OMELIA
di
E. Em.za Card. Alexandre Do Nascimento
Carissimi fratelli e sorelle,
La Parola di Dio dev'essere accolta dall'uomo in spirito di umiltà, cioè, in atteggiamento di profondo ossequio e gratitudine. Poiché l'uomo "vive di ogni parola che esce dalla bocca del Signore" e le parole che Cristo ha pronunciate "sono spirito e vita" (1). Soprattutto quando questa parola ci è comunicata, come nel nostro caso, nell'ambito della celebrazione liturgica (2), l'ora in cui - come si può giustamente affermare - il sacerdote (padre di famiglia) distribuisce quella parola, alimento per il cuore e lo spirito, appropriato a ciascuno dei presenti. In un certo senso, è questo il momento privilegiato in cui ci è dato il pane quotidiano.
Sicuramente tutta la parola rivelata merita questa attenzione e devozione. Ma il Concilio Vaticano II ha dato particolare rilievo al Nuovo Testamento e, nell'ambito del Nuovo Testamento, ai Santi Evangeli (3).
Il Verbo facendosi carne si è messo alla portata dei nostri sensi: "Ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita" (4). L'osservazione più evidente che un antico filosofo potrebbe fare a tale affermazione - si dica per inciso - è che essa è inintelligibile per se stessa. Non ci perdiamo però in altre considerazioni e andiamo direttamente alle due letture or ora proposte: la lettera di S. Giovanni, della quale ritengo questo inciso: "Dio è Amore", e il Vangelo di S. Luca, del quale vorrei sottolineare questo passaggio: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?" Quegli risposte: "Chi ha avuto misericordia di lui" (5).
Cominciamo con S. Giovanni: "Dio è Amore". Balza subito ai nostri occhi un dato evidente anche ad un lettore sprovveduto della Bibbia: in genere, gli Autori ispirati sono molto cauti nel rinchiudere Dio nelle maglie di una definizione. Si ha l'impressione che il rispetto tributato a Javè incuta in coloro che ne parlano il timore di incasellare l'Essere trascendente e assoluto nel perimetro di una cornice, buona peraltro ad essere appesa ad una parete... Dio, sulla bocca dei suoi santi profeti, viene di preferenza presentato nei suoi attributi: onnipotente, buono, giusto, santo e misericordioso. Ecco perché mi pare ancor più sorprendente l'equazione posta da S. Giovanni, l'arditezza dell'evangelista che scrive: "Dio è Amore".
Qui vorrei evitare la tentazione di aprire un'altra parentesi. Ma, come non porsi la domanda: "quale specie di amore?" (6). Di amore ci sono tante specie! Taglio corto e rispondo per il momento che l'Amore è luce. Non è necessario definirla, la luce, basta aprire gli occhi e contemplarla. Amiamo, e sapremo di quale amore si tratta.
Ora, S. Giovanni dice che Dio è Amore, cioè, l'essenza di Dio sta nell'amare. Il Padre eterno è tale perché generando ama il Figlio. Il Figlio è Figlio, perché, generato, ama il Padre, Lo Spirito Santo è Spirito Santo, poiché spirato, ama il Padre e il Figlio che lo spirano. E l'atto della creazione del mondo è amore. La stessa conservazione del mondo è ancora amore. L'averci inviato il suo Figlio sulla terra è amore del Padre eterno. L'avercelo lasciato morire, per noi, sulla croce, è amore. E' amore l'averlo risuscitato e glorificato. E' amore l'aver suscitato nel mondo questa meraviglia che è la Chiesa dei sacramenti, soprattutto dell'Eucaristia e della Riconciliazione. Come pure è amore il giudizio finale che ci attende e la gloria infinita per gli eletti. Tutto in Dio è amore. E ciò che non è amore di Dio, o non è informato dell'amor di Dio, è menzogna e idolatria.
3. M'accorgo però che qualcosa in me sussurra: attenzione! L'uditorio che ho davanti a me, ha i suoi gusti, i suoi abiti mentali e i suoi propri sentimenti. Non è dunque meglio riprendere il discorso per delimitare ed enucleare il senso dell'Amore del quale si sta parlando? E' buon sapere ciò di cui si parla.
Parlando d'amore ho presente il concetto altissimo raggiunto dalla sapienza pagana, quando il maestro della Scuola di Atene, dopo aver presentato speculazioni profonde e racconti altamente evocativi, termina additando in un uomo in carne e ossa l'ideale vivo della nobiltà e della dignità umana, lo stesso Socrate! E' degno di nota che Platone, il quale mette sulla bocca del proprio maestro il discorso immaginario o comunque appreso da una Straniera di Mantinea, discorso che in sostanza esalta la forma immateriale della bellezza assoluta e divina, nega a Socrate il trionfo definitivo: questo va infatti all'elegante Alcibiade. E il vantaggio di questo giovane della società di Atene, apparentemente futile, gli viene dal fatto di contrapporre al Socrate filosofo e trasmettitore di miti, il Socrate uomo completo, uomo che "emergeva sugli uomini del passato e del presente". Potrei allora dire: parlo dell'Amore guardando al patrimonio culturale dell'occidente, il quale mi avvicina all'idea che fa dell'amore l'ispirazione intima che nasce in noi, o che in qualche modo abbiamo appreso come realtà determinante, dominatrice e informatrice della nostra esistenza, avendo finalmente identificato in concreto una certa incarnazione della bontà e della bellezza trascendente (7).
Parlando però d'amore, è piuttosto nel mondo creato da Dio e nella famiglia dalla quale ciascuno di noi proviene, che trovo l'immagine e la similitudine di ciò che voglio esprimere.
4. Mi rendo conto che oggi come oggi non tutti vedono le cose allo stesso modo. La famiglia è entrata in crisi e c'è chi la vorrebbe dare per tramontata, come resto di un passato remoto! Ma ciò che ancora resta da provare è che tutte le stoltezze del nostro tempo, oltre che ascoltate, meritino di essere seguite. Per questo voglio essere franco: nella mia qualità di bantu, conformandomi ai più elevati patroni del nostro patrimonio culturale, voglio qui esaltare la figura impari, quella che nel mondo naturale maggiormente si avvicina a Dio, che nel linguaggio di S. Giovanni, è Amore. Guardo a mia madre - prego di scusarmi se parlo di lei - (Del resto ella è una madre africana come centinaia, migliaia, milioni di altre madri). Ebbene, guardando a mia madre, anziana, - già di 80 anni, non posso non immaginarla quando giovinetta, giocando con una bambola di stracci, già si esercitava nel futuro compito di madre. Io ancora non esistevo e mia madre pensava già a me! Pur fragile qual'è ora, non posso tralasciare di immaginare quel castello ben fondato che fu il suo seno, nel quale mi custodì e protesse per nove lunghi mesi. Ed ecco il miracolo dell'amore! Mia madre non è né mai fu specialista in altro se non nella dedizione e abnegazione verso i suoi figli; spirito di dedizione ed abnegazione che sempre la caratterizzarono. Fu questo amore ad ispirarla e renderla capace di essere in ogni momento ciò di cui, noi suoi figli, avevamo bisogno: ella s'è fatta latte per la nostra fame, medico per i nostri malanni, ci ha condotti per mano, insegnandoci a fare i primi passi, e la lingua nella quale ella per la prima volta mi parlò è per me sacra: è la lingua madre: amare è adattarsi ai veri bisogni di colui che è amato.
5. Questi due esempi mi permettono di immaginare per un verso la trascendenza, e per l'altro, la concretezza dell'amore che S. Giovanni attribuisce a Dio. Naturalmente mi viene in aiuto S. Tommaso d'Aquino, il quale parlando dell'amore di Dio, insegna che esso è amore gratuito, amore creativo: Dio crea ciò che ama; in forza di questo amore e nella misura in cui Dio ci ama, noi apparteniamo alla scala degli esseri.
Per la nostra felicità, il Figlio di Dio in persona è disceso a rivelarci con parole, opere e gesti l'amore che il Padre ha per noi. Del Vangelo voglio ricordare appena due momenti: il Cristo, il quale si commuove fino allo spasimo nell'incontro con la vedova di Naim che porta al sepolcro il figlio unico, morto (8), e il Cristo che avvolge di uno sguardo di misericordia Pietro, il quale l'aveva rinnegato; il Cristo risorto che prepara un pasto frugale per i discepoli, stanchi, dopo una notte passata a pescare con poco successo (9). No, Cristo in noi non ha amato le stelle, ma il fango che le sue mani divine han plasmato. Come dice Osea: "Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare" (10).
6. Nel testo di S. Luca, che abbiamo letto, troviamo una domanda fondamentale: "Chi è il mio prossimo?", alla quale Cristo Nostro Signore risponde con altrettanta radicalità. Cristo ci immerge nell'esistenziale, nel mondo di dolore, di crimine, d'impotenza: la strada che nella nostra vita conduce da Gerusalemme a Gerico. Su tale ben nota parabola, permetteranno che faccia appena brevi accenni, poiché il tempo è tiranno. Mi pare che la novità dell'insegnamento di Gesù si trovi nella specificazione di chi è il prossimo, in termini, per così dire, operativi. Ma prima ancora osserviamo che il dottore della legge non ha domandato: "Maestro, cos'è amare?" "E, ammettendo che l'uomo possa (sappia) amare, potrà egli amare Dio?". Niente di tutto questo. Tali dubbi potevano sorgere solamente in altri tempi. Seguendo la buona tradizione di Israele, il dottore della legge accetta come evidente, o perlomeno come dato che non costituisce problema, il fatto che l'uomo ama per natura sua; l'uomo può amare Dio. Con un'espressione cara a Sant'Agostino: l'unico alimento capace di saziare la fame dell'anima è Dio.
Vediamo, però, ciò che in questo momento più ci interessa: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Quest'amore che consiste nel prendersi cura di colui che si trova nella necessità è proprio della nostra situazione presente, poiché nell'escatologia questo tipo di carità non avrà più ragione d'esistere. Intanto consideriamo da vicino le espressioni che usa S. Luca: amare il prossimo è annullare le distanze che possono esistere tra uomo e uomo a causa dei soliti motivi di divisione: differenze etniche, culturali, religiose, appartenenza a diverse classi sociali. Cristo sulla croce ha abbattuto tali barriere (11). Per questo siamo chiamati a venire incontro all'uomo, a tutti e a ciascuno nel bisogno. Sono precisamente il bisogno, la malattia, la povertà, l'handicap, i titoli sufficienti e validi per crearci l'obbligo di soccorrere l'uomo sofferente. Star vicino a (plésion); andar incontro (kat' autón). Poco removibili più di quanto non si creda, sono le barriere psicologiche (ideologie e preconcetti); esse ci chiudono gli occhi e non ci lasciano prendere in considerazione chi si trova con noi sullo stesso cammino. Ora, è appunto con questi che dobbiamo elargire l'olio e l'aceto ed il denaro che portiamo con noi.
Terminiamo con questa domanda: "Esiste ancora la strada che ha Gerusalemme porta a Gerico"? Strada pericolosa per le imboscate. Cammino sul quale gli indifesi rischiano di essere battuti a morte. Accendete la radio, guardate la televisione, leggete i giornali: il mondo stesso si è fatto per noi la simbolica strada per la quale Gesù esige l'atteggiamento indicato al dottore della legge: "Va e anche tu fa lo stesso".
Non è facile. Il mondo contemporaneo vive la contraddizione, diagnostica tempo indietro, da Dostoievski, il quale per un verso dichiarava che: "l'urgenza di unità universale è il terzo e ultimo tormento della razza umana" e per un altro constatava che in genere la prassi è contraria a questo grandioso disegno. Ecco ciò che egli fa dire ad un suo personaggio: "Amo l'umanità, ma, con grande mia sorpresa, quanto più amo l'umanità in genere, tanto meno amo le singole persone, l'individuo. Più d'una volta ho sognato appassionatamente di servire l'umanità, ripercorrendo magari il Calvario, per i miei simili, se fosse necessario, ma al contempo so per esperienza che mi è impossibile condividere per due giorni consecutivi la stessa stanza con un'altra persona. Appena sento qualcuno accanto a me, la sua personalità opprime il mio amor proprio e comprime la mia libertà. In ventiquattro ore posso addirittura prendere di punta le migliori persone: una perché indugia troppo ai pasti, un'altra perché, raffreddata, non fa che starnutire. Divento nemico degli uomini appena ne entro in contatto. In compenso, immancabilmente, quanto più detesto le singole persone, tanto più mi sento ardere per l'umanità intera" (12).
Dinnanzi a tutto questo, Cristo, il buon samaritano - Egli che lasciò il cielo per piantare la tenda tra noi - invita noi che abitiamo con lui: siate nel mondo la mia presenza ed il mio volto. Siate la presenza ed il volto della mia misericordia, che non indietreggiò davanti ai lebbrosi, alle donne di malaffare, al ladrone, davanti a qualunque dolore umano.
Misericordia: altro nome dell'Amore. Misericordia: altro nome di Dio.
NOTE:
1) Lc. 4,4; Jo. 6,23.
2) Jungmann - Missarum solemnia.
3) Const. Dei Verbum, 17 e 18.
4) 1 Jo. 1,1.
5) Lc. 10,36 e 37.
6) Plato, Symposion. 180 c.
7) Plato, Symposion, 221 p.
8) Lc. 7,11 ss.
9) Jo. 21,3 ss.
10) Osea, 11,4 ss.
11) Eph. 2,14 - 17.
12) I fratelli Karamazof.