S.E. Mons. Alessandro Maggiolini

LA CHIESA NELLA VESTE DEL BUON SAMARITANO CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA SITUAZIONE ITALIANA

 

Questa comunicazione si colloca nel contesto di altri ben maggiori interventi, che spiegano i significati e delineano gli impegni che derivano dalla nota parabola evangelica. La comunicazione, può, dunque, limitarsi a considerare il "particolare riferimento all'Italia" che la Chiesa, sempre "in Italia", deve avere "nella veste del buon Samaritano". Poiché, poi, anche così precisato, l'ambito di osservazione è di una notevole vastità, almeno per i problemi che presuppone e a cui inevitabilmente conduce, sembra utile che si proceda per accenni, quasi per una pura identificazione di nodi, di questioni e per semplici indicazioni di linee operative. Con la consapevolezza del rischio di qualche opinabilità.

Lo schema:

1) la situazione in quanto soprattutto presenta "mali da curare";

2) il soggetto, l'atteggiamento e lo stile dell'aiuto che la Chiesa è chiamata a recare.

I - La situazione

Non si intende qui descrivere l'attuale contingenza italiana nemmeno a grandi tratti. Presupponendo gli aspetti positivi, si vorrebbe segnalare qualche urgenza che sollecita l'intervento della Chiesa. Segnatamente sembra utile evidenziare qualche settore di impegno tra quelli che di solito sono meno considerati e che, comunque, si pongono sul piano non dei sintomi, ma delle cause più profonde in chiave culturale.

1) "I nuovo poveri"

Nell'elencazione - frequente - dei problemi aperti o delle carenze della situazione italiana, si è usi iniziare e spesso rimanere entro una prospettiva economica. Si parla di inflazione, di recessione, di lievitazione dei prezzi, di insufficienza di salari, ecc.

Si tratta di questioni indubbiamente rilevanti. Occorre, però, non lasciarsi catturare da una visione economicistica della realtà, magari senza accorgersene.

I "poveri" non coincidono col mondo del "lavoro industriale", con annessi settori "terziari". Vi sono coloro - soprattutto tra i giovani - che non hanno ancora trovato lavoro o l'hanno perso. Inoltre, vi sono coloro che vivono una povertà ancora più profonda: coloro che, per diversi handicap, non riescono ad inserirsi pienamente nella società civile; coloro che si vedono negato addirittura il diritto a vivere; coloro che non sono rispettati nella loro originalità più profonda di pensiero e di vita; coloro che non "contano" nelle decisioni pubbliche, nonostante le diverse espressioni politiche; coloro che non possiedono gli strumenti critici per reagire ai condizionamenti culturali; coloro che, di là da tutte le protezioni e le prestazioni sociali, vivono una profonda solitudine, non si sentono utili, non si sentono amati, ecc. L'elenco potrebbe continuare. Ma dice già l'"ideologismo" di chi identifica l'"avere" con la ricchezza, dà come assodato il concetto di "povero" e non si pone domande circa l'identificazione degli "ultimi". Vi sono anche i "nuovi poveri". E non sembra tanto agevole "iniziare dagli ultimi". Il pericolo è che gli "ultimi" veri siano celati dalla "macchina culturale" dei potenti. Per non parlare della povertà - la più radicale - derivata dall'assenza di motivi supremi per vivere in pienezza e magari anche soltanto passabilmente.

2) "Consenso" e critica

Non appaia di poco contro l'accenno alla "macchina culturale" dei potenti. In gioco è - con tutte le riserve del caso - nientemeno che la capacità di formarsi, senza eccessivi impedimenti, un atteggiamento critico nell'esercizio e nella manifestazione del pensiero e nella traduzione del pensiero stesso dentro la vita.

Si precisi: "con tutte le riserve del caso", poiché rimane, sotto l'influsso delle "agenzie di condenso", un tipo di cultura largamente diffuso, singolarmente radicato e pregno di valori cristiani ed umani. Detto questo, però, non sembra incongruo segnalare la "manipolazione culturale" come una delle cause maggiori di un tipo tra i più gravi di "povertà".

Si osservi: non si punta direttamente, mediante la forza, alla coercizione della mentalità e del comportamento. Si punta piuttosto ad una "dittatura dolce", la quale tende a suscitare le domande - soltanto le domande - a chi sa o vuole rispondere, "censurando le altre che magari si riferiscono agli interrogativi supremi dell'esistenza; una "dittatura dolce", la quale si orienta a suscitare dei desideri e delle richieste esattamente nel senso in cui ha già deciso di venire incontro con soddisfacimento. Così che si subisce, proprio nel momento in cui "segue", "si adegua", ha l'impressione di "inventare" e di celebrare la libertà.

A questo proposito, non si pensi soltanto ai mass-media con le "tecniche di consenso" ben note: sloganizzazione, ripetitività, silenzi studiati, filtri interpretativi, continuo spostamento dei limiti del discutibile, ecc. Si pensi anche e soprattutto ai mezzi d'influsso per cui si viene come "tagliati fuori" dalla cerchia delle "persone che contano", sul lavoro si viene come esclusi o bloccati nella carriera, se non ci si adegua all'opinione di chi possiede le leve del potere. Si pensi ad una certa gestione dello "Stato assistenziale" che rende vane e quasi paralizza le iniziative anche più faticose ed efficaci, suscitando di continuo "bisogni" magari fittizi per potervi far fronte in modo "ideologico".

Se poi si cerca di identificare l'"ideologia" che si intende elegantemente imporre, il discorso si fa assai complesso, ma forse al riguardo può essere manifestata qualche impressione.

Il "marxismo ortodosso" sembra aver perso gran parte della sua carica "rivoluzionaria", "ideale", "utopica". Ciò non significa, tuttavia, che tale "marxismo" non costituisca un pericolo per le libertà democratiche. Almeno per tre motivi.

Perché rimane ancora certa "vecchia guardia" che fa dello "stalinismo" una sorta di "dogma". (Senza contare gli aiuti extrapartitici che le diverse "sinistre" possono offrire).

Perché, caduta l'"ideologia" collettivistica della "lotta di classe", rimane un "apparato" di potere tutt'altro che trascurabile. E perché ad uno sfibramento "ideologico" può subentrare un atteggiamento dimissorio disposto a qualsiasi forma di "dittatura". E, del resto, non ci si illuda circa il "cadere delle ideologie": ad un certo allentamento di una, ne sembra subentrata un'altra, e segnatamente l'"ideologia individualistico-radicale" che non è meno immanentistica di quella "marxista ortodossa" e dunque non meno incline a far valere la forza dei potenti di turno. La misericordia che include e supera la giustizia è molto lontana. Soprattutto perché ha perso di vista il suo vero motivo generatore: Dio come amore.

Il problema di fondo è sempre di ordine culturale. Non sembra fuori tema il richiamo all'immanentismo.

3) Originalità personale e aggregata

Un terzo aspetto di degenerazione del contesto italiano può essere visto in un subdolo o riconosciuto tentativo di violazione del diritto del singolo o delle diverse "aggregazioni sociali" ad una propria originalità culturale.

Nessuno nega, in chiave astratta, il "principio di socialità" che è orientato al "bene comune". Non bisogna nemmeno, però, negare, nella teoria e nella pratica il "principio di sussidiarietà" in base al quale vanno riconosciute delle identità culturali che coinvolgono i valori più profondi della persona. Anzi, occorrerà annotare che alcuni diritti fondamentali non sono concessi dallo Stato, ma devono essere riconosciuti dallo Stato. Si pensi al diritto a vivere da parte del singolo in ogni fase della sua esistenza.

Per altri versi, si pensi alla tutela che l'indissolubilità della famiglia dovrebbe avere quando la famiglia stessa è ammessa come società "naturale".

Ma, ritornando sul piano delle "aggregazioni culturali", pare innegabile che la situazione italiana sia per molti aspetti incurante di modo propri di impostare il pensiero e il comportamento da parte di cittadini singoli o di gruppi. Si ponga: la scuola, il lavoro educativo, l'assistenza ai poveri e agli ammalati, la gestione del tempo libero, ecc., sono settori che indubbiamente possono essere organizzati su basi comuni a tutti. A due condizioni, però. Che la convivenza in parte "obbligata" non mortifichi la persona nelle sue convinzioni e nei suoi valori di fondo.

E che, nei limiti del possibile e dell'opportuno - astraendo dalle zone di convivenza davvero necessaria - si consenta e si renda possibile l'insorgere di iniziative che si qualificano per una determinata cultura.

Ciò sia detto anche se da parte perfino di cattolici talvolta si giudica ogni originalità comunitaria derivata da prospettive evangeliche in termini di "integrismo". Misconoscendo, così, e la vera natura della "libertà religiosa" la quale non si limita all'intimo della coscienza e al campo devozionale o liturgico, e la vera natura dello "Stato laico" il quale non è livellamento o messa in parentesi delle convinzioni di fondo, ma tutela e promozione di esse anche nelle loro espressioni sociali.

4) L'appartenenza ad un popolo

Un altro varco che si apre all'impegno evangelico e umano nella condizione culturale italiana, è quello che si potrebbe chiamare il mancato o quanto meno il fragile senso di appartenenza ad un popolo. E si parla di popolo non per evocare nazionalismi deludenti e deleteri, ma per indicare delle persone che si sentono unite tra loro in nome di valori fondamentali che condividono; se si preferisce: in nome di una "tradizione" che costituisce il motivo più vero di un autentico rinnovamento.

Non è certo il caso di richiamare tutta una storiografia che sembra imporsi almeno per mancanza di alternative e per la quale l'unità d'Italia sarebbe stata compiuta in base a valori anticristiani o perlomeno acristiani. Da analizzare rimane se sul piano culturale tale unità sia stata profondamente compiuta. E se la prospettiva cristiana non andrebbe vista esattamente come elemento coesivo. E se la dimenticanza della prospettiva cristiana non sia alla radice di una frammentarietà anche umana che in più d'un caso rasenta l'individualismo più esasperato.

5) La scristianizzazione diffusa

Con quanto si è detto si è anche giunti al problema radicale che presenta la situazione italiana: l'urgenza, cioè, di una rigorosa ripresa di annuncio evangelico mediante la parola e la vita. Ciò, sempre se non si vuol ridurre la povertà all'indigenza economica e ad aspetti simili. Ciò ancora, se, in chiave di fede, si identifica l'estrema povertà con la mancanza o quasi di motivi per vivere singolarmente e comunitariamente.

Si insista: non si vuol sostenere che all'immagine della situazione italiana data dalla "macchina culturale" di manipolazione corrisponda la realtà di gran parte della gente. Sta il fatto, però, che se non si interviene con risolutezza, al calo della pratica religiosa può subentrare un graduale cambiamento anche di mentalità. E in prospettiva le cose non sembrano disegnarsi come tranquille. Mentre, d'altra parte, si assiste ad una singolare richiesta di cristianesimo di fronte all'eventualità di un vuoto di valori esistenziali. E la Chiesa, pur criticata non senza qualche ragione nella sua componente umana, ma anche quasi per inerzia, si staglia sull'orizzonte culturale italiano come l'unica comunità, o quasi, capace di offrire visuali e valori nuovi alla luce della Parola di Dio.

II - L'atteggiamento

A questo punto pare utile accennare - soltanto accennare - allo stile di responsabilità a cui la Chiesa italiana è chiamata per attuare in verità la funzione del Samaritano.

1) Il soggetto

Come è agevole notare, l'azione da svolgere non può essere ridotta né ad una dimensione puramente apostolica di annuncio, né ad una dimensione puramente "politica" in senso partitico. Non può essere ridotta neppure ad una attività "caritativa" individuale o quasi, benché questa rimanga sempre necessaria anche nel suo aspetto di completamento e di stimolo nei confronti della cosa pubblica. Si tratta, piuttosto, di un influsso culturale - insieme evangelico ed umano - da esercitare da parte della Chiesa nei confronti del Paese. E cultura, qui, significa modo globale di intendere e di strutturare la vita in base ad una concezione di fondo rispondente all'uomo con i relativi mezzi di attuazione.

In tal modo la "Chiesa locale" si pone come soggetto globale della responsabilità: la Chiesa nella coralità dei suoi membri secondo le varie funzioni in quanto è soggetto di evangelizzazione; la Chiesa nella diversità dei suoi diversi membri - soprattutto laici - in quanto è principio di promozione umana. Senza separare oltre misura le due dimensioni dell'impegno. Il documento "La Chiesa italiana e le prospettive del Paese", del 23 ottobre 1981, precisa l'urgenza di "un più severo tirocinio di vita ecclesiale"; aggiunge, però, che "il campo proprio dell'attività evangelizzatrice dei laici è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia, della cultura, della vita internazionale; e ancora, della famiglia, delle professioni, del lavoro, della sofferenza" (n. 22); i laici, insomma, come "soggetti attivi" e senza contrapposizioni con la Gerarchia, devono essere "soggetti attivi e responsabili di una storia da fare alla luce del Vangelo, riconosciuti e sorretti per sviluppare, con giusta autonomia, le loro risorse cristiane e umane a servizio del Paese" (n. 23).

2) Le motivazioni

Perché la Chiesa così precisata agisca da buon Samaritano, occorre che recuperi le motivazioni più vere del proprio giocarsi. Motivazioni che sono anche l'esigenza che gli altri hanno dell'annuncio evangelico per la salvezza soprannaturale e dell'aiuto umano per essere pienamente persone, e il comando di Cristo: "Andate, predicate...", "Tutto ciò che avrete fatto a uno di questi piccoli, l'avrete fatto a me". Motivazioni che, però, si riconducono tutte alla stessa struttura della vita cristiana, la quale non può essere se stessa se non si protende nel dono di sé: se non testimonia; se non opera a servizio dell'uomo. In questo senso lo stesso documento citato richiama l'esigenza di un recupero di identità cristiana per poter svolgere da parte della Chiesa e dei credenti la propria missione: "Non poche esperienze anche recenti ci confermano... che disperderci nella realtà sociale senza la nostra identità è il grave rischio da evitare. Se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza" (n. 13); "Vivere intensamente la comunione ecclesiale è dunque condizione indispensabile per la nostra presenza nel Paese" (n. 14). I cristiani, maggioranza o minoranza che siano - ma una minoranza protesa a divenire totalità nel pieno rispetto della libertà - devono "uscire dalle pigrizie e dall'anonimato, per essere nuovamente testimoni del Vangelo in una vera identità cristiana" (n. 24).

Detto solo per inciso: sarà proprio dalla dipendenza della propria fede che i cristiani raggiungeranno gli atteggiamenti richiesti a questo scopo, e cioè il senso di servizio, di gratuità, di essenzialità dell'uso dei beni, di solidarietà nell'affrontare i problemi: una solidarietà che sola sa rendere efficaci i diritti fondamentali di tutti e di ciascuno, e non trasforma le dichiarazioni di tali diritti in mezzi di arbitrio e di violenza nelle mani dei più forti, di chi sa far valere i medesimi diritti.

3) Lo "stile"

Se "dovere della Chiesa... è principalmente quello di formare i cristiani, in particolar modo i laici, ad un coerente impegno fornendo non soltanto dottrina e stimoli, ma anche adeguate linee di spiritualità, perché la loro fede e la loro carità crescano non 'nonostante' l'impegno, ma proprio 'attraverso' di esso"; se poi "non spetta ordinariamente alla comunità cristiana operare scelte politiche", ma "essa può e deve oggi con nuove capacità animare i settori pre-politici, nei quali si preparano mentalità e competenze, dove si fa cultura sociale e politica" - senza disdegnare l'impegno politico diretto -, allora si delinea un duplice itinerario di impegno: la presenza animatrice all'interno delle strutture politiche, e la presenza di strutture libere al servizio pubblico all'interno della società. Si tratta di due aspetti da non contrapporre ma da coordinare. Perché non venga negato il diritto della Chiesa ad esercitare la carità.

Il documento citato dai Vescovi Italiani parla ripetutamente dell'"autentico senso dello Stato" (n. 8), del "dovere di partecipare" alla cosa pubblica (n. 9), di impegno "nel territorio" perla scuola, i servizi sanitari, l'assistenza, l'amministrazione pubblica, la cultura locale (n. 33).

Più a fondo, rileva "una frattura tra Vangelo e cultura, che Paolo VI definiva drammatica". E aggiunge: "Ma l'annuncio del Vangelo intero sarà possibile, se andremo al cuore delle culture, tra la gente, dove il dramma rischia di consumarsi e dove tuttavia la parola di Cristo mette più facilmente radici" (n. 17). Quando, però, si tratta di determinare il modo di elaborare quella che Giovanni Paolo II chiama la "cultura cattolica e popolare", il testo sembra insistere molto sul pericolo dell'"integrismo". (E qui occorre interrogarsi se, sotto il profilo pastorale, il documento stesso, a distanza di tempo, risponda ancora del tutto pure nelle sue accentuazioni alle esigenze della situazione italiana). Esso non esclude certo, "nel quadro dei programmi delle amministrazioni civiche, delle forze politiche e sociali", il compito di garantire "spazio alla libera iniziativa" e di valorizzare "i corpi intermedi" per coinvolgere la responsabilità dell'intero Paese sulle nuove necessità (n. 5). Anzi, in modo esplicito accenna all'influsso dei credenti "con le opere educative e assistenziali della comunità stessa, con la qualificata presenza nelle iniziative e nelle istituzioni pubbliche e con il contributo del volontariato" (n. 19).

L'accento, tuttavia, sembra cadere sulla paura di chiudersi "nelle sagrestie o nel privato", o di contrapporsi "al Paese con progetti alternativi o concorrenze o privilegi" (n. 12): "Non c'è più prospettiva per una cristianità fatta di tradizione sociale. E sarebbe d'altra parte grave errore rincorrere l'emergenza dei problemi quotidiani" (n. 16).

L'identità cristiana, del resto - è detto -, "a scanso di equivoci, non coincide con i programmi di azione culturale o sociale o politica che i cristiani, singoli o associati, perseguono. Si fonda invece sulla fede e sulla morale cristiana, con il loro preciso richiamo all'insegnamento in campo sociale: si vive nella comunità ecclesiale e ci si confronta fedelmente con la Parola di Dio letta nella Chiesa. E' una identità da incarnare, senza rivendicarla solo per se, nel pluralismo delle situazioni, giorno per giorno quando proprio la fede anima le competenze umane dell'analisi, del confronto, della mediazione e della progettazione" (n. 25). Al punto che, quando si tratta di attività politica in senso stretto, il documento sembra quasi porre il pluralismo come un ideale, mentre l'unità è dovuta a motivazioni storiche e quasi soltanto di ordine negativo: "Non tutti i programmi e non tutte le scelte sono indifferenti per la fede cristiana", ecc. (n. 37).

4) Assenza, presenza e mediazione

Come si nota, il documento riprova una qualche latitanza, una qualche assenza dall'impegno culturale nella società.

Quando, però, esige la presenza, pare esitante circa i tentativi di una elaborazione culturale direttamente ed esplicitamente ispirati alla fede. (Ciò varrebbe anche per altre impostazioni culturali, ovviamente, entro l'ambito del bene comune). Privilegia, sottolinea il lavoro di "mediazione" dentro le strutture pubbliche: occorre "delineare una organica pastorale della cultura, che sappia sì giudicare e discernere ciò che c'è di valido nei sistemi culturali e nelle ideologie, ma più ancora sappia puntare su tutto ciò che affina l'uomo ed esplica le sue molteplici capacità di far uso dei beni, di lavorare, di far progetti, di formare costumi, di praticare la religione, di esprimersi, di sviluppare scienze e arte: in una parola, di dare valore alla propria esistenza. E' evidente che l'elaborazione di una cultura intesa in questi termini è compito primario di tutta la comunità cristiana, che lo realizza con chiare proposte di valori e con lo specifico impegno dei laici... nel terreno della vita quotidiana, dove occorre capacità di dialogo, di confronto, di fondato giudizio, di fattiva promozione umana" (n. 29).

Necessità della "mediazione", dunque. Purché sia appropriata. E tuttavia pare si debbano porre almeno due problemi sotto il profilo pastorale. Il primo si riferisce alla effettiva presenza dei cristiani dentro la società: una presenza esplicita, sociologicamente rilevabile ed efficiente. Esiste davvero una simile presenza? Anzi, la situazione concreta consente tanto agevolmente una simile presenza cristiana? Il secondo problema concerne la modalità concreta secondo cui operare la "mediazione". Davvero si è di fronte ad un compito tanto facile, quando a svolgerlo sono dei singoli credenti? Non pare opportuno anche qualche tentativo di "mediazione" comunitaria tra fede e pensiero umano e vita umana? E qualche tentativo su cui investire non solo attenzione e forze, ma anche speranze per un confronto realistico ed efficace con altre impostazioni culturali? Senza cercare immotivatamente degli scontri frontali, si capisce. Senza pretendere di esaurire in espressioni umane la ricchezza inesauribile del cristianesimo. Senza cedere all'ingenuità di cavare deduttivamente tutte le applicazioni da premesse rivelate.

Con la consapevolezza perfino di correre dei rischi.

5) Dialogo ed evangelizzazione

La visione d'insieme che sembra presiedere al documento del 1981 pare connotata da due caratteristiche: salvare la "distinzione tra la Chiesa come comunità e i cristiani come "cittadini", e sottolineare l'"autonomia" della "competenza" umana di valutazione e di intervento rispetto alla Rivelazione e alla fede. Su questi punti - su queste accentuazioni - occorre forse riflettere più a fondo per valutare l'attualità pastorale del documento stesso. (Il quale, del resto, in più di un punto, è già stato integrato dall'altro su "Comunione e comunità" dell'ottobre 1981). Nessuno può negare, in linea di principio, il pericolo di un certo integrismo. Si può e si deve anzi affermare che quanto di valido il cristiano come cittadino fa e raggiunge, conduce alla pienezza della verità dell'uomo che è Cristo, così che l'"autonomia" della "competenza" umana, senza immediatismo, trova il suo fine e la sua sintesi nel mistero di grazia concretizzata nel Signore Gesù.

Ci si deve chiedere, tuttavia, se il percorso per il credente non può essere compiuto anche in senso inverso. E se proprio questa direzione non appaia oggi più rispondente alle esigenze attuali. Il testo dei Vescovi italiani, del resto pone un'affermazione di principio da cui poi non sembra cavare tutte le conseguenze: "La proposta cristiana (è) per sua natura destinata a dare pieno senso all'esistenza".

Se ciò è vero - com'è vero per il credente -, ci si accorge come l'unitarietà della persona deve prevalere.

La distinzione fra fedele e cittadino deve rimanere. Così come deve rimanere l'"autonomia" dell'umano. E tuttavia il cittadino è vero cittadino, quand'è credente, proprio in nome della sua fede. E l'umano non si giustappone alla grazia, ma trova il suo significato vero proprio all'interno della grazia.

Una simile sottolineatura dell'unità del piano di creazione e di redenzione solleciterebbe meglio a unire dialogo ed evangelizzazione, impegno terreno e offerta di grazia, cultura e fede, vita umana anche nella sua dimensione comunitaria e Chiesa. Secondo la struttura del cattolicesimo che recupera, sana e porta a compimento l'umano.