597).7) Secondo Bultmann, sarebbe autentica solo la parte iniziale della
domanda "chi dei tre...?" (Die Geschichte der Synoptischen Tradition, Göttingen, 3 ed. 1957, 192).8) La ragione principale è il vocabolario tipicamente lucano. Vedere le statistiche in BOISMARD, M. - E., Less Evangiles Synoptiques, vol.II, Paris 1972, § 191, 2.
9) Les Evangiles Synoptiques, II, 285.
10) Dialogues Avec l'Ange. Traduzione francese in collaborazione con
H. Boyer, Paris, 1976, p. 50.11) Tale e il caso di GERHARDSSON, B.: The Good Samaritan - The Good
Shepherd?. Coniectanea Neotestamentica, 16, Lund-Köbenhavn, 1958 e DANIELOU J., Le bon Samaritain, in Mélanges en l'honneur de André Robert, p. 457-465.12) Specialmente Gerhardsson.