Herbert Franta
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO: PSICOLOGIA DEL COMPORTAMENTO PROSOCIALE
1. Lo studio del comportamento prosociale nella psicologia contemporanea: introduzione
Ogni giorno veniamo a conoscenza di persone che si trovano in situazioni di difficoltà e che, a volte, sono nella impossibilità di affrontare e risolvere da sole i loro problemi o le loro crisi.
Queste situazioni ci colpiscono principalmente nei casi in cui la responsabilità non può essere attribuita né alla stessa persona in difficoltà, né al sistema assistenziale carente, né alla struttura sociale. E' una realtà, questa, che ci mette di fronte al fatto che in molte situazioni della vita, per affrontare i nostri problemi personali, dobbiamo poter contare sull'aiuto degli altri.
La psicologia sociale, che negli ultimi dieci anni era impegnata soprattutto a ricercare le cause e le forme di violenza nella nostra società, attualmente si interessa nel comportamento prosociale che considera, in genere, come un comportamento importante per il nostro bene e come aiuto verso gli altri, in situazioni di emergenza o di crisi.
La conoscenza dei fattori, che promuovono, sostengono o impediscono l'agire prosociale delle persone, è oggetto di ricerca, che è in vista come necessaria, se si vuole raggiungere un livello di vita più significativo per tutti.
Tuttavia i singoli ricercatori, pur concordando sull'importanza dell'agire prosociale, per una qualità di vita migliore, e sulla descrizione di una svariata gamma di azioni (per es.: aiuto, donazione, soccorso, cooperazione, ecc. KREBS, 1970, 259), attraverso le quali una persona può realizzare un comportamento prosociale, non concordano su una definizione univoca di esso.
BAR-TAL (1976, 4) per es., descrive il comportamento prosociale come un agire volontario che viene realizzato senza l'anticipo di ricompense esterne e che costituisce un atto di restituzione, ossia è un comportamento questo che è effettuato per se stesso.
Per WALSTER - PILIAVIN (1972, 166) è un comportamento che benefica l'altro, e non se stessi, e proviene dalla bontà del cuore.
Riassumendo, per quanto riguarda il problema della definizione, possiamo dire che l'agire prosociale si manifesta in un comportamento in cui la persona si sacrifica volontariamente e disinteressatamente per il bene degli altri (cf. KREBS, 1970; BAR_TAL; 1975, 3ss).
Prescindendo qui dalle obiezioni che provengono da alcune teorie psicologiche, per es., dal comportamentismo di tipo operante (SKINNER, 1953) e dalla psicoanalisi freudiana (cf. KREBS, 1970,260ss), sulla possibilità dell'uomo di agire deliberatamente in modo prosociale, possiamo dire che nella psicologia sociale i ricercatori hanno contribuito a chiarire e definire le variabili che introducono e mediano l'agire prosociale (DERLEGA - GRZELAK, 1982).
Alla luce di queste conclusioni cercheremo di leggere, ora, la parabola del Buon Samaritano, aggiungendo, a scopo pastorale alcune riflessioni pratiche, per la formazione all'agire prosociale.
2. L'azione del Buon Samaritano come modello dell'agire prosociale o altruistico
Nonostante la convinzione che è importante agire in maniera prosociale, soprattutto nei confronti di persone che abbandonate a se stesse non riescono a superare situazioni di emergenza o di crisi, ogni giorno rimaniamo colpiti dal fatto che alcune persone spesso sono lasciate da sole nella loro sofferenza e, a volte, vittime di crudeltà, devono patire sino alla morte a causa della indifferenza o passività da parte degli altri.
ROSENTHAL (1964) riportò, anni fa, un clamoroso esempio di indifferenza e di apatia. Un killer, nel giro di una mezz'ora, uccise crudelmente Kitty Genovese, mentre 38 persone assistevano passivamente dai loro appartamenti; non solo essi non si mossero in soccorso alla vittima, ma, neanche cercarono di chiamare la polizia, perché almeno questa intervenisse a prestare aiuto.
Un altro fatto di mancato soccorso viene descritto da DARLEY-BAT-SON (1973). I due ricercatori diedero a un gruppo di studenti di college il compito di riflettere sulla parabola del Buon Samaritano, contemporaneamente poi venivano messi a confronto con una situazione in cui una persona in maniera simulata compariva come vittima.
Il risultato sorprendente di questa ricerca, e le conclusioni a cui giunsero i ricercatori, è che neanche l'aver presente il modello del buon Samaritano e il riflettere sul suo comportamento aumenta la possibilità di soccorso, per le persone in situazione di emergenza.
Di fronte a questo triste fatto, e a tanti altro di cui ognuno
di noi, purtroppo, può essere a conoscenza, dobbiamo chiederci come mai si possa rimanere indifferenti o passivi di fronte a situazioni di emergenza o problemi gravi in cui alcune persone vengono a trovarsi.
L'attuale riflessione, sulla parabola del buon Samaritano (Lc 10, 37), può essere per noi non solo una reale possibilità per accrescere la nostra sensibilità nei confronti delle persone in situazione di bisogno, ma soprattutto un motivo di ispirazione per il nostro agire prosociale.
Rifacendoci alla parabola troviamo descritti i seguenti comportamenti significativi per l'agire prosociale: "Invece un Samaritano che era in viaggio gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si accostò, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò" (Lc 10, 33s). Questi tre tipici comportamenti mettono in evidenza il tipo di interazione tra il Samaritano e la vittima: l'attenzione (vide), la commozione, e infine l'opera di soccorso. Le sequenze di questi tre diversi comportamenti, sono il risultato della interdipendenza di fattori situazionali e di fattori personali.
Il comportamento del Samaritano si distingue da quello del sacerdote e del levita, nella parabola di Luca (10, 30ss) a causa delle differenze che riguardano l'interdipendenza di questi fattori presenti in ciascuno di questi personaggi.
2.1 L'attenzione soggettiva come condizione di soccorso o di aiuto
La nostra percezione ha il carattere della soggettività e della selettività; essa è una interpretazione della realtà, la quale dipende dalla proprietà degli stimoli situazionali e personali (FRANTA - SALONIA, 1981, 13ss), di conseguenza la realtà non viene percepita in modo oggettivo e nella sua totalità, ma nel significato che essa ha per colui che percepisce.
Assumendo, con la psicologia fenomenologica, il principio secondo il quale il nostro comportamento dipende dal modo con cui noi percepiamo la realtà, dobbiamo accettare che anche nel caso dell'agire prosociale, la percezione, e la interpretazione della situazione di bisogno di una persona, è decisiva per un comportamento prosociale.
Dopo questo breve accenno al fatto della soggettività della percezione, riflettendo sul comportamento sia del sacerdote, sia del levita che del samaritano, così come viene descritto in Lc 10, 33, possiamo ipotizzare che la diversità di comportamento di fronte alla persona aggredita può essere dipesa dal modo con cui essi interpretano quella situazione. Nella prospettiva psicologica queste differenze di percezione possono essere attribuite - come accennato prima . a fattori situazionali e a fattori personali.
Sono considerati fattori situazionali, secondo BAR-TAL (1975, 66), le caratteristiche o variabili della situazione nella quale c'è una necessità di soccorso, o anche gli stati psicologici attuali o temporanei della persona che dovrebbe intervenire a soccorrere o a prestare aiuto.
Poiché nella parabola le variabili presenti nella situazione sono costanti, possiamo ipotizzare che i fattori situazionali che differenziano la percezione dei personaggi descritti si riferiscano a quelli che rientrano nella categoria del compito. (1) Infatti sia il sacerdote che il levita, a causa del ruolo religioso che svolgono ambedue, e che prende tutta la loro attenzione, sono meno aperti alla situazione della vittima che il Samaritano, del quale nella parabola si dice che era semplicemente in viaggio (Lc. 10, 33).
Con DARLEY - BATSON (1973, 101), di fronte a questa diversità di comportamenti, possiamo ipotizzare che, sia il sacerdote sia il levita, dato il notevole impegno a svolgere con accuratezza il loro ruolo, (2) erano centrati sul loro compito immediato e nella incapacità, quindi, di percepire la situazione della vittima. Al contrario, il Samaritano non solo era una persona socialmente meno importante, ma era dal punto di vista religioso un eretico, che i giudei fedeli dovevano evitare.
Appunto per questo, egli era libero dalla pressione delle aspettative sociali, non esclusivamente centrato sulla meta da raggiungere o preoccupato del compito da svolgere.
Un messaggio che noi possiamo ricavare, da questa parte della parabola del buon Samaritano, è che il sacerdote e il levita, a causa della loro eccessiva incapacità a distanziarsi dal ruolo - forse perché costituisce la loro identità - e per essere eccessivamente centrati su se stessi (self-consciousness), sono incapaci di entrare in un contatto più differenziato con il loro mondo.
Per quanto riguarda il modo di relazionarsi al proprio mondo, a causa della identificazione con le aspettative legate al ruolo, possiamo, per gli effetti della percezione soggettiva, citare le parole di H. Hesse (1975, 145s) che riguardo alla direttività e non direttività della persona nel relazionarsi col suo mondo scrive: "Quando qualcuno cerca - rispose Siddartha - allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quello che cerca, e che egli non riesca a trovare nulla, non possa esservi nulla in sé, perché pensa unicamente ciò che cerca, perché ha uno scopo, è posseduto dal suo scopo". Possiamo quindi dedurre che la preoccupazione per il compito o l'essere posseduti dalle nostre aspettative personali ci fa perdere il contatto con il mondo circostante. I fattori personali, come già abbiamo accennato precedentemente sono anch'essi la causa di una diversa interpretazione che i personaggi danno alla situazione con la quale si trovano a confronto. Per fattori o variabili personali intendiamo determinate proprietà della personalità, ossia dei principi consistenti che nei vari momenti percettivi diventano attivi nel selezionare ed organizzare la realtà (FRANTA-SALONIA, 1981, 17ss).
Tra le variabili personali, utilizzando l'indicazione che Gesù ci suggerisce nel raccontare la parabola, possiamo ipotizzare, per primo, gli atteggiamenti religiosi diversi dei personaggi considerati, che influiscono sulla diversa interpretazione della situazione.
Il sacerdote e il levita sono, secondo i relativi passi evangelici, persone certamente fedeli a un tipo di religiosità legalista ed egocentrica quindi, centrata sulla persona stessa e sul suo bisogno di acquistare valore e stima presso Dio e gli uomini.
Comunque, quando nel sistema di valori di una persona il proprio Io o Sé occupa un ruolo centrale, gli aspetti o valori hanno solo una posizione di relativa importanza (REYKOWSKI, 1982, 363).
Diversamente, invece, possiamo dire del Samaritano. Lui appartiene a un gruppo eterodosso, che non riconosce la tradizione d'interpretazione legale del giudaismo ufficiale. Egli Poiché non ha una religiosità legalista non deve preoccuparsi in modo compulsivo dell'osservanza della legge e delle norme, per conquistarsi la stima di Dio e degli uomini, è più aperto al richiamo delle situazioni con le quali entra in contatto.
Possiamo da ciò concludere che Gesù contesta il tipo di religiosità del sacerdote e del levita, che in fondo ostacola il vero amore verso Dio e verso gli uomini, e ci esorta a sviluppare un atteggiamento di apertura e sensibilità al richiamo e alle esigenze delle situazioni con le quali veniamo confrontati.
Per riuscire ad essere sensibili alla chiamata della situazione e interpretarla responsabilmente non è quindi funzionale un atteggiamento legalistico di tipo compulsivo, ma è necessaria un'attenzione disinteressata (choiceless awareness), che è capace di cogliere momento per momento il significato della relazione col mondo.
L'attenzione disinteressata e differenziata è possibile anche in relazione alla norma, se la persona, in pieno rispetto della legge - ma senza un ansioso coinvolgimento di fronte ad essa - è orientata e aperta a tutte le situazioni della vita, comprese quelle contemplate dalla legge.
Le differenze di percezione della situazione, così come è vista dai personaggi della parabola, dipendono, oltre che da un atteggiamento personale legalista e egocentrico, anche dalle differenze legate ad atteggiamenti pregiudiziali provenienti da una religiosità estrinseca.
Rifacendosi alle rispettive ricerche sugli atteggiamenti di pregiudizio e alle tipiche forme religiose, ALLPORT-ROSS (1967, 441) arrivarono alla conclusione che le persone con un orientamento religioso estrinseco (la religione, quindi, come per il sacerdote e il levita, ha la funzione di sicurezza, conforto, status sociale ed è di conseguenza strumento di sopravvivenza e di garanzia esistenziale), hanno necessariamente un tipo di religiosità sostenuta da atteggiamenti di pregiudizio.
La presenza di pregiudizi, nella forma di religiosità estrinseca, deriva dal fatto, che in questa forma, l'individuo non penetra sino all'essenza della religiosità, ma, si serve di essa per scopi propri comportandosi di conseguenza in maniera altamente difensiva, ossia diventa esclusivo, intollerante, ecc... Quando invece le persone possiedono un tipo di religiosità intrinseca, le singole credenze o contenuti religiosi sono assimilati e vengono espressi attraverso atteggiamenti di umiltà, apertura, compassione e amore verso il prossimo. Di conseguenza non c'è posto per i pregiudizi - e quindi non esiste l'intolleranza o il rifiuto di persone che appartengono ad un'altra religione o gruppo etnico - ma soprattutto, la forma intrinseca di religiosità, non ha la funzione di tranquillizzare la persona (ALLPORT-ROSS, 1967, 441).
Evidenziata la correlazione positiva tra la religiosità estrinseca e i pregiudizi che ne derivano, possiamo fare l'ipotesi che esistono delle notevoli differenze sul grado di tolleranza che hanno i personaggi della parabola, nei confronti di gruppi religiosi ed etnici diversi.
Possiamo dunque pensare che il sacerdote e il levita, a causa di pregiudizi verso le persone non appartenenti al loro gruppo religioso e di conseguenza a tutto ciò che succede loro, sono soggetti a una esposizione selettiva nei confronti della realtà, e quindi a percepire il mondo secondo una loro visione distorta o pregiudiziale.
Riassumendo, circa la percezione soggettiva dei personaggi presenti nella parabola, possiamo dire che la differenza di interpretazione della situazione della vittima dipende, a livello ipotetico, dal grado di capacità che essi hanno di distanziarsi dal proprio ruolo, dall'attenzione differenziata che - come abbiamo visto - può essere influenzata negativamente da un atteggiamento compulsivo e legalista e dai pregiudizi verso altri membri di gruppi religiosi o etnici diversi.
Entrambi i fattori influiscono infatti sulla distorsione della percezione della situazione reale della persona, nonché da una religiosità interessata o estrinseca.
Il Samaritano, invece, è libero da questi influssi ed è in grado di venire a contatto con la situazione della vittima in modo più realistico, ossia di percepire la situazione come un caso di emergenza che lo chiama in causa.
2.2 Coinvolgimento emozionale empatico come motivazione
Nell'ambito della ricerca prosociale, gli studi più recenti sul comportamento di aiuto si sono interessati in modo più esteso alle variabili che influiscono sulla interpretazione della situazione, che ai processi che motivano l'agire prosociale (COKE - BATSON - DAVIS, 1978, 752).
Per una riflessione critica sui motivi che portarono il Samaritano a soccorrere la vittima, riteniamo necessario accennare ad alcuni modelli di interpretazione dei processi della dinamica motivazionale. Riteniamo che questi riferimenti alla ricerca empirica, nell'ambito della psicologia sociale, possono aiutarci a comprendere qualcosa in più sullo stato motivazionale del Samaritano, che l'evangelista semplicemente descrive con il termine di compassione.
Le ricerche sulla motivazione all'agire prosociale rivelano che esso è mediato da processi cognitivi e da processi emozionali. I modelli che interpretano tale motivazione assegnano a questi due processi ruoli differenti.
Possiamo subito individuare una prima categoria di modelli che attribuiscono più importanza ai fattori emozionali che a quelli cognitivi, rispetto al sorgere della motivazione all'agire prosociale. Occorre precisare innanzitutto che all'interno di questi modelli la dinamica motivazionale è mediata dal coinvolgimento emozionale (arousal) che la persona vive, trovandosi in una situazione in cui è necessario dare aiuto.
Secondo la teoria di PILAVIN et al. (1982, 281), un individuo quando percepisce la presenza di una persona che si trova in una condizione di vittima, all'interno di una situazione di emergenza, sperimenta stati emozionali negativi. Di conseguenza egli si sente spinto ad aiutare la vittima proprio per il bisogno di ridurre il proprio stato emozionale negativo, che il contatto con la situazione di emergenza ha fatto insorgere.
Secondo HORNSTEIN (1982, 231ss), invece, il coinvolgimento, che spinge una persona ad aiutare un'altra, non si basa sulla necessità di ridurre il disagio personale che sorge nel confrontarsi con il disagio altrui, ma, è basato sulla solidarietà con l'altro.
Questo coinvolgimento ha la sua origine nella situazione di intersoggettività che si crea tra le due persone e nella percezione dell'esistenza di una gestalt aperta (bisogni, necessità ecc.) che, in un tale contesto intersoggettivo interessa non più solo uno dei due, ma entrambi.
La gestalt aperta si riferisce al fatto di rendersi conto che l'altro non sta raggiungendo la sua meta. Questo significa che quando si vivono i bisogni di un'altra persona come i propri e si sperimenta il senso del Noi, dell'essere con la situazione, nasce una tensione propulsiva (promotive tension), che spinge ad aiutare chi ha bisogno, affinché questi raggiunga i propri obiettivi. In base a quanto detto sopra, la tensione propulsiva è quindi un tipo di coinvolgimento emozionale che motiva ad agire in senso prosociale, basandosi sulla solidarietà che si sperimenta verso chi ha bisogno di aiuto o soccorso. In questo ultimo caso la motivazione è di tipo prosociale, in quanto centrata sui bisogni e sugli interessi dell'altro. Il suo carattere altruistico è comunque da relativizzare per il fatto che, in fondo, cerca di chiudere una gestalt aperta per il semplice scopo di promuovere la vita attraverso l'intersoggettività responsabile.
Pertanto, secondo questi due modelli presentati, la motivazione all'agire prosociale è il risultato del coinvolgimento emozionale sperimentato in modo negativo o avversivo.
Questi stati emozionali nascono quando una persona entra in contatto con una situazione di crisi, di emergenza o di bisogno di un altro. L'agire prosociale pertanto avrebbe la funzione di un comportamento di evitamento (PILAVIN et al., 1982), riducendo lo stato avversivo che il coinvolgimento produce, o la funzione di chiudere, in favore di un altro, una gestalt aperta (HORNSTEIN, 1982).
Nel modello di REYKOWSKI (1982, 361), invece più che ai fattori emozionali viene data importanza ai fattori cognitivi. Questo autore rivela che la motivazione dell'agire altruistico è fondata sul bisogno o sull'interesse di provvedere al benessere degli oggetti sociali (per es. persone ). Questo tipo di motivazione nasce quando, nel sistema della persona che aiuta, l'oggetto sociale figura come una struttura cognitiva complessa (3) e quando le informazioni, circa l'attuale stato dell'oggetto sociale, creano dissonanze cognitive, nel rivelare una discrepanza rispetto allo stato normale o ideale.
La forza motivazionale dipende in questo caso dal valore che la persona attribuisce a un oggetto sociale e dall'intensità della dissonanza cognitiva che sorge dalle informazioni circa il deficit esistente tra la sua attuale situazione e il normale stato di benessere. E' da sottolineare che in questa ottica l'agire prosociale trova le sue motivazioni non in vista di possibili gratificazioni o per corrispondere alle pressioni che provengono da determinate norme, ma per "l'intrinseco valore attribuito alla natura di un oggetto" (REYKOWSKI, 1982, 362). La motivazione quindi deriva fondamentalmente dalla dissonanza causata dalla presa di coscienza del dislivello tra lo stato normale e quello attuale dell'oggetto sociale, considerato come avente valore in sé.
Il considerare i fattori cognitivi come mediazione all'agire prosociale è presente anche in quei modelli che considerano una forza motivazionale il corrispondere alle aspettative personali e sociali derivanti da norme e valori.
In questa visione, secondo BERKOWITZ - DANIELS (1963), la motivazione all'agire prosociale deriva dalle norme che riguardano la responsabilità sociale e, secondo WALSTER - WALSTERS - BERSCHEID (1978), essa deriva dalle norme che riguardano la dimensione della uguaglianza nell'intersoggettività. La forza motivazionale, secondo questi due ultimi modelli, è quindi da attribuire alle pressioni che provengono dalle aspettative fondate nei sistemi delle norme e dei valori.
I modelli di COKE - BATSON - McDAVIS (1978) al contrario dei precedenti modelli, comprendono al loro interno sia gli aspetti cognitivi che quelli emozionali, nella loro reciproca interdipendenza. Questi autori interpretano l'agire prosociale come mediato dall'atteggiamento empatico che si sviluppa in due fasi successive: a) nella prima, l'assumersi la prospettiva di una persona in necessità aumenta il processo empatico-emozionale; b) l'emozione empatica, a sua volta, aumenta la motivazione che spinge a vedere la necessità della persona in situazione di bisogno.
Circa l'interdipendenza tra fattori cognitivi ed emozionali COKE - BAT - SON - McDAVIS (1978, 753) sottolineano che la prospettiva cognitiva influisce sulla motivazione a prestare aiuto soltanto nella misura in cui essa produce effetti sulla reazione empatico-emozionale.
Dopo questo breve accenno ad alcune teorie volendo interpretare la motivazione del comportamento del Samaritano, dobbiamo constatare che già Luca parlando di compassione ne fornisce una interpretazione. Da questa breve e semplice caratterizzazione della motivazione del Samaritano, possiamo comunque concludere che egli non soccorre per ridurre un proprio stato emozionale avversivo (per es. per identificazione con la vittima o per anticipazione di sensi di colpa nati dalla mancanza di solidarietà ), e neppure per conseguire gratificazioni (approvazione sociale o ricompensa), ma per un coinvolgimento emozionale-empatico: la compassione, rispetto alla situazione di emergenza della vittima. Essa si basa sul motivo: io voglio che tu non muoia. In questo caso ci troviamo di fronte a una qualità processuale fondamentale dell'autentico amore.
In questo caso possiamo ipotizzare che la motivazione è il risultato della meditazione della percezione empatica, cioè del vedere la situazione di emergenza così come essa viene sperimentata dalla vittima, e dell'emozione empatica: sentire con la vittima, partecipare con lei. Questa ipotesi si fonda sulla constatazione che il Samaritano sperimenta pienamente l'ingiustizia che era stata fatta nei confronti di una persona e risponde di conseguenza, con un comportamento motivato dalla tensione propulsiva. Il Samaritano infatti si dà da fare per riparare al danno commesso nei riguardi della vittima sentendosi corresponsabile con la sua sorte, cercando di facilitare la sua guarigione e permettendole così il ritorno ad uno stato buono di salute.
Detto questo possiamo concludere che dal punto di vista della motivazione, il Samaritano si caratterizza come un tipo altruistico, exocentrico, (KARYLOWSKI, 1982, 398) perché centrato in modo disinteressato sulla situazione di emergenza della vittima. La dinamica motivazionale è mediata dalla compassione, cioè dal coinvolgimento empatico-emozionale a favore della vittima, in modo disinteressato.
2.3 La realizzazione dell'azione di aiuto
Alla consapevolezza della situazione di crisi e di emergenza, che un'altra persona vive e al sentirsi motivato ad intervenire, deve necessariamente seguire la capacità in colui che ha deciso di offrire il suo aiuto, di giudicare la propria abilità e di identificare i mezzi necessari al suo scopo. Infatti solo nel caso in cui la persona che aiuta è capace di valutare fino a che punto è in grado di intervenire, ed è capace di poter aiutare scegliere i mezzi idonei per aiutare, è possibile parlare di una azione responsabile.
Difficile diventa comunque prendersi la responsabilità in situazioni di emergenza, quando la persona non può fare ameno di intervenire.
Rispetto a come il Samaritano è stato in grado di realizzare il suo aiuto, possiamo dire che egli appare come qualcuno che non soltanto si sente responsabile nell'intervenire in una situazione di emergenza, ma come una persona altruista che si sente spinta anche a provvedere per la cura futura della persona soccorsa,. In questo caso la realizzazione del momento più immediato del soccorso si estende ad un intervento più completo in riferimento alle necessità della persona da aiutare.
3. Conclusioni critiche e note pastorali
Guardando la parabola del buon Samaritano sotto la prospettiva psicologica, possiamo notare i principi fondamentali dell'agire prosociale. Infatti la parabola rivela come l'agire personale sia una complessa struttura che dipende da vari fattori: a) la capacità della persona che aiuta di entrare in contatto (cioè di percepire empaticamente), con la situazione di crisi o di emergenza o di bisogno dell'altro; b) lo stato emozionale della compassione (come dinamica motivazionale altruistica); c) l'intervento in modo responsabile.
Chiedendoci, a questo punto, qual'è il rapporto tra l'aspetto psicologico dell'agire prosociale e il messaggio evangelico contenuto nella parabola del buon Samaritano, è anzitutto da dire che è un rapporto di tipo complementare.
La ricerca sulla psicologia dell'agire prosociale ha come obiettivi: quello di indicare quali fattori impediscono o favoriscono la nostra capacità di contrattare l'altro che ha bisogno di noi, l'obiettivo di rivelarci dei criteri per diventare consapevoli del tipo di motivazione che si spinge ad aiutare e infine l'obiettivo di conoscere dei parametri per renderci responsabili rispetto all'intervento concreto.
Alla domanda su qual'è l'ultimo autentico motivo per aiutare l'altro la psicologia non può dare risposte. Infatti i criteri, indicati dalla psicologia sociale per valutare il carattere prosociale dell'agire, sono da considerarsi come dei parametri formali a cui non corrispondono principi che danno un significato ultimo dell'agire prosociale. A questo punto riteniamo che il messaggio cristiano è in grado di indicare nell'Amore il vero motivo per intervenire a favore degli altri, quando ne hanno bisogno. Solo questo principio centra tutto l'agire sull'altro e dà origine al senso dei Noi che ultimamente ha il suo fondamento in Dio (KÜNKEL, 1955, 1972).
NOTE
1) Per compito si intende qui una predisposizione dello stato inconscio per una parte del contenuto
2) Tra le prospettive legate al ruolo figurano anche quelle che derivano dalla prescrizione di non accostarsi a una vittima per il timore di diventare impuri e di non poter svolgere l'immediato servizio liturgico.
3) La struttura cognitiva è una categoria complessa che comprende molti altri costrutti, come ad es., complessi processi percettivi, aspettative, ipotesi, regole o strategie per la promozione dei concetti, ecc. (HOFFMANN, 1979).