Carlo Caffarra

"L'UOMO CHE MI STA DINANZI, OVVERO L'ETICA DELLA PROSSIMITA'"

 

La riflessione etica sulla prossimità implica due momenti essenziali. Implica l'individuazione del significato teorico di prossimità e l'individuazione del significato pratico della medesima.

L'etica, infatti, è la conoscenza della verità in quanto questa è affidata alla realizzazione della libertà: scoperta dalla ragione (etica filosofica) e dalla intelligenza della fede (etica teologica).

 

1. Significato teorico di "prossimità".

La definizione teoretica di "prossimità", che si propone di coglierne la verità, è il fondamento dell'etica della prossimità. Se ciascuno di noi "deve qualcosa" al prossimo è in ragione di ciò che il prossimo è. Cercheremo di elaborare questa definizione in due momenti: uno filosofico (chi è il prossimo alla luce della sola ragione), uno teologico (chi è il prossimo alla luce della fede).

1.1. Partendo dalle esperienze più immediatamente percepibili, il termine "prossimità" richiama immediatamente l'esperienza di una "vicinanza". Ma, che cosa implica una "vicinanza" fra due o più persone? E' immediatamente ovvio che essa non implica necessariamente una vicinanza fisica, almeno nel senso che posta l'una, cioè la vicinanza fisica, è data per ciò stesso la prossimità nel senso che andremo scoprendo. Chi di noi non ha sperimentato vicinanze fisiche in un contesto di profonde lontananze spirituali? Quando, dunque, due o più persone sono vicine?

Poiché ciò che specifica ontologicamente la persona è lo spirito e chi dice spirito dice coscienza, la vicinanza-prossimità delle persone umane implica, come sua dimensione essenziale, la dimensione spirituale. Ma, in che cosa consiste precisamente la "dimensione spirituale" della prossimità?

Presupponendo in questo contesto una accurata e rigorosa riflessione metafisica dello spirito, possiamo cominciare col dire che lo spirito si svela mediante una duplice attività fondamentale, quella conoscitiva e quella volitiva. La conseguenza è che il contenuto della dimensione spirituale della prossimità deve essere cercato e trovato all'interno di rapporti che trovano la loro radice ultima nell'attività conoscitiva e volitiva dello spirito: si è "vicini", si è "prossimi" quando ci si conosce e quando ci si vuole; si è "lontani" quando non ci si conosce e non ci si vuole.

Questa affermazione, tuttavia, implica due problemi di decisiva importanza per tutta la nostra questione. Sono i seguenti: dal momento che la conoscenza umana può essere vera o falsa, ogni conoscenza istituisce una prossimità fra le persone oppure solo una conoscenza vera?

Ed è il primo problema. Il secondo è più complesso ed è necessaria una breve premessa alla sua enunciazione.

Già la filosofia greca (1) aveva notato che l'attività volitiva può rivolgersi verso la realtà in tre modi profondamente diversi. Si può volere una realtà in quanto serve, è utile per qualcosa d'altro: rapporto utilitaristico; si può volere una realtà in quanto piace: rapporto edonistico; si può volere una realtà in quanto è in se stessa e per se stessa degna di essere voluta (prescindendo dalla sua utilità e/o dalla sua piacevolezza): rapporto personalistico. Il secondo problema è, pertanto, il seguente: ogni volontà istituisce una prossimità fra le persone oppure solo un rapporto personalistico?

(A) Il primo problema è quello di più difficile soluzione. Partendo sempre dai dati più immediati della nostra esperienza quotidiana, è ovvio che il rapporto di prossimità fa "uscire da sé" la persona umana: è la rottura, il superamento della sua solitudine. Orbene, che cosa consente, alla radice, questa rottura, questo superamento?

Uno dei teoremi fondamentali della metafisica classica della conoscenza, della metafisica realistica, è che l'uomo, conoscendo e in quanto conoscente, fit quodammodo omnia: diventa, in un certo senso, tutto. (2) Riflettiamo attentamente su questo punto.

Esiste una fondamentale differenza fra il "sentire" male alla testa, per esempio, e il conoscere le proprietà del triangolo. Nel primo caso, infatti, io sono sofferente, nel secondo caso al contrario io non sono quel triangolo che conosco. La conoscenza, cioè, istituisce un rapporto colla realtà conosciuta in forza della quale la realtà conosciuta è presente a me e in me, non fisicamente ma realmente, pur permanendo nella sua alterità. La realtà conosciuta è, contemporaneamente, presente in me e a me e altra da me: presenza-alterità. L'atto della conoscenza è ciò che, alla radice, fa uscire un essere dalla sua solitudine. Un essere privo di qualsiasi potere conoscitivo, una pianta, un sasso, è ermeticamente ed irrimediabilmente chiuso in se stesso, senza vie di uscita (3).

In che cosa precisamente consiste la verità della conoscenza? La conoscenza umana si compie in quell'atto della ragione mediante il quale l'uomo afferma/nega: si compie nei suoi giudizi. La verità della conoscenza consiste nella corrispondenza fra ciò che è affermato/negato e la realtà, nell'adeguarsi della intelligenza alla realtà. E' la verità che rende presente allo spirito e nello spirito, la realtà che è altra dallo spirito che la conosce. E' la conoscenza vera che rompe il cerchio di solitudine della persona conoscente e fa uscire la realtà conosciuta dalla sua solitaria opacità. Quando, al contrario, la conoscenza è falsa, la persona conoscente resta irrimediabilmente chiusa dentro se stessa, inseguendo mere costruzioni ideali della sua ragione (4).

Da ciò consegue che la condizione prima e fondamentale perché si istituisca una prossimità fra le persone, è l'essere e il rimanere nella verità. E l'avere espulso il problema della Verità dal campo di un'etica della prossimità - espulsione compiuta da larga parte della cultura moderna e contemporanea - è stato uno degli errori più gravi. Un'etica senza verità è una contraddizione.

Ma, non è di una prossimità qualsiasi che stiamo parlando: è della prossimità delle persone che stiamo parlando. Alla luce dei fugaci accenni fatti sopra, possiamo continuare la nostra riflessione.

Il racconto del secondo capitolo della Genesi ha anche una potente valenza metafisica ed è in questa prospettiva che da esso ora prendiamo spunto.

La "prossimità" non si istituisce quando l'uomo è posto di fronte agli animali. Eppure l'uomo li conosce: dà loro il nome. Che cosa è che impedisce l'istituirsi della prossimità fra l'uomo e gli animali? Non esiste una "similitudine" fra i due. La prossimità è istituita, e l'uomo esce dalla sua solitudine, quando l'uomo conosce che Eva è "ossa delle sue ossa": è partecipe della sua stessa umanità. La prossimità è istituita dalla partecipazione nella stessa umanità, partecipazione conosciuta. Ritroviamo qui tutti gli elementi costitutivi della prossimità finora individuati: presenza dell'uno all'altro, nel e mediante l'atto della conoscenza vera, nell'unità della partecipazione alla stessa umanità (5).

Cerchiamo, ora, di precisare il più rigorosamente possibile, prima di procedere oltre, il ruolo proprio di ciascuno di questi elementi costitutivi della prossimità.

Il fondamento ontologico della prossimità, ciò che fa sì che la prossimità esista, indipendentemente da qualsiasi altra condizione è la partecipazione delle persone umane nella stessa natura umana: ciò per cui l'uomo è semplicemente uomo, è identico in ogni uomo. E' per questo che ogni uomo, in quanto uomo semplicemente, è mio prossimo. Senza questo fondamento ontologico, parlare di prossimità, in realtà, diviene impossibile.

Questo fondamento ontologico agisce come tale, come fondamento della prossimità, quando è conosciuto. Solo quando è conosciuta (e riconosciuta, come vedremo), la partecipazione nella stessa umanità genera la prossimità. Si deve, però, fare attenzione: non è la conoscenza che fonda la prossimità, ma la conoscenza è ciò mediante cui la prossimità si istituisce. In termini tecnici: la conoscenza non è il "principium quod" ma il "principium quo" della prossimità. La conseguenza è che se questo atto della conoscenza non conosce la realtà dell'altro uomo, se è una conoscenza falsa dell'umanità dell'altro uomo, la prossimità non può neppure sorgere. In altre parole: solo la verità nei rapporti inter-personali istituisce la prossimità.

Alle stesse conclusioni giungiamo, seguendo un'altra pista di riflessioni, studiando cioè la genesi della prossimità. Mentre la riflessione precedente era di carattere strutturale, questa è di carattere genetico. La domanda, cioè, che ora ci facciamo è: come nasce la prossimità?

Già la saggezza pagana diceva che "prima societas in coniugio". La primarietà attribuita alla comunità coniugale non va intesa solo nel senso che, solitamente, è dal e nel matrimonio che ha origine la persona umana e, dunque, la società umana. Essa va soprattutto intesa nel senso che la comunità, possiamo dire il modo di essere "prossimi" proprio degli sposi costituisce il momento originario del costituirsi della prossimità fra le persone umane. La dicotomia sessuale, nell'uomo, costituisce e, nel contempo, svela la vocazione nativa dell'uomo alla comunione, alla prossimità: a conoscere (e riconoscere) nell'altro uno che, partecipe della stessa umanità, è chiamato alla comunione con sé. La dicotomia sessuale svela quel significato sponsale della persona umana per il quale l'umanità dell'uomo è "maschio e femmina". E', cioè, co-umanità, cioè prossimità.

Ma dalla congiunzione coniugale sorge una nuova persona umana. La ristretta cerchia della "prossimità coniugale" si supera e si compie nel riconoscimento, da parte della donna in primo luogo che il frutto del concepimento è, al contempo, altro da se stessa e partecipe della sua stessa umanità. Quando venisse a mancare questo riconoscimento, la prossimità umana è distrutta alla sua stessa origine: non sarebbe, infatti, più sufficiente l'essere semplicemente uomo per essere prossimo l'uno all'altro, ma sarebbe necessario qualche aggiunta alla propria umanità (6).

(B) La "prossimità" fra le persone umane è costituita, dunque, dalla conoscenza della propria partecipazione alla e nella stessa umanità.

Tuttavia la sola conoscenza non è sufficiente per istituire la prossimità fra le persone umane. Alla conoscenza consegue sempre l'attività volitiva libera, dalla quale ha origine l'atto della persona. Esiste, infatti, una distinzione assai importante fra conoscere e riconoscere. L'atto del "conoscere" svela ciò che è la persona umana, l'altro che mi sta di fronte: uno che partecipa della mia stessa umanità. L'atto del "riconoscere" consiste nell'atteggiamento che assumo verso l'altro così conosciuto. Si può dare l'uno senza l'altro: si può conoscere Dio e gli si può negare il proprio riconoscimento, come insegna S. Paolo nel primo capitolo della lettera ai Romani. E la ragione di questa possibile contraddizione è dovuta al fatto che l'atto del riconoscimento implica l'esercizio della libertà, la quale, in quanto libertà finita, può rifiutarsi di subordinarsi alla verità conosciuta.

La prossimità fra le persone umane è, dunque, istituita e dalla conoscenza e dall'esercizio della volontà libera. In che cosa consiste precisamente questo atto della libertà che pone in essere la prossimità?

Abbiamo già detto che tre possono essere i rapporti: quello utilitaristico, quello edonistico, quello personalistico. Solo quello personalistico istituisce la prossimità fra le persone umane.

Infatti, i primi due atteggiamenti hanno una caratteristica comune. Sia il rapporto utilitaristico sia il rapporto edonistico non riconosce nell'altro un essere partecipe della stessa umanità, dal momento che lo strumentalizza alla propria utilità e/o al proprio piacere. Quei due rapporti affermano solo colui che agisce come fine cui ordinare l'altro, negando, per ciò stesso, la partecipazione di questi alla stessa umanità, in quanto lo subordina a se stesso. La prossimità è distrutta perché è sostituita dall'uso che l'uno fa dell'altro. Come si vede, dunque, l'atteggiamento utilitaristico e/o edonistico non riconosce la verità dell'umanità dell'altro uomo. Non necessariamente la nega sul piano della conoscenza, ma la rifiuta sul piano del riconoscimento e, quindi, dell'agire. Le società antiche e moderne sono, purtroppo, piene di esemplificazioni di questo rifiuto: società dalle quali la prossimità è assente.

Solo, dunque, il terzo atteggiamento - quello personalistico - è in grado di istituire la prossimità fra le persone umane. Ma in che consiste precisamente questo atteggiamento? In linea generale, possiamo dire che esso è la corrispondenza adeguata, nell'ambito dell'esercizio della libertà e dell'agire della persona, alla conoscenza della verità dell'umanità dell'altro uomo. Quando, infatti, l'umanità dell'altro uomo è riconosciuta adeguatamente? quando l'altra persona è riconosciuta in se stessa e per se stessa. "In se stessa": in ciò che essa è come tale, nella sua verità; "per se stessa": non in vista di qualcosa d'altro, ma per il valore, il bene che essa è, che è visto tale da non poter essere subordinato a niente altro. In questo caso, infatti, l'altro è voluto in ciò che egli è. E' il suo bene che è voluto non perché è il mio bene, ma perché è il suo bene: il suo bene è il suo stesso essere.

Questo atteggiamento istituisce una prossimità fra le persone umane. Infatti, non solo - in questo caso - la verità dell'altro è affermata, è cioè affermata la partecipazione dell'altro nella stessa propria umanità, ma questa affermazione genera un relazionarsi all'altro, attraverso l'agire, che lo vuole nel suo stesso essere.

Possiamo concludere questa riflessione filosofica sulla prossimità dicendo in sintesi quale è la verità della prossimità. La "prossimità" fra le persone umane consiste nella conoscenza e nel riconoscimento della partecipazione ontologica dell'altro alla e nella stessa umanità di cui ciascuno di noi è partecipe.

1.2. Possiamo ora passare alla elaborazione di una definizione teologica di prossimità. Una definizione, cioè, che viene elaborata nella luce della fede della Chiesa. Si noti, fin dall'inizio, che la riflessione precedente non solo non è stata inutile, ma era necessaria: la grazia presuppone e compie la natura. La "prossimità" di cui ci parla la fede della Chiesa presuppone e porta al suo compimento quella prossimità di cui ci parla la retta ragione.

In che cosa, dunque, consiste l'essere prossimo l'uno dell'altro, alla luce della fede? La risposta a questa domanda deve partire dal dato centrale della fede medesima: l'atto con cui Dio dona Se stesso all'uomo in Cristo per mezzo dello Spirito. Riflettiamo un momento su questo.

Il "mistero" è costituito dalla decisione, assolutamente libera e gratuita, preveniente ogni merito, di chiamare la persona umana a partecipare della stessa vita di Dio: della sua Vita Trinitaria. Si noti bene che questa decisione è essenzialmente diversa dalla decisione creatrice. L'atto creativo, infatti, ha come termine l'essere creato dell'uomo: essere che è dono di Dio, ma che è proprio della creatura. La creatura, infatti, è realmente distinta ed infinitamente distante da Dio. La decisione, invece, di cui stiamo parlando, eleva la creatura razionale al di sopra di se stessa, come creatura, poiché la introduce nella partecipazione della stessa Vita trinitaria di Dio (7).

Questa partecipazione avviene nel Verbo Incarnato, nel Cristo. E', infatti, in Lui che noi diveniamo figli del Padre: in senso reale, anche se per pura grazia. La "filiazione" del Verbo viene comunicata, partecipata all'uomo che diviene per grazia ciò che il Verbo è per natura: il Figlio del Padre.

Questo evento di grazia accade per opera dello Spirito Santo che, come nella Trinità Santa è il vincolo del Padre e del Figlio, così nell'uomo è colui che ci costituisce in Cristo Figli e ci dona l'esperienza della nostra filiazione divina.

In che cosa consiste, allora, il nostro essere "prossimi" l'uno all'altro? Consiste nel fatto che partecipiamo, in Cristo per mezzo dello Spirito, nella stessa vita e alla stessa vita che è del Cristo. La "prossimità", alla luce della fede, è questa partecipazione.

Dobbiamo ora, per comprendere questa definizione teologica di prossimità, fare alcune precisazioni.

La prima. Esiste una profonda unità nel piano di Dio. Esiste una profonda unità fra l'ordine della creazione e l'ordine della salvezza. L'atto creativo di Dio è in vista della elevazione dell'uomo alla vita divina: esso è il primo atto che realizza il disegno di Dio di chiamare delle creature a partecipare della sua vita divina.

Alla luce di questa fondamentale precisazione, la prossimità quale è scoperta dalla ragione non si giustappone né si contrappone alla prossimità rivelataci dalla fede: c'è una unità fra le due. L'essere partecipi alla e nella stessa umanità è in vista del nostro essere partecipi alla e nella stessa Vita di Dio in Cristo. La comune umanità è chiamata interiormente, dal di dentro, a divenire comune umanità in Cristo, di figli dello stesso Padre: ed in questo la prossimità raggiunge la pienezza della sua verità (8).

La seconda. Ciò che istituisce la pienezza della nostra prossimità è il nostro essere in Cristo, il nostro essere partecipi dello stesso Spirito, il nostro essere figli dello stesso Padre. Ora, come insegna il Concilio Vaticano II, il Verbo incarnandosi ha unito a Sé ogni uomo in un certo modo (9). Infatti, esiste, come abbiamo già visto nella prima parte di questa riflessione, una prossimità ontologicamente fondata sulla partecipazione alla e nella stessa natura umana. Il Verbo, in forza della sua Incarnazione, inserendosi in questa co-umanità, si trova in un senso vero unito ad ogni uomo: ed ogni uomo è il mio prossimo in Cristo. Questa prossimità in Cristo, che chiameremo radicale, si compie però solo quando l'uomo aderisce colla fede e coi sacramenti a Cristo ed entra nella Chiesa.

La terza. La Chiesa è, al contempo, il luogo, lo spazio nel quale la prossimità fra le persone si realizza nella sua forma compiuta e lo strumento mediante il quale la prossimità nella sua forma compiuta, raggiunge sempre più ampiamente e sempre più profondamente la comunità umana (10).

Possiamo ora tentare una definizione completa - alla luce congiunta della ragione e della fede - di prossimità. La prossimità fra le persone umane consiste nell'essere le persone umane partecipi in Cristo per mezzo dello stesso Spirito della Vita di Dio, figli dello stesso Padre, raggiungendo in questo modo la pienezza del loro essere partecipi alla e nella stessa umanità, della loro co-umanità.

 

2. Significato normativo di "prossimità".

Come già abbiamo avuto occasione di toccare incidentalmente esiste un nesso inscindibile fra verità e libertà nell'uomo. La libertà dell'uomo è libertà nella e sotto la verità; la libertà è chiamata a fare la verità. Ne consegue che la verità della prossimità esige dalla libertà scelte e decisioni corrispondenti: la verità della prossimità fonda un'etica della prossimità. La prossimità non ha solo un significato teoretico: ci dice chi è l'uomo; essa ha anche un significato normativo: ci dice che cosa deve l'uomo all'altro uomo. E' di questa etica che ora vogliamo individuare alcuni elementi essenziali. E' l'etica che insegna come ciascuno di noi diviene prossimo dell'altro. Ed è questo l'insegnamento, mi sembra, della Parabola del Samaritano. "Cristo infatti non parla di conoscere il prossimo ma del diventare noi stessi il prossimo, di mostrare di essere il prossimo come il Samaritano l'ha mostrato con la sua misericordia: infatti egli non provò che il malcapitato era il suo prossimo, ma che egli era il prossimo del malcapitato" (S. Kierkegaard, Gli atti dell'amore, trad. C. Fabro, Milano, 1983, pag. 168).

2.1. Il significato normativo fondamentale della prossimità è espresso, è manifestato dalla norma personalistica: riconosci la persona dell'altro in se stessa e per se stessa. Cioè, l'essere l'uno prossimo dell'altro esige prima di tutto che tu riconosca l'altro in se stesso e per se stesso. Si diviene originariamente prossimo dell'altro solo quando si realizza la norma personalistica. Dobbiamo approfondire seriamente questo punto.

Possiamo iniziare il nostro approfondimento da una costatazione molto semplice. Presso ogni cultura, così come nella nostra esperienza quotidiana "amare" è sintomo di "volere il bene" della persona amata e non il proprio bene. Se, infatti, voglio il bene dell'altro in quanto è il mio bene, in realtà non voglio il suo, ma il mio bene: amo me stesso e non l'altro. Ma che cosa significa, che cosa è il bene dell'altro? La risposta a questa fondamentale domanda è molto semplice: il bene dell'altro - della persona umana - è il suo stesso essere persona umana. Ciò che la persona umana è e, nello stesso tempo, il suo esserci: questo è il bene della persona umana. Volere il bene della persona umana, dell'altro in quanto è il suo bene, è volere che l'altro sia - ciò che è. In questa prospettiva, si comprende che l'atto di amore originario è l'atto creativo di Dio. Infatti, nella sua sostanza l'atto creativo di Dio consiste nell'atto con cui Dio vuole che la persona sia come tale: e questo atto di volontà non è dettato in Dio né da nessuna necessità né da nessuna utilità. E' di una assoluta libertà e gratuità. Dio creando, vuole il bene della creatura perché è il bene della creatura e non perché è il Suo bene. La verità di ciò che stiamo dicendo sull'atto creativo si svela compiutamente quando il termine dello stesso è una persona. In questo caso, infatti, il termine dell'atto creativo è un soggetto sussistente e libero.

Volere il bene dell'altra persona in quanto è il suo bene significa volere che la persona umana sia in quanto tale: nella pienezza del suo essere persona umana. Una volontà che vuole questo bene non in vista di qualcosa d'altro, ma lo vuole perché la persona ne è degna, perché lo esige il suo stesso essere persona. La persona è voluta in se stessa e per se stessa.

Solo in questo modo - rispettando la norma personalistica - si diviene prossimo dell'altro: è la forma personalistica che fa essere ogni persona umana, semplicemente perché persona umana, nostro prossimo, sradicando dal nostro cuore l'atteggiamento utilitaristico ed edonistico.

Infatti, la norma personalistica dirige la volontà verso l'altro non per ciò che egli ha, ma per ciò che egli è: una persona umana. In questo modo, non esistono più diseguaglianze fra gli altri, in quanto possibili oggetti del proprio amore; non si opera più alcuna discriminazione; è l'uomo, ogni uomo, che è mio prossimo, abbattendo ogni distanza.

La ragione della direzione che la norma personalistica imprime nella volontà non è qualcosa di instabile o di mutevole, di alterabile. E' la verità immutabile dello stesso ordine dell'essere: l'essere-persona esige di essere riconosciuto in questo modo, nel modo cioè indicato dalla norma personalistica.

Quando non si riconosce più la verità immutabile di questo ordine dell'essere, quando si attribuisce al pensiero umano il potere di decidere, in ultima istanza, ciò che è vero e ciò che è falso, si può ancora continuare a parlare di norma personalistica, ma in realtà la persona non è più voluta in se stessa e per se stessa, ma secondo il proprio modo di vedere l'uomo. Non l'uomo, ogni uomo è prossimo, ma l'uomo che io penso essere il vero uomo: l'uomo della stessa classe sociale, l'uomo della stessa razza e così via. Gli altri sono i "nemici dell'uomo" da abbattere, da uccidere anche.

"Il prossimo è l'uguale. Il prossimo non è l'amato con la passione della predilezione, neppure l'amico per il quale hai ancora predilezione. Il prossimo non è neppure, se tu sei una persona colta, uno della tua cultura e del tuo livello - poiché col prossimo tu hai la somiglianza dell'uomo davanti a Dio... Il prossimo è ogni uomo. Se c'è differenza, non è più il tuo prossimo, neppure se è colto come te a differenza degli altri. Egli è il tuo prossimo con l'uguaglianza davanti a Dio, ma questa uguaglianza l'ha ogni uomo: egli l'ha assolutamente" (S. Kierkegaard, op. cit. pag. 214-215).

2.2. La norma personalistica è identica, sotto ogni punto di vista, al precetto evangelico di amare il prossimo? Quale rapporto esiste fra i due?

Possiamo dire che la norma evangelica implica e porta a compimento la norma personalistica.

(A) In che senso la "implica"? La norma evangelica può essere compresa e attuata solo se si è compresa e attuata la norma personalistica. Questa affermazione non va intesa nel senso che il contenuto della norma evangelica sia esattamente identico al contenuto della norma personalistica: vedremo che questa identità non esiste. L'affermazione va intesa nel senso che una comprensione del significato normativo di prossimità, che non veda nella norma personalistica ciò che originariamente consente allo stesso concetto di prossimo di sorgere, è incapace di cogliere la verità della norma evangelica.

Si ha qui un "caso particolare" di una legge generale che governa l'intelligenza di ciò che noi crediamo. E' vero che la fede non si propone primariamente di insegnarci una filosofia: né una metafisica né un'etica. Tuttavia, quando l'intelligenza del credente vuole capire ciò che la fede rivela, essa non può ricorrere a qualunque filosofia, senza nessun discernimento. La comprensione del significato normativo di "prossimo" in chiave personalistica è la necessaria e unica "praeparatio evangelica", l'unica via retta che ci introduce nella intelligenza della norma evangelica. Non solo, ma - di conseguenza - lo stesso messaggio di salvezza sarebbe incomprensibile. Infatti, perché l'uomo possa capire il dono di una salvezza dei suoi rapporti con le altre persone, deve pre-comprendere quale norma assoluta deve governare questi rapporti perché siano veri.

(B) In che senso la porta a compimento? Esiste una continuità fra norma personalistica e norma evangelica, ma questa supera quella.

Infatti, la norma personalistica mi dice: "devi volere il bene dell'altro in quanto è il suo bene". E alla domanda: "quale è il bene dell'altro?", risponde: "il suo essere-persona". Ma la fede non si ferma a questo e dice: "è il suo essere-persona chiamato dal Padre a divenire in Cristo partecipe della Vita di Dio". La norma evangelica, pertanto, dice: "ama il prossimo in quanto chiamato, come te, alla vita in Cristo". La ragione per cui, il motivo per cui la norma evangelica obbliga è l'amore che Dio ha mostrato in Cristo verso ogni uomo: (in termini tecnici, l'oggetto formale della carità evangelica è l'amore che Dio... e, quindi, la carità è virtù non morale, ma teologica).

Siamo qui entrati nel nocciolo nel centro di un'etica teologica della prossimità: fra i prossimi, fra noi uomini, prossimi gli uni agli altri, è intervenuto un Terzo, è intervenuto Dio stesso che si rivela in Cristo.

L'uomo è amato in ragione del fatto che è amato da Dio stesso in Cristo. Non è più solo questione di rapporto io-prossimo (=ogni uomo) ma di un rapporto che si rapporta a Dio che si rivela in Cristo, fondandosi completamente in questa Rivelazione. Nello spazio ristretto dei rapporti interumani entra un rapporto assoluto ed incondizionato con l'Assoluto, con l'Amore stesso di Dio. Questo rapporto è un rapporto di partecipazione: l'uomo ama il prossimo con lo stesso amore con cui Dio in Cristo ama l'uomo. Scrive San Tommaso: "charitas non potest neque naturaliter nobis inesse, neque per vires naturales est acquisita, sed per infusionem Spiritus Sancti, qui est amor Patris et Filii, cuius partecipatio in nobis est, ipsa charitas creata" (2,2, q.24, a.2). Il nostro amore verso il prossimo è la partecipazione della stessa Carità Increata in quanto Essa si volge all'uomo. Colui che ama è realmente l'uomo: questi è il principio dell'amore: l'amore è l'atto sommamente della persona. Colui che è amato è l'uomo: è l'uomo nella sua concretezza ontologica. E questo amore è una partecipazione creata dello stesso Amore con cui Dio ama l'uomo in Cristo.

Ogni uomo, pertanto, diviene mio prossimo poiché ogni uomo è amato da Dio in Cristo; ogni uomo è uguale, poiché ogni uomo è visto davanti a Dio e solo nell'ambito di questa possibilità vengono superate le differenze che dividono gli uomini e li mettono gli uni contro gli altri. Nell'ambito di questa prossimità non vi sono più distinzioni di rango sociale, ma il rapporto sociale è uguale per tutti, perché ognuno, nel divenire prossimo dell'altro e per divenire prossimo dell'altro, deve rapportarsi a Dio.

"Amatevi come io vi ho amati". Questo "come" va precisamente inteso nel senso che l'uomo ama l'altro con un amore che è partecipazione, certo sempre limitata, ma reale, allo stesso amore di Cristo.

Ho detto che questo è il "centro" dell'etica teologica della prossimità e non a caso è stato spesso contestato, rifiutato. Proprio in nome dell'amore verso l'uomo, della dignità dell'uomo: perché fare intervenire un terzo intermediario? l'uomo deve essere amato per amore dell'uomo e non per amore di Dio. E così via.

Alla radice di questa contestazione - del rifiuto dell"intermediario divino" - sta l'assunto che vedere l'uomo nel suo rapporto con Dio sia l'origine di una visione errata sull'uomo stesso, in quanto Dio sarebbe invidioso della grandezza dell'uomo. Prescindendo, per il momento, da altre considerazioni, vediamo gli esiti di questa contestazione: in nome della dignità dell'uomo si sono perpetrati i più grandi delitti contro l'uomo.

Perché questo passaggio? Per due ragioni fondamentali, mi sembra. Il richiamo ad una (supposta) dignità dell'uomo è come tale, da sé solo capace solamente di spingere la volontà della persona a volere il bene dell'altra in quanto è il bene dell'altra: rende l'uomo bene-volente verso l'altro uomo. Ma esso è incapace di rispondere alla domanda: qual'è il bene dell'altro uomo? Non è in grado di rendere l'uomo bene-facente verso l'altro uomo. Infatti, i casi sono due. O la dignità dell'uomo è vista nel suo stesso essere-umano, indipendentemente dalla nostra auto-comprensione; o la dignità dell'uomo non è fondata, connessa col suo stesso essere-uomo. Ma nel primo caso, il bene dell'uomo è il suo stesso essere così che la bene-volenza verso l'uomo non è vera se non è rispettosa e promotrice di questo essere; nel secondo caso, la benevolenza può assumere tutti i contenuti ed il contrario di tutti a seconda di ciò che sembra in un dato momento storico il bene dell'uomo. In questo secondo caso, il richiamo alla dignità dell'uomo diviene la maschera della distruzione dell'uomo (11). Ma nel primo caso, la proprietà essenziale dell'essere umano è la sua creaturalità, la sua singolare relazione con Dio in forza della quale Dio è il bene sommo dell'uomo. Pertanto, ogni rapporto dell'uomo all'uomo che escluda Dio come intermediario di esso è un rapporto che prima o poi finirà col distruggere la prossimità fra gli uomini.

C'è anche una seconda ragione, strettamente connessa con quella precedente. La norma personalistica, che - come abbiamo già visto - sta all'origine del sorgere di ogni prossimità, trova il suo fondamento ultimo nella verità della creazione di ogni e singola persona umana.

L'errore, dunque, della contestazione mossa alla verità centrale dell'etica teologica della prossimità è di non vedere che solo "passando attraverso Cristo" si giunge all'altro, nella sua verità: si diviene prossimo di ogni uomo. La luce non è ciò che impedisce all'occhio di vedere le cose, anche se essa non è né l'occhio che vede né le cose vedute: è ciò che fa vedere le cose all'occhio, ciò in cui l'occhio vede. L'Amore assoluto di Dio verso l'uomo non è ciò che impedisce all'uomo di amare l'altro uomo, anche se Dio non è nessuno dei due: è ciò che consente all'uomo di amare l'altro uomo, ciò in cui l'uomo ama l'altro uomo.

Abbiamo così individuato il significato normativo fondamentale di prossimità, dal punto di vista teologico. Esso può essere espresso in questo modo: ama ogni uomo perché e come Dio lo ha amato in Cristo: "amatevi come io vi ho amato".

Conclusione

"La gloria di Colui che tutto move/per l'universo penetra e risplende/in una parte più e meno altrove". Dante comincia la sua terza cantica in questo modo.

La gloria di Dio: ciò che tutta la vita della Chiesa esprime non è che questo.

"In una parte più e meno altrove": è nell'umanità crocefissa e risorta del Verbo incarnato che la gloria di Dio risplende al massimo. Poiché in essa Dio si svela nel suo Amore.

Di questo amore siamo resi partecipi per il dono dello Spirito. Dentro il gelo e la noia di relazioni che per essere umane hanno voluto stoltamente essere esclusivamente tali, il credente è chiamato a far "penetrare e risplendere la gloria di Dio: la gloria del Padre che genera il Figlio nel vincolo dello Spirito.

E la Trinità diviene il "luogo" della prossimità umana.

NOTE:

1) Cfr. Platone, Liside 219 c-d; Aristotele, Etica a Nicomaco VIII, 1155 b, 1 - 1156 a 3.

2) E' costante questa affermazione in S. Tommaso: cfr. Contra Gentes 3,59 e 112; In I Met. lect. 1, n. 2; De anima II, lect. 5, n. 283 e III, lect. 13, n. 790.

3) "Una realtà, secondo il suo essere puramente materiale, è solamente ciò che è, come questa pietra; in ragione invece del suo essere spirituale... una realtà non è solo ciò che è, ma in un certo modo è tutto" (S. Tommaso, De anima II, cit.).

4) Per cogliere tutta la portata di queste affermazioni - portata speculativa e, come vedremo, anche pratica - è necessario liberarci da una visione formalistica ed essenzialistica della conoscenza per una visione realista. Ciò che noi conosciamo con i nostri giudizi è "ciò che è" e non vuote astrazioni.

5) Questo atto di conoscenza è naturalmente presente in ogni uomo che abbia raggiunto l'uso della ragione: è vedere che "qualcosa" non è "qualcuno" e viceversa. E' l'atto di visione dell'essere personale ("qualcuno") come altro da qualsiasi essere non- personale ("qualcosa"). Ovviamente, poi, una metafisica della persona non è propria di tutti, senza però dimenticare che questa è vera in quanto è continuamente radicata e nutrita nel e dal terreno di quella visione originaria.

6) Pertanto, l'attuale giustificazione dell'aborto è il fatto più radicalmente distruttivo della prossimità umana.

7) E' questo un punto centrale della nostra fede cristiana: il cristianesimo è questo dono soprannaturale. La negazione della soprannaturalità del cristianesimo, la riconduzione esaustiva del "mistero nascosto da secoli in Dio" dentro l'orizzonte del nostro capire e volere è la negazione totale del Cristianesimo.

8) Pertanto, la prossimità umana si realizza pienamente solo in Cristo. Si colloca in questo contesto la meditazione agostiniana sul costituirsi della prossimità umana in "duo civitates": quella della carità e quella dell'odio. Non si dà una terza possibilità.

9) Cfr. Gaudium et Spes 22,2: "incarnatione sua cum omni homina quodammodo se univit".

10) Cfr. Lumen Gentium 1,1: "veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis".

11) E' questo il dramma dell'umanesimo contemporaneo. Nel momento in cui attribuisco all'uomo il potere di decidere ultimamente ciò che è vero e ciò che è falso (immanentismo) e nego la trascendenza della verità nei confronti dell'intelligenza creata dell'uomo, non è più l'uomo che è affermato in se stesso e per se stesso. E' l'uomo quale io decido (o la società: è di secondaria importanza) che sia che affermo. E con ciò è posta la radice di ogni anti-umanesimo. Già la ragione dei pagani aveva visto questo, quando Socrate si oppose in ogni modo ai Sofisti per i quali "l'uomo è misura di ogni cosa".