Georges Chantraine
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO
Bisogna che il Teologo prima di tutto, legga il testo della parabola del buon samaritano per comprenderne il senso interiore e alla luce della salvezza data da Dio in Cristo.
I. Sul testo della parabola, basterà fare qualche osservazione, senza inoltrarsi in una esegesi completa.
1. A metà della sua parabola Gesù capovolge la domanda del dottore della legge: questi aveva chiesto: "chi è il mio prossimo?" Gesù gli domanda: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Gesù indica un decentramento dell'io che deve essere operato.
2. Questo decentramento deve essere operato innanzitutto sulla legge che enuncia: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (10,279. L'io non sarà più il riferimento alla misura dell'amore del prossimo. Come può avvenire ciò? Per mezzo della misericordia che ha mosso il Samaritano. La misericordia è in San Luca un sentimento che è proprio di Dio: un sentimento che lo sospinge verso l'uomo in modo irrefrenabile (Gesù a Naim, il padre del figlio prodigo, almeno nella Volgata), per perdonarlo (figlio prodigo), o rendergli la vita (figlio unico della vedova di Naim).
Non è detto perché il samaritano sia mosso dalla misericordia. Non deve essere detto: questo movimento sorprende l'uomo, perché esso viene da Dio, il quale è "ricco di misericordia". L'uomo così pervaso da Dio, evidentemente ama il Signore suo Dio con tutto il cuore, con tutta la sua anima, con tutto il suo spirito. Ama anche il suo prossimo. Lo ama dell'amore di Dio. Ma ama anche Dio in colui di cui egli è diventato il prossimo.
I due comandamenti sono così vincolati insieme dalla misericordia.
Anche il capovolgimento della domanda riguardante il prossimo tocca discretamente la domanda di Dio: "e chi è il mio Dio?" è sottinteso nella domanda: "chi è il mio prossimo?". Se concentrarsi su di sé, che non esclude nel suo enunciato il secondo comandamento, implica in effetti un uguale concentrarsi sul proprio Dio. Forse i personaggi del sacerdote e del levita giudeo, che passano accanto all'uomo mezzo morto, designano indirettamente questo concetto su un Dio strettamente nazionale: le leggi di purificazione, che sono loro strettamente imposte dalla funzione che rivestono, per rendere il culto a Dio, impediscono loro di avvicinarsi all'uomo coperto di sangue perché egli è impuro. Il capovolgimento della domanda riguardante il prossimo implicherebbe dunque un analogo capovolgimento di una domanda rimasta implicita, riguardante Dio: dalla domanda: "chi è il mio Dio" si passerebbe alla domanda: "quale dei tre uomini ha reso il culto a Dio in spirito e in verità?" Il dialogo di Gesù con la Samaritana si fa sentire qui come in contrappunto.
3. 0ltre che l'enunciato della legge, il decentramento richiesto dalla parabola, tocca il dottore della legge.
Quale è la situazione di questo conoscitore della legge? Vuole mettere alla prova quel maestro (didaskale) (v. 25) che è Gesù facendogli una domanda teorica, oggetto di disputa tra i dotti: "che devo fare per ereditare la vita eterna?". Invece di dare un parere soggettivo, Gesù rinvia colui che lo interroga alla legge: non entra nel gioco in cui gli io compiacendosi nella loro risposta, si accentrano di più su se stessi, ma riconduce colui che lo interroga alla legge, legge che quest'ultimo si deve presumere conosca, lo invita a rispondere, lo esercita nella conoscenza della legge, e dopo aver provocato la sua risposta, conclude: "fa questo e vivrai". L'osservanza della legge è fonte di vita. L'esercizio pratico segue quello teorico e lo completa.
Ma il dottore della legge non accetta questo legame tra teoria e pratica. Malgrado l'esercizio che Gesù gli ha fatto fare, egli si attiene alla sua situazione di partenza, ma questa volta oppone nettamente la teoria alla pratica: "come dunque mettere in pratica la legge se io non so chi è il mio prossimo?" Perché questa domanda? Perché vuole giustificarsi (v. 29).
Non solo egli vuole aver ragione di aver fatto la prima domanda, la cui risposta sembra ora così semplice: un maestro non si sentirebbe ridicolo per averla fatta? Giustificarsi ha qui un senso più forte, teologico, come l'ha notato Origene; il dottore della legge ritorna volontariamente a concentrarsi su sé da cui nasce l'opposizione tra teoria e pratica. Prima della risposta di Gesù, tale concentrarsi era a causa della prova che questo maestro faceva subire a Gesù sotto l'apparenza di una domanda teorica Gesù, nel fargli esercitare la sua conoscenza della legge, l'ha invitato a decentrarsi da sé accogliendo la legge come fonte di vita. Il dottore della legge non si è lasciato guidare, non ha fatto questo passo. Egli diventa estraneo alla legge, da esteriore che era nei suoi confronti. Non vuole solo giustificare la sua prima domanda; vuole giustificarsi. L'autogiustificazione lo rende estraneo alla legge, alla sua genuina conoscenza che non può essere disgiunta dalla pratica.
Dunque egli chiede: "chi è il mio prossimo?" La domanda tradisce la sua buona coscienza religiosa. Non vuole mettere in causa l'amore di Dio; tratta solo dell'applicazione pratica del secondo comandamento. Non si accorge di tradire in realtà la sua idea segreta di Dio. Gesù gliela rivelerà mettendogli davanti agli occhi il sacerdote e il levita. In questo modo, l'autogiustificazione, che implica opposizione tra la teoria e la pratica, produce l'effetto - o lo causa - di privare l'uomo del vero Dio - il Dio della Misericordia - con il pretesto di voler applicare la legge informandosi di una condizione primaria della sua applicazione.
Nella parabola, Gesù inscena la situazione spirituale del dottore della legge, situazione creata dalla nuova legge, e gliela rivela se ha orecchie per intendere. Lo scopo della parabola è questa rivelazione destinata al dottore della legge e a tutti quelli che sono in una situazione spirituale analoga.
La scena viene situata sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico. Dall'alto in basso è il movimento di discesa dei principi verso la loro applicazione. Il sacerdote, il levita e il samaritano saranno nella stessa situazione del dottore della legge. Inoltre, l'altro è rappresentato qui da Gerusalemme e il basso da Gerico. Gerusalemme, la città santa verso cui saliranno tutti i popoli; Gerico, la città che all'epoca dell'ingresso dei Giudei nella terra promessa, Giosuè ha votato all'anatema; la prima è la città giudea, la seconda è la città pagana. I personaggi si trovano così sulla strada che discende dalla vita alla morte. E' la situazione inversa rispetto a quella che il dottore della legge aveva presentato a Gesù nella sua prima domanda: "Che devo fare per ereditare la vita eterna?" Come i suoi avi, il dottore della legge vuole entrare nella terra promessa in un movimento ascendente che da Gerico va a Gerusalemme. Ora, con Gesù (il nuovo Giosuè) non si tratta più di salire verso Dio e la sua eredità distruggendo i pagani, ma di andare verso i pagani non con un movimento che si allontana da Dio, ma con lo stesso movimento di Dio verso di loro. Mi limito ad accennarlo, con l'intento di svilupparlo più avanti. La situazione descritta è missionaria: è un nuovo punto di contatto con il dialogo tra Gesù e la Samaritana.
Tra Gerusalemme e Gerico, tra la vita e la morte: ed è proprio questa la situazione in cui i briganti lasciano l'uomo. Un quadro che ben si adatta alla storia drammatica. Il simbolismo dei luoghi è confermato dalla storia raccontata.
Con ciò possiamo aspettarci che questa storia descriva, senza dirlo, la situazione spirituale del dottore della legge e quella in cui è invitato ad entrare.
5. "Un uomo", dice Gesù. Gli altri tre personaggi saranno identificati tramite la loro relazione alla legge d'Israele: un sacerdote, un levita, un samaritano. Il dottore della legge aveva chiesto: "chi è il mio prossimo?" Ora il prossimo non viene qualificato dalla sua relazione alla legge d'Israele, ma dalla sua appartenenza al genere umano, dalla sua umanità. Agli occhi del dottore della legge, non vi è altro di più indeterminato. "Un uomo". Colui che manca di un quadro per una possibile relazione. Un uomo, come potrebbe essere il mio prossimo? Sotto la voluta indeterminatezza, la domanda del dottore della legge diventa più pressante. La difficoltà di poterla risolvere si accresce. indubbiamente il dottore della legge ha riconosciuto l'acume di Gesù.
Egli ha compreso anche che l'altro gli appare come altro sotto le sembianze di un uomo qualsiasi proprio Perché lui stesso era diventato estraneo alla legge volendosi giustificare? Visto in questa ottica, il dottore della legge in qualche modo proietta la sua situazione spirituale sull'uomo della parabola: gli appare estraneo Perché anche lui è diventato estraneo alla legge, nel momento stesso in cui crede che l'uomo lo sia a causa della legge.
E' una situazione di violenza spirituale. Senza di lei non ci sarebbero estranei, nel senso pregnante del termine, cioè delle persone a cui la piena umanità non è riconosciuta, a ragione del fatto che esse non fanno parte della stessa famiglia, della stessa città, della stessa nazione, o generalmente, a ragione del fatto che esse non entrano nelle nostre categorie sociali o politiche... La violenza spirituale è certamente sottintesa nel racconto. Mentre la violenza fisica è esplicita Rapinato, percosso, l'uomo è abbandonato mezzo morto dai briganti, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gerico. Eccolo che sta in uno stato di disperazione dalla quale la fragilità umana non può essere difesa: nessuna legge può farci niente, nessun ordine sociale proteggerà l'uomo contro di essa. La legge si sforza di difendere il più debole dal più forte, o di riparare ai torti che il più forte avrà fatto al più debole. La sua azione preventiva o curativa non arriva a toccare la causa del male: l'oppressività e la cupidigia, il cattivo desiderio di uccidere e di possedere. Questa azione può regolare le relazioni tra gli uomini. Non può impedire che l'uomo faccia dell'altro un estraneo secondo la legge del più forte che si enuncia così: "se non può difendersi tanto peggio per lui".
Come raggiungere dunque l'uomo diventato straniero? Si intravede già la domanda nuova che Gesù sta per fare.
6. Coloro che sono vicini al dottore della legge, il sacerdote o il levita, non sentono questa nuova domanda. Essi restano estranei. La purezza legale impedisce loro di avvicinarsi a quest'uomo imbrattato di sangue. Invece, colui che il dottore della legge considera uno straniero, il samaritano, si avvicina al ferito e lo cura. Così è lo straniero che diventa il prossimo. Perché? Perché esso è mosso e commosso dalla misericordia. Ho già indicato l'origine divina di questo "sentimento".
Ne indicherò qui le sue radici umane. Che cosa resta in questo uomo, sfigurato dalla violenza, che cosa resta che sia capace di assimilarlo agli altri uomini? Solo la sua umanità ferita. E' da questa umanità che il samaritano è toccato. Si vede dalle cure che egli prodiga immediatamente. Invece di restare nel gioco del più forte e del più debole, che è il gioco della violenza, il samaritano si lascia prendere nel movimento della misericordia: in questo modo egli sente l'appello silenzioso dell'umanità dell'uomo, di questa vita che deve essere salvata dalla morte. Nessuna voce rivendica questo diritto. Il corpo ferito parla al cuore e guida la mano che lo cura. Questo dialogo senza parole non si arresterà più. La parabola non fa vedere l'uomo guarito. Quaggiù, su questo cammino che va verso la morte, la vita è salvata dal cuore che si lascia commuovere dall'umanità ferita dell'uomo.
L'opera di misericordia è un'opera di comunione. Il samaritano conduce l'uomo alla locanda. La locanda in cui Maria e Giuseppe non erano stati ospitati la sera di Natale. Gli procura un tetto e di che mangiare. Invece di interrompere il suo viaggio, e una volta che l'uomo è fuori pericolo, associa l'albergatore alla sua opera e pagando tutte le spese, tratta l'uomo come prossimo.
Di che viaggio si tratta? Il sacerdote scendeva verso Gerico. Il samaritano sale verso Gerusalemme? Ciò sembra storicamente poco verosimile. Quale importante affare costringe questo uomo devoto a lasciare la locanda già l'indomani? Si può dire che la risposta non abbia importanza. Essa non riguarda "il nucleo", il fulcro della parabola. In ogni modo la parabola resta aperta. Non tutto è detto. Non tutto deve essere detto, altrimenti non sarebbe una parabola.
7. Gesù, dopo il suo racconto, continua ad esercitare il dottore della legge nella conoscenza della vera legge. Lo interroga: l'altro risponde. Come aveva fatto la prima volta, conclude dicendo: "Va e anche tu fa' lo stesso".
E' una parabola di grazia: poiché conosci la verità, opera la verità; è possibile, poiché tu non potresti conoscerla senza già aderirvi, né aderirvi senza metterla in pratica. Il tempo dell'autogiustificazione è passato: "Va". Parola del Maestro. Non solo del rabbino che il dottore della legge aveva tentato, ma dell'autore della grazia che non si può tentare senza essere invitato ad entrare nella libertà spirituale, quella di figlio, decentrandosi da sé, acquistando la vera intelligenza della legge.
Capovolgendo la domanda, Gesù ha anche capovolto la sua relazione con il dottore della legge. Nella tentazione che il dottore della legge gli aveva fatto subire, c'era una prova destinata a mostrare chi fosse il più forte. La tentazione non era priva di una certa violenza. Ora il più forte appare di sicuro come un maestro, ma un maestro misericordioso. Invece di entrare nel gioco del dottore della legge discutendo, gli ha proposto una parabola che gli permette nel silenzio di capire ciò che si rifiutava di capire.
Gesù ha percepito nel dottore della legge la ferita che l'uomo porta in sé dalla nascita e l'ha curata in modo che il dottore della legge recuperi la forza sufficiente per rispondere alla domanda e per vivere secondo la sua buona risposta.
Ma se si può indovinare che Gesù ha identificato il dottore della legge con l'uomo ferito, si può anche indovinare che il dottore della legge ha identificato il samaritano con Gesù?
Avrebbe potuto rispondere in modo corretto se non si fosse lasciato curare da Gesù? Rispondendo egli smette di giustificarsi e, dunque, di opporre la teoria alla pratica. La sua risposta l'impegna. Rivelandogli il contenuto della nuova legge, essa lo fa aderire a Gesù come alla sorgente della grazia.
II. Chi è il Samaritano?
1. Per poter rispondere adeguatamente all'ultima domanda di Gesù, il dottore della legge ha dovuto dunque identificarlo praticamente con il samaritano e identificare se stesso all'uomo ferito. Nello stesso tempo, riconosceva che Gesù era agli occhi della legge, così come egli comprendeva questa legge, uno straniero, ma che il suo carattere di straniero non gli veniva dalle nostre misure umane, chè esso era assoluto. Il problema che egli aveva posto si concentrava così su questo individuo singolare che è Gesù risolvendosi nello stesso tempo in lui.
In modo più o meno cosciente, il dottore della legge entrava nel dominio del mistero, accedendo alla fede che (sola) giustifica. Era uscito dal dominio del problema in cui l'opposizione tra teoria e pratica si inasprisce (ed è resa dialettica) a causa dell'autogiustificazione e della violenza che essa genera e tuttavia respinge allo stesso tempo.
2. Questa identificazione di Gesù con il samaritano non è propria di questo dottore della legge. Essendo adeguata, è necessaria per ogni uomo non appena la parabola dà il suo frutto, non appena le legge diventa luce e vita, non appena il dottore della legge accetta di essere esercitato nella conoscenza della legge e di essere curato come un uomo ferito. In effetti il samaritano non può essere, di conseguenza, che colui che fa passare dalla giustizia della legge a quella della fede dando la legge dello Spirito, cioè la carità che, diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo, fa sì che i credenti adempiano al comandamento con dilezione.
Ma Perché Gesù si è identificato a un samaritano? Agli occhi del dottore della legge che vuole giustificarsi, Gesù appare come estraneo alla tradizione dei suoi padri: egli è l'altro della sua tradizione, non un pagano che non ha tradizione, ma un Samaritano con cui il Giudeo non ha relazioni, come la samaritana lo ricorda, stupita, a Gesù. Gesù si fa anche trattare da Samaritano dai Giudei, che pure l'avevano creduto (Giovanni 8,31). "Non diciamo con ragione che sei un samaritano e hai un demonio?" (8,48). Ora, notano Origene e Agostino, Gesù rifiuta la seconda accusa, ma non la prima. "Io non ho un demonio", risponde (8,49), senza aggiungere: "Non sono un samaritano".
Egli accetta tacitamente di essere considerato un samaritano. Perché, agli occhi di questi Giudei, è un samaritano e ha un demonio? E' facile rispondere alla seconda domanda. Già alla domanda di Gesù: "Perché volete uccidermi?", la folla aveva risposto al capitolo 7: "Tu hai un demonio. Chi cerca di ucciderti?" (7.19,20).
AI capitolo 8, Gesù dichiarerà ai Giudei che è il diavolo, omicida sin dalle origini e bugiardo, che vuole ucciderlo e che essi, invece di essere, come lo pretendono, i figli di Dio, hanno "il diavolo per padre" e "vogliono" compiere i desideri del padre loro (8,44).
Giungiamo qui alla radice della violenza: la violenza spirituale, che avevamo diagnosticato nel dottore della legge, ha per origine il diavolo: essendo padre della menzogna, è lui che oppone la teoria alla pratica e acuisce questa opposizione nell'autogiustificazione del dottore della legge. Gesù "ha dunque un demonio" Perché egli riconosce non Dio, ma il diavolo quale padre dei Giudei.
Perché adesso è un samaritano? La ragione non dovrebbe essere cercata nella replica precedente? "Nostro padre - dicono i Giudei - è Abramo". Rispose Gesù: "se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo. Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre nostro" (8.40,41). Non bisogna forse essere un samaritano per contestare la filiazione abramica dei Giudei? Gesù afferma, infatti, che sono figli di Abramo coloro che, come Abramo, credono in lui: il Figlio li libera ed essi sono liberi davvero (8.39,36). Egli afferma così la vera generazione che è secondo lo Spirito. Egli non rifiuta di essere considerato come uno straniero, un samaritano da coloro che si richiamano ad una generazione secondo la carne (8.15,33,37).
Se ora paragoniamo la discussione riportata da S. Giovanni con la parabola raccontata da S. Luca, constatiamo, malgrado il contesto e il genere letterario diverso, alcune somiglianze: in Giovanni come in Luca, il samaritano appartiene ad un contesto di violenza omicida; in entrambi questa violenza è suscitata dal passaggio dall'antica alla nuova legge. Il diavolo non interviene nella parabola come un personaggio nominato, ma il dottore della legge "tenta" Gesù come il diavolo lo aveva "tentanto" nel deserto (4.2), questo diavolo che, avendo esaurito tutte le tentazioni, si era allontanato da lui fino al tempo (4.13) della passione (22.48). Anche se fino a quel momento il diavolo non è in scena, non per questo esso non agisce, lo fa per mezzo di uomini, in questo caso del dottore della legge, quando è scritto: "Non tenterai il Signore tuo Dio" (4.l2citando Dt.6.16). Dunque, come si serve il diavolo (è la stessa parola nei due vangeli) del dottore della legge? Opponendo la teoria alla pratica e adoperandosi a rendere la loro opposizione irriducibile grazie all'autogiustificazione del dottore della legge.
Così egli si sforza di ingannare il dottore della legge e suoi possibili seguaci facendo loro perdere la vera conoscenza della rivelazione, cioè la verità, e si sforza con ciò di sottometterla a sé e a lui, il diavolo, sbarrandogli la strada alla libertà del vangelo e della fede. Come in Giovanni, verità e libertà, menzogna e servitù, appartengono così al tema del samaritano, il quale tema è legato a quello del diavolo.
Da ciò si vede Perché Gesù appare al dottore della legge come l'altro della tradizione. Ad istigazione del diavolo, omicida sin dall'origine e padre della menzogna, colui che vuole giustificarsi, rivendicando la discendenza carnale di Abramo più che la discendenza spirituale, nasconde a se stesso la verità della legge manifestata da Gesù per liberare dalla schiavitù della legge e del peccato sotto la caricatura di quella verità che il samaritano rappresenta agli occhi del Giudeo. Giustificandosi egli marcherà l'alterità assoluta di Gesù sotto l'alterità relativa del Samaritano, e questa alterità di Gesù è proprio quella verità che libera. Egli non vuole e non può di conseguenza riconoscere l'origine divina di Gesù (come lo dimostra S. Giovanni): così disconosce la sua origine giudea, e dunque la sua vera umanità.
Sotto le sembiante del Samaritano, Gesù non è in fondo né figlio di Dio né figlio di Maria, né Dio, né uomo. Ecco in che cosa l'autogiustificazione è allo stesso tempo omicida e menzognera. Questo è il contenuto dell'appellativo di Samaritano. Si può pensare che presentandosi tacitamente con le sembianze del samaritano, Gesù si mostra come in un dramma psicologico così come lo vede colui che vuole giustificarsi.
E queste sembianze sono quelle di Gesù Cristo crocifisso (Ga 2,20; 3,1; 1 Cor. 1,17 ss). In questo modo l'identificazione di Gesù al samaritano diventa reale solo nel dramma della passione.
Nello stesso tempo, egli è il samaritano non solo per il dottore della legge che vuole giustificarsi, ma per ogni uomo nato da Adamo e segnato dal peccato originale. Proprio per il fatto che egli ha preso "una carne simile a quella del peccato" (Rom 8,3), egli appare straniero all'uomo nato in questa carne di peccato. L'aggressività e la cupidigia, provenienti dal peccato di Adamo, impediscono di riconoscere nell'altro la stessa carne (cf Abele e Caino). Esse ci rendono estranei gli uni agli altri. E poiché egli ha preso volontariamente questa carne su di sé incarnandosi, Gesù è lo straniero per eccellenza. Perché l'amore con cui ha preso questa carne è misconosciuto così come lo è la sua umanità.
Noi rendiamo Dio straniero alla nostra umanità così come noi ci facciamo stranieri alla nostra umanità. Tocchiamo qui il fondo abissale dell'ateismo militante: esso può bandire Dio solo escludendo l'uomo, malgrado la sua pretesa contraria, quella cioè di stabilire la fraternità umana escludendo dalla vita e dalla città la paternità divina. La sua pretesa procede dalla menzogna e da una volontà omicida.
Soltanto il movimento della misericordia supera una tale pretesa, poiché, lo ripetiamo, esso scaturisce dal cuore di Dio e tocca l'uomo in ciò che la sua umanità ha di fragile e di vulnerabile. La misericordia è il sentimento di Dio proprio quando esso è escluso da parte dell'uomo, cioè quando egli lo offende e lo rigetta. Anche quando l'uomo si allontana da lui, e che lui, Dio, lo giudica secondo la sua giustizia, egli va in qualche modo verso l'uomo, decide di inviare suo Figlio per salvarlo, annuncia la salvezza all'uomo peccatore che egli punisce, e poi prepara alla salvezza per mezzo dell'alleanza con il suo popolo prima di compierla per mezzo di suo Figlio. Nel Figlio e con il Figlio tocca l'uomo nella sua umanità ferita dal peccato.
L'incarnazione è l'effetto e la manifestazione originale della misericordia del Padre. Essa lo è non solo nel suo primo momento, la concezione di Gesù e la sua natività, ma anche nella passione e infine nella glorificazione, poiché la misericordia appare nella umanità glorificata del Figlio non meno di quanto appaia nella sua sofferente umanità. In questo modo essa fa vedere chi è Dio e fa vivere l'uomo che era morto, trionfando sulla menzogna e sulla volontà omicida.
III. A partire dall'identificazione del Samaritano a Cristo
Quando il Samaritano è identificato con il Cristo Gesù, la parabola giunge a riguardare l'intero dramma della redenzione. D'allora in poi i personaggi e il quadro prendono un nuovo significato.
1. Inquadrato in relazione a Cristo, l'uomo spogliato delle sue vesti e mezzo morto non è più un uomo qualsiasi, è Adamo, privato della giustizia originale a causa del suo peccato a cui era stato spinto dal diavolo. E' incapace di dirigersi verso il suo fine ultimo senza il soccorso di una grazia che eleverà a questa fede solo guarendolo dal suo male. L'uomo è, in Adamo, tutta la famiglia umana che condivide la condizione peccatrice di suo padre. Poiché si è reso estraneo a Dio, l'uomo diventa estraneo alla sua umanità, fino al fratricidio. Il peccato di Caino segue quello di Adamo.
2. Colui che era chiamato alla vita divina, cade, a causa del suo cuore, nella regione della morte. Dallo stato di natura innocente, egli decade allo stato di natura corrotta che la Legge avrà la funzione di rivelargli. Ma egli non può uscire da questo stato né per mezzo di Mosè né per mezzo dei profeti, rappresentati dal sacerdote e dal levita. Ma solo attraverso il Samaritano.
La parabola non ci indica la direzione del suo cammino. Sappiamo che il sacerdote discendeva, e "anche" il levita: essi erano nello stesso stato dell'uomo, Perché andavano anch'essi verso la morte.
Del Samaritano non sappiamo se egli salisse verso Gerusalemme o discendesse verso Gerico. Forse questa indeterminatezza è piena di significato. Avendo assunto una carne simile a quella del peccato, scende anche lui da Gerusalemme. Si può persino dire che egli discenda dalla Gerusalemme di lassù, Perché egli è il Figlio di Dio. Egli ne discende in virtù della condiscendenza divina, di quella condiscendenza che allietò i Padri: è il movimento stesso della misericordia.
La discesa che ci rende estranei gli uni agli altri e con Dio, rende Gesù solidale con tutti gli uomini, unendoli in lui e nel suo corpo a Dio suo Padre. Egli, infatti, il secondo Adamo, Figlio, per nascita, del primo, diventato uomo tra gli uomini, egli non è tuttavia psichico come il primo, ma spirituale: per mezzo dello Spirito è stato concepito nel seno della Vergine Maria, ed è restato indenne dal peccato originale. Venuto non per volontà della carne, ma per volontà del Padre, nella nostra carne mortale e peccatrice, non poteva essere corrotto dal peccato originale e personale nella sua natura umana. Egli si trova quindi sulla strada dell'uomo ferito non Perché come ogni uomo (come il sacerdote o il levita) egli la discendesse, ma si è avvicinato Perché si è messo sulla strada.
Mosso dalla misericordia, non ha altra strada che quella che conduce all'uomo; e apre una via Perché si avvicina all'uomo. Egli dice: io sono la via. Via verso il Padre, via verso l'uomo. Il cammino verso l'uomo conduce verso il Padre a causa del movimento della misericordia che è nel cuore del Padre.
Così va verso la morte. Discende verso Gerico. Ma poiché la via verso l'uomo è via verso il Padre, si può dire anche che egli sale verso Gerusalemme. E' così che S. Luca ce lo mostra, all'inizio della "sezione" in cui si situa la nostra parabola: "Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme. Anch'egli vuole rendere al Padre suo un culto in verità. Lo farà implorando il perdono per tutti gli uomini, riconciliando il buon ladrone con Dio e offrendo la sua vita invece di salvarla, manifestandosi così come Figlio di Dio (Luca 23,24-49). A Gerusalemme egli troverà dunque la vita attraverso la morte che vi subirà come i profeti.
E a partire da Gerusalemme egli invierà anche i suoi verso i pagani, passando per la Samaria (Lc. 24,46; At. 1,8).
Dato che egli è mosso dalla misericordia, che il suo cammino verso l'uomo lo conduce verso il Padre, il suo movimento di discesa è il suo movimento di ascesa.
Così Gerusalemme è il luogo in cui subisce la morte. Ma - sempre causa del movimento della misericordia - la vita scaturisce a Gerusalemme, ma è una vita destinata ad essere data a tutti coloro che abitano lontano, nella regione della morte. Tutto comincia e finisce con lui a Gerusalemme, ma non secondo il modo giudeo: in lui, il Samaritano, Gerusalemme si è identificata con Gerico la città della morte e non cessa di essere il centro dell'unione (rassemblement), Perché il solo centro può essere quello attraverso il quale e nel quale Gerusalemme e Gerico sono riconciliate. Questo insegnamento è anche quello impartito da Paolo nella lettera agli Efesini: "Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo - è il nuovo Adamo - facendo la pace, per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunciare la pace, a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito" (Ef 2,14-18).
3. L'incarnazione, l'abbiamo detto, è l'effetto e la manifestazione originale della misericordia del Padre. Essa lo è in tutta la sua ampiezza, dalla concezione del Figlio di Dio fino alla sua glorificazione. La conclusione della parabola lo mostra in modo quanto più possibile chiaro: "Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi caricatolo sopra il giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede all'albergatore dicendo: "abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno" (10,34-35). Questi vari gesti assumono tutto il loro significato all'interno del mistero dell'Incarnazione, che è il mistero della misericordia che si avvicina all'uomo. Il Samaritano salva l'uomo con i suoi sacramenti. Nell'olio si può scorgere l'olio crismale del battesimo e nel vino il sangue di Cristo dato nell'Eucarestia, cioè i sacramenti dell'iniziazione cristiana. Questi sacramenti sono i segni efficaci della misericordia del Padre: essi manifestano l'Incarnazione, il corpo che è dato agli uomini assumendo su di sé i loro peccati e le loro debolezze, la loro condizione peccatrice. Il suo corpo è dato. Non fu soltanto dato in quel tempo. E' dato e resta dato. E' uno stato, ma questo stato non è, se posso esprimermi così, statico, poiché esso è nello stato di essere dato grazie alla potenza dello Spirito che l'ha risuscitato.
L'assoluto spogliarsi di se stesso, la suprema umiliazione è l'esaltazione suprema e l'assoluto possesso dello Spirito.
Giovanni ci fa contemplare tutto questo: Gesù ha affidato sua madre a Giovanni, è stato assetato e ha reso il suo Spirito. Dallo stato di essere dato scaturisce appunto dal fianco trafitto l'acqua e il sangue, i sacramenti della Chiesa.
L'acqua e il sangue scorrono dal fianco trafitto di Cristo. L'olio e il vino del Samaritano. Bisogna notare il divario tra questi termini. Questo divario indica al livello del linguaggio, la distanza reale che separa l'uomo ferito dal Samaritano, la via che il Samaritano percorre avvicinandosi all'uomo, cioè il cammino dell'Incarnazione e il movimento della misericordia. Il Samaritano si serve dell'olio e del vino Perché sono dei rimedi naturali: si crede che essi abbiano per se stessi un'efficacia curativa. Allo stesso modo, i segni che formano il substrato dei sacramenti manifestano per se stessi, secondo il loro simbolismo proprio, l'azione della grazia. Cristo li ha scelti Perché con la sua incarnazione egli percorre la strada che si snoda tra lui e l'uomo ferito, Perché egli supera il divario, senza per questo annullare la differenza, che esiste tra lui e l'uomo.
Ed egli può fare in modo che l'olio e il vino del Samaritano significhino l'acqua e il sangue del suo fianco trafitto, poiché la sua incarnazione redentrice culmina nello stato di essere dato. Infatti egli è, nel suo corpo, allo stesso tempo la carne dell'uomo e la manifestazione ultima dell'amore di Dio. La sua morte è vivificante. Le cose ricuperano, secondo la loro purezza, la loro naturale potenza a significare, diventata ambigua a causa del peccato e della morte che il peccato aveva introdotto nel mondo. Esse la ricuperano proprio grazie alla sua morte vivificante, a cui danno un significato non per mezzo di loro stesse, ma in sua virtù. Per esprimersi con esattezza, non vi è qui una sovradeterminazione del segno sul sacramento, poiché nel loro essere creato le cose erano aperte a questo nuovo significato. Ma questo essere creato era stato corrotto dal peccato dell'uomo: il loro simbolismo era ormai portatore di morte. Ora per mezzo di una meravigliosa trasformazione, alla quale l'antica esegesi era sensibile, esse annunciano una morte vivificante.
4. L'organismo sacramentale così costituito da Cristo salvatore e animato dallo Spirito Santo, fa spazio alle opere di misericordia e all'universo della cultura.
Esso le promuove quando l'uomo si esprime nella cultura, allorquando, suo tramite, egli diventa "più pienamente uomo in tutte le dimensioni della sua esistenza, in tutto ciò che caratterizza la sua umanità (Giovanni Paolo II, Discorso all'Unesco, 2.6.1980, n. 7), fa parlare le cose mentre esprime se stesso, dice la sua umanità attraverso il simbolismo naturale dell'universo creato, di cui coglie il linguaggio muto e al quale dà la parola con il suo linguaggio, mentre il suo linguaggio umano prende corpo ed espressione in questo simbolismo. Ora, nella sua situazione presente, egli non può far parlare le cose ed esprimere la sua umanità attraverso il loro simbolismo, senza attingere segretamente alla potenza naturale che cose e simbolismo hanno ricuperato nella morte vivificante del Figlio di Dio incarnato. Non per questo si dovrà concludere che esiste solo una cultura cristiana. E' sin troppo evidente che esistono delle culture pagane. In compenso, se si ammette questo rapporto tra simbolismo naturale e organismo sacramentale, si trarranno due importanti conclusioni.
La prima è che l'ateismo militante, se è coerente, priva l'uomo della cultura. Questa privazione non è una mera carenza, e neppure l'assenza di ciò che è dovuto. L'uomo che vive sotto l'ateismo militante non è solo senza cultura come l'uomo è senza luce durante la notte o senza luce durante il giorno. Quest'ultima privazione può ancora essere del tutto negativa. L'uomo sotto l'ateismo è privato positivamente della cultura: si tratta di una privazione positiva, poiché la cultura gli è sottratta nella misura in cui l'ateismo militante pretende di farlo accedere alla sua umanità escludendo il Dio incarnato e con ciò respingendo in qualche modo il "movimento della misericordia".
La seconda conclusione è che l'organismo sacramentale non può far sentire a tutti, e in modo pienamente intelligibile, il suo linguaggio senza che una cultura esprima, in una maniera o nell'altra, la novità dell'uomo attraverso la freschezza e la forza ritrovate del simbolismo naturale. Questa cultura circonda innanzitutto l'organismo sacramentale: è la liturgia. Voler celebrare i sacramenti in una purezza a torto ritenuta evangelica è una aberrazione, e la storia lo dimostra. Il fatto che l'uomo esalti i sacramenti grazie allo splendore della cultura, non ha nulla di antievangelico; al contrario si tratta di una esigenza dell'Incarnazione del Verbo di Dio. Ma la cultura non racchiude solo l'organismo sacramentale, come uno scrigno il suo gioiello. Essa si estende a tutta quanta la vita. Nella misura in cui la fede è vivente, essa libera nell'uomo una potenza di esprimersi, a mano a mano che egli accede, per mezzo della grazia, alla sua vera umanità.
La relazione tra culture diverse e vangelo e così contenuta nella relazione tra simbolismo naturale e simbolismo sacramentale, nel divario tra l'olio e il vino, da una parte, e l'acqua e il sangue che defluiscono dal fianco trafitto, dall'altra.
Nel medesimo divario è contenuta l'azione caritativa con ciò che erano chiamate le opere di misericordia.
Prima di portare l'uomo ferito all'albergo, il Samaritano l'ha curato versando nelle sue piaghe l'olio e il vino, poi l'ha portato sul suo giumento. Senza questa silenziosa dedizione, i sacramenti non potrebbero essere ricevuti come segni efficaci della vita.
E nell'albergo l'uomo riceverà ancora le cure dell'albergatore al quale il Samaritano l'ha affidato.
Chi é l'albergatore? La Chiesa? L'Apostolo? Noi preferiamo vedere in lui ogni cristiano che si dedica al suo prossimo Perché Cristo gli ha chiesto di farlo e gli dà la carità che gli permette di farlo. Ciò che sarà dato sarà di Cristo fino al suo ritorno, anche ciò che io avrò dato di me stesso, poiché "ciò che spenderò in più, il Cristo lo rifonderà al suo ritorno" (10,35). La vita resa da Cristo grazie ai sacramenti si sviluppa, cresce grazie alla dedizione della carità fraterna. E questa non fa che dispiegare la misericordia di Dio verso l'uomo. I sacramenti sono certamente efficaci, ma essi non darebbero alcun profitto all'uomo senza la carità fraterna e i gesti semplicemente umani che essa ispira: questi gesti testimoniano di una amicizia che apre alla grazia, amicizia che è anche un nome della grazia. Infine, il campo della cultura e quello dell'azione caritativa sono collegati tra loro dall'organismo sacramentale: i sacramenti sono segni efficaci. Non sono semplici segni; non sono neppure mezzi d'azione efficace. Poiché dandosi all'uomo, Cristo dà un significato a se stesso: l'unità del significato e dell'efficacia si trova in Cristo mosso dalla misericordia.
Questa considerazione è ricca di conseguenze. Ci limiteremo ad indicarne sommariamente due.
La fede non deve stare a rimorchio delle culture da evangelizzare. Laddove non si finisce mai di invocare dei problemi di linguaggio per giustificare una qualunque maniera di parlare del Dio incarnato, bisogna dichiarare, senza esitazione, che il problema del linguaggio è già risolto dall'incarnazione redentrice del Verbo di Dio. In effetti, ciò che si esprime attraverso il linguaggio, quando il cristiano parla di Dio, è il dono stesso che Dio ha fatto di suo Figlio per salvarci. Questo linguaggio è sacramentale e in quanto tale esso si adatta ai linguaggi delle diverse culture, non senza riplasmarli dall'interno riempiendoli del suo contenuto assoluto.
Allo stesso modo, la dedizione fraterna non può tramutarsi in azione sociale come la carità non può essere ridotta alla giustizia. Laddove si pretende che la lotta per la giustizia sia la sola lotta efficace, bisogna proclamare schiettamente che solo Dio può ristabilire delle relazioni fraterne - e dunque giuste - Perché salvando l'uomo egli si rivela Padre. La parabola illustra quanto ci sia di relativo nella giustizia sociale: né il sacerdote né il levita sono stati ingiusti ai loro occhi e agli occhi dei loro correligionari: essi hanno osservato la giustizia della legge e delle sue tradizioni. Così si può dire di ogni ordine sociale: esso instaura una certa giustizia evitando il compiersi di una certa ingiustizia. Ma la sola giustizia umana è incapace di giungere all'umanità dell'uomo ferito dal peccato. Essa può esserlo solo dalla misericordia. Questa, lungi dal distruggere la giustizia, la compie. La compie al di là di essa, nella fraternità.
Ora - è il punto delicato messo in causa dall'obiezione - la salvezza instaura delle relazioni fraterne tra gli uomini Perché Dio, in esse, si rivela Padre. in altre parole, l'azione salvifica è efficace solo in quanto essa è rivelazione dell'essere trinitario di Dio. O ancora, l'efficacia dell'azione salvifica è quella del Verbo che in lui rivela il Padre.
Nessuna azione umana per quanto essa possa essere generosa agli occhi degli uomini, possiede tale efficacia.
Quella del Verbo incarnato consiste nel far conoscere il Padre: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato" (Gv 17,3). E facendolo conoscere essa è sacramentale.
In breve, è impossibile disgiungere nel Verbo Incarnato, significato e efficacia. E, ripetiamolo, ciò che unisce l'uno all'altra è la misericordia con il movimento della quale il Verbo si è incarnato. Sottolineamo tutta l'importanza di ciò. In un mondo in cui la società ha organizzato in modi razionali quanto i cristiani facevano per gli altri con la carità, in un mondo in cui la carità è esercitata per mezzo dell'assistenza pubblica, dell'assistenza sociale, ecc., come può essa manifestarsi ancora? Risposta: per mezzo della misericordia che, come abbiamo detto, è la sola a giungere fino all'umanità dell'uomo. Ma come esercitare questa misericordia? Naturalmente con le opere di misericordia, con l'azione caritativa. Ora questa azione è efficace solo nella misura in cui essa è rivelazione della paternità di Dio. L'evangelizzazione non può essere dunque disgiunta dall'azione caritativa.
Insistiamo ancora con un esempio di enorme portata. Siamo convinti che un ospedale tenuto da suore sia un'opera di misericordia. Come siamo anche convinti che una scuola in cui si formeranno dei giovani cristiani è anch'essa un mezzo di cui si serve la misericordia divina. In una società in cui le relazioni sono gestite in funzione di una razionalità redditizia, è, infatti, una grande misericordia aprire gli spiriti alla loro vera vita. Ed è indispensabile se si vuole che la misericordia stessa mantenga un senso e per ciò stesso l'evangelizzazione resti possibile. C'è stato bisogno che Gesù si valesse di una parabola per risvegliare il senso del prossimo nel dottore della legge che voleva giustificarsi. Nelle società in cui l'uomo non ha altro orizzonte che se stesso, e dunque si giustifica, è la stessa cosa. La missione della scuola non è forse quella di formare l'umanità dell'uomo?
Così, l'ospedale e la scuola sono legati, come efficacia e significato sono legati nel sacramento. La misericordia di Dio è esercitata dall'una e dall'altro grazie alla dedizione dei cristiani. Ed essa non può essere esercitata con l'una senza essere esercitata con l'altra, e reciprocamente, sotto pena di perdere la sua efficacia o il suo senso.
5. Per terminare questa meditazione sul buon Samaritano, bisogna ancora affrontare tre domande che sono legate l'una all'altra: quale è la fonte della sacramentalità, quale posto ha in essa la parabola, e qual'è il ruolo della Chiesa? Evidentemente possiamo trattare queste domande solo all'interno della parabola e per chiarirne maggiormente il significato.
Abbiamo notato il divario tra l'olio e il vino da una parte, e dall'altra l'acqua e il sangue che scaturiscono dal costato trafitto. L'olio e il vino prendono il loro significato di efficacia a partire dal corpo ferito dell'uomo. L'acqua e il sangue traggono il loro significato dal corpo morto e vivificante di Gesù, il Verbo Incarnato. Nella parabola che cosa fa sì che il corpo diventi una fonte di significato? Che cosa è che lo fa parlare?
L'uomo abbandonato mezzo morto parla per mezzo delle sue ferite, del suo sangue e della disperazione che in questo modo egli manifesta. Lui, il samaritano, sente questo linguaggio Perché è mosso dalla misericordia e fa parlare il suo corpo avvicinandosi, curando l'uomo ferito grazie a quei segni che sono l'olio e il vino, e infine deponendo l'uomo sul suo giumento e conducendolo all'albergo. Perché la misericordia fà sentire il linguaggio del corpo ferito? Perché essa avvicina all'uomo in quanto egli è ferito. Non avvicina ad un ferito - sarebbe commiserazione - ma all'uomo stesso e, poiché quest'uomo soffre, l'olio e il vino sono segni e mezzi della misericordia.
Non sono ancora sacramenti nel senso pregnante del termine. Tanto è vero che la misericordia è vicina all'uomo e trae dalla sua umanità ciò che può fare per l'uomo.
Un secondo aspetto merita la nostra attenzione. I sacramenti comportano un uso della parola, ed è la stessa cosa per il perdono che, come la confessione, si dà con la parola. Ora nella parabola (che ci parla anche di perdono), non abbiamo udito sino ad ora una sola parola. L'uomo ferito sembra ridotto al silenzio. Parla solo con le sue ferite e la sua disperazione. Il samaritano potrebbe parlare. Ma mosso dalla misericordia, egli è unicamente all'ascolto di quell'appello silenzioso proveniente dall'uomo mezzo morto. E gli parla con lo stesso linguaggio dei gesti, che è il linguaggio del corpo, cioè dell'uomo in quanto egli si fa vicino agli altri.
Abbiamo così reso conto del silenzio caratteristico della relazione tra l'uomo ferito e il Samaritano con il linguaggio del corpo? Una tale spiegazione può valersi di linguaggio simbolico. Si potrebbe anche fare appello alla nozione biblica di dabar: la parola è azione e per ciò stesso l'azione ha un significato.
Esiste tuttavia un silenzio che non è riducibile alla parola. Non è questo il caso della parabola? Se, in un certo modo, la disperazione del ferito parla, come parlano i gesti di misericordia, nondimeno essi restano muti, e il loro linguaggio è ascoltato nel silenzio. E la misericordia si muove proprio in quest'ambiente fatto di silenzio. Solo lei ascolta questo silenzio senza romperlo. Infatti, il Padre ascolta la preghiera silenziosa dell'uomo peccatore, che non ha più la forza di pregare. E la esaudisce per mezzo di suo Figlio, il Samaritano. Lui, il Verbo di Dio, ascolta il silenzio del Padre, che è il movimento della sua misericordia, e quello dell'uomo verso il quale la misericordia si dirige. Da tutta l'eternità, egli è all'ascolto del silenzio del Padre che è lo sgorgare originario della sua bontà, e proprio in questo ascolto egli è, in quanto figlio, il Verbo del Padre. Ora, questo sgorgare originario della bontà rifluisce verso il Padre a causa del peccato dell'uomo che colpisce questa bontà nella sua stessa sorgente, e esso si moltiplica nella misura in cui il cuore del Padre ferito si apre come sorgente di una bontà eccessiva Perché paterno, cioè appunto di misericordia. Questo sgorgare della misericordia, il Figlio l'ascolta nel suo silenzio di Verbo. in questo senso egli è mosso dalla misericordia e, con Io stesso movimento, si incarna, offrendosi a Dio per la salvezza dell'uomo peccatore. Il silenzio in cui egli entra ora, e nel quale egli si trova, non è più solo il silenzio costitutivo del suo essere di Figlio; egli è, in questo silenzio stesso, un silenzio che all'interno della misericordia, lo mette nella situazione dell'uomo peccatore davanti a Dio e lo pone così distante da Dio. Nel silenzio costitutivo del suo essere di Figlio, egli è parola nel silenzio della misericordia, egli è anche non-Parola. E come tale è lui che, da solo, porta l'uomo ferito sul suo giumento, fino all'albergo. Il giorno seguente egli parlerà all'albergatore per affidargli la cura del malato fino al suo ritorno. Ciò che Cristo ha fatto da solo per l'uomo dà così frutti nella sua Chiesa alla quale egli affida l'uomo fino al suo ritorno. Con la sua parola ciò che ha fatto per l'uomo come non-Parola è costituito come sacramento. in questo contesto si è tentati di vedere in questi due ultimi la conoscenza del Padre e del Figlio a cui la Parola del Figlio apre e a cui il sacramento fa accedere. In ogni modo è con la non-Parola e con la Parola del Figlio che si trasforma il linguaggio simbolico del corpo in sacramento, senza tuttavia sopprimerlo.
Mi sembra caratteristico della parabola il fatto che questo linguaggio non evochi il grande tema biblico dell'uomo e della donna come sorgente di questo linguaggio. Una parabola non può certamente evocare tutta la dogmatica cristiana. C'è tuttavia, una ragione per questa assenza che ci potrà poi penetrare ancora di più nell'intelligenza della parabola e del Samaritano quale estraneo che si avvicina all'uomo. Il samaritano è guardato dal Giudeo (il dottore della legge), come estraneo all'alleanza di Dio e d'Israele, al loro amore "sponsale" evocato da molti profeti. E Gesù, come Samaritano, si considera come un estraneo.
In realtà, egli è un vero Giudeo che accetta di assumere la rottura dell'alleanza e dell'adulterio d'Israele. "Si consegna" per Israele e per tutta l'umanità. L'amor sponsale appare con le sembianze dell'amore redentore e della misericordia, e non con le sue sembianze.
Deve essere restaurato dall'amore redentore e misericordioso, prima che esso possa essere messo in pratica e manifestarsi. Esso è al centro del duplice comandamento, e ne costituisce il collegamento. Ma proprio nella misura in cui l'autogiustificazione del dottore della legge - e di ogni uomo - tende a scindere i due comandamenti, il dottore della legge si allontana dal centro. Solo l'amore misericordioso del Padre e l'amore redentore del Figlio possono ricondurlo al centro.
Correlativamente, la Chiesa non appare come la Sposa di Cristo. Essa è innanzitutto l'ambiente umano in cui l'uomo attende il ritorno di Cristo: colui che era al margine della strada, ritrova un tetto e di che mangiare, ritrova l'ospitalità. Ma anche qui, ciò che era un gesto umano assume un valore salvifico: l'ospitalità acquista una nuova dimensione in virtù della missione affidata da Cristo: esercitare il ministero della misericordia grazie al Cristo stesso fino al suo ritorno. Offrendo l'ospitalità all'uomo peccatore, i sacramenti della misericordia sono dunque affidati al ministero della Chiesa.
Dopo aver fatto luce sulle dimensioni umana, cristologica e ecclesiale dei sacramenti, la parabola chiarisce infine la loro dimensione escatologica, sempre dal punto di vista della misericordia che ci fa avvicinare allo straniero. A causa della partenza di Cristo, il ministero è affidato alla Chiesa con i due denari e l'assicurazione di un rimborso futuro; esso sarà esercitato fino al ritorno del Cristo. Ciò che Cristo ha fatto per l'uomo assume tutto il suo valore solo nella prospettiva (escatologica) del suo ritorno.
Nella parabola la partenza del Samaritano, e il suo ritorno sono dati come un fatto, senza spiegazioni. Ma è evidente che questo è interiore alla misericordia e può essere compreso solo alla sua luce. Il tempo che trascorrerà tra la partenza e il ritorno è innanzitutto il tempo dell'uomo. Il samaritano gli dà il tempo di guarire. Questo tempo è il tempo della pazienza: con una pazienza divina, la Chiesa veglia sulla guarigione dell'uomo. Ma questo tempo è anche quello del Samaritano. E' misurato dalla sua partenza e dal suo ritorno, partenza e ritorno di cui egli è padrone. Perché egli decide di andarsene e di tornare? Di andarsene Perché egli continua il suo viaggio. Di tornare Perché egli ritornerà dal suo viaggio. Andando verso il Padre, Cristo si è offerto per l'uomo. Avendolo fatto una volta per tutte egli muore. Egli lascia il paese degli uomini, sparirà dalla nostra vista. Scomparsa del Samaritano: la sua morte vivificante sarà data dal ministero della Chiesa grazie ai sacramenti: l'uomo sarà così avvicinato dall'uomo per mezzo di segni di cui percepirà il significato umano, ma dovrà imparare a riconoscere il Cristo in questi segni, e la Chiesa dovrà imparare a servire solo Cristo, nell'uomo. La riconciliazione dell'uomo con l'uomo può essere vera ed efficace solo in Cristo, un Cristo invisibilmente presente.
Il Samaritano annuncia il suo ritorno, promettendo all'albergatore di rifondere quanto ha speso. La sua pazienza coincide con il dono che Gesù fa di se stesso. Il suo ritorno segna il tempo della guarigione dell'uomo. L'uomo non sarà convalescente per sempre. Verrà un tempo in cui egli sarà guarito. Questo tempo non è lasciato all'immaginazione dell'uomo, e dunque all'angoscia che provoca la morte con l'altalena delle vane speranze, dell'utopia e della disperazione. Il tempo della pazienza, durante il quale l'uomo si riconcilia con l'uomo in Cristo tramite il ministero della Chiesa, è anche il tempo della speranza E questa speranza mobilita le forze umane al di là della "copertura" dei due denari che il Samaritano ha accordato come un anticipo, come un qualcosa di cui ci si può valere. "Impendar et superimpendar" dice San Paolo, che è una raffigurazione dell'albergatore. Mosso dall'identica misericordia, appoggiandosi sulla promessa di Cristo il cui pegno è stato già ricevuto, Paolo spende senza limite nell'esercizio del suo ministero di riconciliazione verso l'uomo.
Supera la "copertura". completa in lui ciò che manca alla Passione di Cristo. E' certo che tutto sarà rimborsato da Cristo, al suo ritorno; coronando i nostri meriti, egli coronerà i suoi doni. Tuttavia, egli accetta d'avere un conto scoperto presso l'apostolo, di essere suo debitore. Segretamente egli Io spera. Perché la speranza non è solo quella che Cristo ci apre - e che rende ardente la carità - ma quella di Cristo stesso. Noi guariamo Perché egli spera la nostra guarigione.
E questa speranza ha la sua fonte nel cuore del Padre: è la misericordia, infatti, che "si" dà pazienza e spera.