Il male e il senso del peccato nella attuale cultura dell’innocenza

Giannino Piana

 

Qui si vogliono soltanto offrire alcuni spunti di riflessione sul tema del peccato, che consentano di inquadrare correttamente il discorso, che ha per oggetto l’annuncio dell’amore misericordioso di Dio all’uomo del nostro tempo. Credo sia importante sottolineare, fin dall’inizio, il legame profondo che unisce tra loro peccato e perdono. La percezione del peccato e della sua gravità diventa possibile solo nell’orizzonte della presa di coscienza dell’amore di Dio come amore misericordioso e perdonante. E, d’altra parte, il perdono di Dio può essere colto, nella pienezza dei suoi connotati, solo facendo riferimento alla condizione di peccato in cui l’uomo vive, mettendo, in altri termini, l’accento sullo stato di contrapposizione e di inimicizia in cui spesso si trova. Peccato e perdono - pur essendo realtà di segno opposto - si illuminano dunque, reciprocamente, sono i due poli attorno ai quali ruota l’intera storia della salvezza.

E’ questa - penso - la ragione per cui è opportuno partire dalla considerazione del tema del peccato, non per arrestarsi ad esso, ma per penetrare più profondamente nel grande mistero della misericordia di Dio e farne emergere le dimensioni più nascoste e più insospettate.

La proposta, che cercherò di fare, si articolerà in due fondamentali momenti. Nel primo metterò, anzitutto, l’accento sulle ragioni del peccato nell’attuale contesto sociale, segnato - come è nel titolo - dalla prevalere della «cultura dell’innocenza»; nel secondo mi sforzerò di individuare le prospettive per il recupero di un autentico senso del peccato oggi.

La crisi del senso del peccato oggi

Si può, in un certo senso, dire che il peccato più grave del nostro tempo - come già osservava nei lontani anni ‘50 Pio XII - è costituito dalla crisi del senso del peccato, dell’attuarsi cioè nella coscienza della percezione della sua gravità o addirittura dalla sua totale vanificazione.

Questo dato indubitabile, tuttavia, di essere accuratamente analizzato, perché se è vero che esso rappresenta l’aspetto più immediatamente rilevabile e più preoccupante messo in luce da ogni osservazione empirica - si pensi alle indagini sociologiche e agli stessi sondaggi di opinione relativi al costume morale - non è meno vero che esso è passibile di interpretazioni diverse a seconda dell’ottica di lettura che si privilegia. Così mentre, da un lato, è evidente, nel nostro contesto culturale, la caduta di tensione etica nell’ambito della sfera del «personale» - sfera che viene spesso privatizzata anche al livello del giudizio morale; risulta, dall’altro, più acuta che in altri tempi la tensione etica sul terreno dei problemi che riguardano l’importante campo della giustizia e delle relazioni sociali.

E’ come dire che ci troviamo di fronte ad una situazione ambivalente, prodotta da un complesso di fattori, che non possono essere letti con una chiave univoca, ma esigono di essere accuratamente esaminati nei risvolti positivi e negativi, nei rischi gravi che da essi possono derivare, ma anche nelle potenzialità positive che da essi possono sprigionarsi.

Cercherò schematicamente di far luce su alcuni di tali fattori che più hanno concorso a determinare lo sviluppo dell’attuale «cultura dell’innocenza», non senza evidenziare le è provocazioni feconde che da essi si sprigionano in ordine al recupero di una più autentica coscienza del peccato, sia sul piani quantitativo che qualitativo.

1. Il primo - e il più importante di essi, perché costituisce l’orizzonte di fondo entro il quale vanno collocate anche le riflessioni - è senz’altro rappresentato dal processo di secolarizzazione - tuttora in corso. Esso coincide con la caduta dell’universo simbolico religioso come universo di interpretazione globale dell’esperienza umana in tutta la ricerca e complessa gamma dei suoi significati. L’emancipazione dell’uomo e del mondo dal «divino», e perciò la rivendicazione della loro autonomia dei confronti di esso, è il risultato di un ampio iter storico, le cui origini vanno fatte risalire agli inizi dell’epoca moderna. Natura, politica, etica e cultura sono venute progressivamente distanziandosi dalla dipendenza sacrale, in cui erano state per tanto tempo mantenute. La scoperta delle leggi interne alla realtà ha consentito di far luce sui meccanismi che presiedono allo sviluppo del cosmo e alla stessa vita dell’uomo, imponendo la fuoriuscita da una visione fatalistica e alimentando il senso dell’impegno e della responsabilità storica.

Questo processo, che ha per molto tempo coinvolto soltanto alcune élites culturali, si è esteso, con l’avvento della società industriale e soprattutto con l’introduzione dei mass-media, all’intera popolazione dell’Occidente. L’assorbimento dei modelli della cultura di massa, anche da parte degli strati più popolari, ha comportato, come conseguenza, il diffondersi della mentalità secolare a tutti i livelli e la relativizzazione del problema religioso. La secolarizzazione non comporta, infatti, l’assunzione di un atteggiamento di rifiuto nei confronti di Dio - atteggiamento che qualificava l’ateismo militante del secolo scorso e degli inizi del nostro secolo - comporta più radicalmente, l’affermarsi di un atteggiamento di presa di distanza e di disinteresse. Dio non è più combattuto, ma viene semplicemente ignorato; la questione religiosa viene considerata come irrilevante e del tutto inutile per la vita dell’uomo.

E’ evidente che laddove il fenomeno della secolarizzazione si radicalizza produce la vanificazione della coscienza del peccato. Paradossalmente, un mondo senza Dio è anche un mondo senza peccato, se è vero che il peccato - come se lo presenta la Bibbia - è innanzitutto rottura del rapporto personale che lega l’uomo al suo Signore. E’ come dire che senso di Dio e coscienza del peccato sono tra loro strettamente dipendenti, che esiste un rapporto di proporzionalità diretta tra le due grandezze.

Si deve, tuttavia, osservare che il processo di secolarizzazione, ha anche avuto storicamente il merito di purificare la coscienza del peccato da appesantimenti sacrali, che, finivano per stravolgerne il significato. Grazie ad esso è, maturata la consapevolezza che occorre superare una concezione del peccato - per tanto tempo prevalente - che lo riduceva alla trasgressione della norma o al rifiuto dell’ordine stabilito imposto autoritativamente dall’alto. Anzi, è venuta facendosi strada la convinzione che si può peccare anche quando si concorre, con il proprio comportamento positivo o con la propria neghittosità, a mantenere in vita l’ordine costituito - magari sacralizzandolo -, se esso è di fatto costruito sull’ingiustizia e sulla sperequazione tra gli uomini. Il che ha contribuito non poco a far crescere la coscienza della propria responsabilità personale e ad alimentare lo sviluppo di una autentica considerazione della connaturale valenza religiosa del peccato stesso.

 

2. Il secondo fattore, che merita di essere preso in considerazione, è costituito dalla messa in iscacco della libertà. Le scienze umane, che hanno avuto in questi ultimi decenni un enorme potenziamento, hanno concorso ad evidenziare, in modo sempre più ampio e preciso, il complesso mondo dei condizionamenti, che sono alla radice del comportamento umano. Le scienze biologiche ci hanno svelato i meccanismi dell’istinto; le scienze psicologiche le dinamiche connesse con la storia della personalità; le scienze sociali le interazioni esistenti tra formazione della coscienza e strutture ed istituzioni entro le quali si sviluppa l’esperienza umana.

La mentalità positivista, che ha preso talora il sopravvento - soprattutto nel campo dell’applicazione dei dati di tali scienze, danno luogo ad un utilizzo dei risultati in chiave rigidamente ideologica - ha finito per interpretare il mondo interiore dell’uomo come epifenomeno o riflesso di un complesso intreccio di forze, che esulano totalmente dalla possibilità del controllo soggettivo. L’uomo viene ridotto - è questa la tesi dello strutturalismo - ad una sorta di macchina, il cui agire è deterministicamente guidato dalla presenza di meccanismi che interagiscono tra loro, nella più totale assenza della libertà.

E’ evidente che la messa in crisi radicale della libertà porta con sé la rinuncia alla possibilità stessa di parlare di peccato. Peccato e libertà sono grandezze direttamente proporzionali. Il peccato esiste soltanto laddove esiste la libertà e fin dove essa ha il potere di esplicarsi. Esso comporta, infatti, la responsabilità effettiva dell’uomo nella conduzione della propria vita, e dunque delle proprie scelte: responsabilità che è del tutto assente, dove l’agire umano viene considerato come pura espressione di condizionamenti esteriori.

E’ sintomatico che proprio questa crisi del peccato - dovuta alla messa in iscacco della libertà - si accompagni, nel nostro tempo, ad una crescita, vieppiù consistente, del sentimento di colpevolezza, che assume forme nevrotiche e preoccupanti. Non è difficile scorgere, dietro a ciò, la tendenza di ridurre, di fatto , il peccato al male. L’uomo, che non riesce più a dare spiegazioni del «negativo» esistente nel mondo, risalendo alla propria responsabilità, facendosene cioè carico, tende ad esteriorizzarlo, attribuendo fatalisticamente alla presenza di forze oscure e non dominabili. Ora, mentre il peccato, chiamando direttamente in causa la libertà umana, apre l’uomo alla speranza del suo possibile superamento; il male, non essendo in nessun modo, vincibile, perché non legato alla responsabilità umana, suscita sentimenti di passività e di rassegnazione, di angoscia e persino di disperazione. Il sentimento di colpevolezza è, di sua natura, paralizzante e, in definitiva, tragico.

E’, d’altra parte, doveroso riconoscere che lo sviluppo delle scienze umane ha dato un contributo altamente positivo alla stessa maturazione della coscienza del peccato. Di enorme importanza è la distinzione che oggi siamo in grado di fare tra coscienza del peccato e sentimento di colpevolezza. Non tutto ciò che in passato veniva considerato peccato era in realtà tale. Esistono situazioni nelle quali la colpa, di cui l’uomo si sente gravato, non deve, in realtà, essere addebitata alla responsabilità soggettiva, ma piuttosto a meccanismi indotti dall’esterno, dovuti al processo di sviluppo della responsabilità a forme di tabuizzazione prodotte dall’ambiente. Senza dire che il sentimento di colpevolezza ha una struttura egocentrica, è cioè la conseguenza di scacco che l’uomo vive in ordine alla propria autorealizzazione; mentre la coscienza del peccato ha una struttura teocentrica, è la risultante dell’esperienza della rottura della comunione con Dio. E, in altri termini, carico di una valenza religiosa.

Tale distinzione è importante non solo a livello della valutazione dell’agire umano; ma soprattutto sul terreno dell’intervento concreto a favore della persona, consentendoci di utilizzare terapie diverse a seconda delle situazioni.

3. In stretto rapporto con quanto è stato fin qui illustrato occorre collocare il terzo fattore dell’attuale crisi del peccato: il fenomeno cioè della politicizzazione. Si intende con ciò alludere al processo, tuttora in corso, di dilatazione e approfondimento della coscienza politica. La crescita dell’industrializzazione ha determinato la nascita di strutture sempre più complesse e tra loro interdipendenti. I diversi settori della convivenza umana appaiono tra loro sempre più strettamente collegati all’interno di un unico sistema; mentre, analogamente, crescono i rapporti di interdipendenza tra i popoli, tanto a livello economico quanto a livello sociale e culturale. La coscienza politica tende pertanto ad universalizzarli e, nello stesso tempo, emerge con chiarezza la percezione che le strutture della convivenza, lungi dal dover essere acriticamente accettate come dati fatalistici, sono il prodotto di scelte precise, dovute ad interessi personali o di gruppi di potere, che devono essere decisamente controllati. Di qui la necessità di un più consistente impegno partecipativo per orientare in modo corretto, la vita sociale, mediante un’equa distribuzione delle risorse e l’individuazione di un ordine economico e politico più giusto.

Il peso sempre più determinante delle strutture sulla conduzione della vita personale e sullo sviluppo degli stessi rapporti umani può ingenerare l’impressione dell’impotenza soggettiva. La tentazione è allora quella della collettivazione della colpa, cioè dell’attribuzione alla struttura sociale delle situazioni di ingiustizia esistenti. Che cosa è possibile fare, a livello personale, per evitare le sperequazioni esistenti tra popolo e popolo, tra Nord e Sud del mondo? Come è possibile ovviare agli esiti negativi di un sistema le cui logiche di potere - dato il complesso intreccio dei meccanismi che lo sostengono - sfuggono spesso alla conoscenza dei singoli? O come intervenire a cambiare la realtà, quando si è del tutto al di fuori del campo di gestione del potere costituito?

C’è il rischio dunque, che il peccato venga ridotto a fatto strutturale, determinando, nei singoli, stati di acquiescenza e di deresponsabilizzazione.

Ma occorre, anche a questo livello, sottolineare, come il processo di politicizzazione possa condurre ad una più precisa e più seria consapevolezza del suo significato e delle sue reali dimensioni. Si pensi al recupero della dimensione sociale - per troppo tempo ingiustamente ignorata - o all’acquisizione dell’importanza che rivestono i cosiddetti peccati di omissione. Nonostante le oggettive difficoltà di interrogarsi sulle proprie responsabilità in ordine a fenomeni che si verificano in paesi lontani e hanno radici strutturali complesse, non si può negare che sia, in questi anni, cresciuta la consapevolezza che è possibile peccare non soltanto compiendo azioni positive, che violano la legge di Dio, ma anche omettendo di fare, per pigrizia o per tornaconto personale, ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare.

4. Infine è importante richiamare l’attenzione - è questo l’ultimo fattore, anche se può sembrare anomalo rispetto agli altri ricordati, in quanto più che alla cultura in generale va riconnesso all’attuale status della ricerca teologica - su un importante dato del nostro tempo: l’affermarsi cioè di quella che K. Rahner ha definito come la mistica del peccato. Essa consiste in una sorta di accettazione del peccato, considerato come condizione quasi necessaria, perché l’uomo scopra la propria povertà e si apra incodizionatamente alla ricezione della salvezza, che è dono assolutamente gratuito del Signore. Il rifiuto della morale farisaica, fatta propria dallo spirito borghese, porta a vedere nel peccato una specie di «felix culpa», che consente all’uomo di abbandonare ogni atteggiamento di autosufficienza e di autogiustificazione e lo rende, di conseguenza, disponibile a lasciarsi fare ed amare da Dio.

C’è senz’altro una parte di verità in questa impostazione che risente - come è ovvio - dell’influenza esercitata dal protestantesimo su tutta la cultura dell’Occidente, e perciò sulla stessa teologia cattolica. E’ senz’altro vero che è più vicino alla salvezza, più capace di accoglierla, il pubblicano della parabola evangelica, che riconosce umilmente il proprio peccato e ne domanda perdono invocando su di sé la misericordia di Dio, di quanto, invece, non lo sia il fariseo, pago si se stesso, che si vanta davanti al Signore e pretende di aver acquisito la salvezza con i propri meriti, mediante l’osservanza della lettera della legge. E’ indubbiamente importante sottolineare la gratuità della salvezza e conseguentemente, il fatto che solo attraverso la fede, come fiducia in Dio e abbandono totale a Lui, è possibile acquisirla.

Ma non si può dimenticare l’importanza della risposta umana al dono di Dio. Esso fa, infatti, sempre e necessariamente appello alla risposta dell’uomo, chiama direttamente in causa la sua responsabilità, esige il suo consenso. D’altronde l’elogio del pubblicano non è approvazione del suo peccato, come l’elogio spesso fatto da Gesù della disponibilità di altre categorie di peccatori non è mai sottovalutazione del peccato, ma sollecitazione ad uscire da quella situazione in forza del dono di Dio. Forse l’aspetto più significativo di questi episodi è l’invito a guardare più in profondità al peccato, il quale non consiste primariamente nei singoli peccati, ma nell’indurimento del cuore, nella mancanza di fede, nella presunzione di poter liberamente disporre della salvezza, legandola alle opere e rinunciando così a fare spazio all’azione del Signore.

Gli spunti offerti ci consentono di percepire che le componenti sulle quali si è venuta costruendo la cosiddetta «cultura dell’innocenza»sono molteplici. L’averle, sia pure rapidamente, delineate ci consente di capire quanto profonda sia oggi la crisi del peccato, ma si immette nello stesso tempo, sulla strada di un suo possibile recupero. E’ quanto tenteremo di fare nella seconda parte.

Prospettive per il recupero di un autentico senso del peccato

E’ d’obbligo per il credente, quando intende definire il significato delle fondamentali categorie religiose, mediante le quali si esprime la propria fede, risalire anzitutto ai dati della rivelazione biblica. E’ tuttavia necessario ricordare che il carattere storico-salvifico, che la costituisce, non consente di rintracciare in essa definizioni teoriche e astratte, ma piuttosto descrizioni esistenziali, segnate come tali dalla cultura del tempo.

Ciò vale, ovviamente, anche per quanto concerne il mistero del peccato. Più che offrirci una definizione precisa di esso - quale ad esempio è dato di rintracciare nei catechismi o nei manuali di teologia - la Bibbia ci propone un’ampia serie di situazioni esistenziali di peccato, che ci consentono di penetrare nel vivo della condizione dell’uomo peccatore. Attraverso la loro penetrazione e la collocazione nel quadro complessivo della storia della salvezza, è possibile cogliere alcuni connotati, che qualificano la realtà del peccato in se stesso. Due sembrano essere, da questo punto di vista, gli aspetti salienti, che meritano di essere sottolineati.

Il peccato è, anzitutto, presentato come trasgressione della legge di Dio, come rifiuto da parte dell’uomo alla volontà di Dio, la quale si esprime attraverso i precetti che egli dà al suo popolo. In secondo luogo, il peccato viene colto - ed è questa la sua dimensione più profonda - come atto di rottura della relazione con il Signore. Lo sviluppo della rivelazione di accompagna alla progressiva evidenziazione di questo secondo aspetto, che assume un rilievo sempre più prioritario e decisivo. L’esperienza del patto sinaitico consente la messa a fuoco della relatività della legge morale. Essa, lungi dall’essere proposta come fine o come luogo di autogiustificazione, appare molto più semplicemente come strumento per la conservazione e l’approfondimento della comunione con Dio, vero fine della vita morale di Israele. La letteratura profetica approfondirà questa concezione, descrivendo l’alleanza attraverso l’immagine tipologica del patto nuziale che lega l’uomo alla donna. Il peccato viene pertanto, in questo contesto, descritto come adulterio, fornicazione, infedeltà: termini che ne mettono chiaramente a fuoco la dimensione relazionale. Dove poi questa concezione emerge, in modo definitivo, è nel NT. L’annuncio del regno di Dio da parte di Gesù esige l’accoglienza dell’uomo nella fede, cioè in una disponibilità totale a ricevere il «mistero». Il peccato è allora, anzitutto e fondamentalmente mancanza di fede; è il rifiuto che l’uomo oppone al disegno di Dio così come si è definitivamente rivelato in Cristo.

Si potrebbe continuare, in questa analisi, mettendo in evidenza altri aspetti del peccato presenti nella Bibbia: si pensi soltanto alla dimensione sociale e cosmica. Ma non è questo il compito precipuo che ci siamo proposti. Ci preme maggiormente dare qui conto di alcune dimensioni del peccato che la riflessione teologica è venuta recuperando, grazie anche alle provocazioni culturali ricordate, e che esigono di essere riproposte nel quadro dell’azione pastorale, in particolare della catechesi. Forse l’averle per troppo tempo sottaciute è una delle ragioni della attuale crisi del peccato, di cui si è parlato.

1. Il primo passo da compiere è quello di restituire al peccato la sua dimensione religiosa. E’ come dire che il peccato deve essere, anzitutto, considerato una grandezza religiosa prima ancora e più ancora che una grandezza etica o giuridica. La percezione del peccato è possibile solo laddove l’uomo è cosciente del suo «stare davanti a Dio», dove matura, in altri termini, la convinzione nelle coscienze che l’intera esistenza altro non è se non lo svolgersi di una storia che ha in Dio il suo fondamentale riferimento. Il Dio della Bibbia non è , infatti, un Dio lontano, separato dalla vita; è il Dio che si è immerso profondamente nella storia dell’uomo, fino al punto di farsi storia in Gesù Cristo. E’ dunque un Dio che è dentro la vita e che, proprio per questo, orienta di continuo l’uomo a trovare nel rapporto con lui il senso delle sue scelte. L’aver eccessivamente accentuato, nella presentazione del peccato, la dimensione legale a scapito di quella religiosa è tra le cause forse più decisive (lo rileva il Regnier) della perdita del senso del peccato da parte dell’uomo contemporaneo. In un tempo come il nostro, nel quale si assiste ad una consistente relativizzazione della legge come degli ordini costituiti, il mantenere prevalentemente il peccato entro la sfera legale, significa concorrere a svalutarne la portata, fino a renderlo del tutto irrilevante.

D’altra parte, la storia della tradizione cristiana documenta ampiamente il primato della dimensione religiosa. Il peccato di origine, che non è soltanto la causa ma anche il modello di ogni successivo peccato dell’uomo, non consiste prevalentemente nella trasgressione del precetto - questo non è che l’aspetto più superficiale; consiste, invece, più radicalmente, nella decisione dell’uomo di porsi sullo stesso piano di Dio («volevano essere come Dio»), nella non accettazione della dipendenza creaturale, che trova espressione nel fatto che l’uomo vuol diventare arbitro del bene e del male («volevano conoscere il bene e il male», dove il termine «conoscere» in linguaggio semitico sta per «decidere»). E’, in altri termini, peccato di idolatria, anzi di autoidolatria. L’uomo, creato da Dio, e perciò da lui dipendente nella stessa vita, è chiamato ad entrare in una profonda comunione con il suo Creatore: il peccato implica il passaggio dallo stato di amicizia allo stato di rivalità e di contrapposizione.

Analogamente, il profetismo insiste sulla visione del peccato come idolatria, mettendo l’accento sul fatto che essa può svilupparsi non soltanto attraverso la forma più banale del rendimento di culto alle divinità straniere o della costruzione dell’idolo, ma soprattutto attraverso la materializzazione delle istanze della legge o l’offerta di un culto puramente formale ed esteriore, dal quale è del tutto assente l’offerta del cuore. La conversione è pertanto proposta come il «fare ritorno a Dio», il volgere le spalle agli idoli morti per dire il proprio sì incondizionato al Dio della vita e della storia. E’ dunque conversione religiosa prima che morale. Il che non esclude la necessità della osservanza della legge, la quale acquista tuttavia significato in quanto concreta espressione della volontà divina.

Nel Nuovo Testamento sono soprattutto Paolo e Giovanni a dare spazio a questa dimensione. Per il primo il peccato è l’opposizione alla lotta escatologica, inaugurata dal Figlio dell’uomo contro le forze del maligno presenti nel mondo; è il rifiuto della grazia della salvezza che Gesù ha portato agli uomini. Il secondo riconduce, invece, il peccato all’infedeltà, all’incapacità cioè di andare oltre il «vedere» per «credere», aderendo alla realtà misteriosa del regno e partecipando delle vita eterna, comunicata all’uomo mediante la venuta di Cristo.

Il recupero della dimensione religiosa del peccato esige che si riscopra nel nostro contesto culturale, in modo più preciso, la centralità del problema di Dio. Non si tratta di riproporre una visione «sacralizzata» della vita, per la quale Dio occupa tutto lo spazio o l’area dei significati della vita quotidiana; si tratta piuttosto di restituire a Dio il giusto posto in ordine alla risposta alla domanda fondamentale che ogni uomo non può non porsi: quella relativa al senso ultimo della propria esistenza. La risuscitazione del senso di Dio diviene la condizione indispensabile per dare consistenza all’esperienza del peccato e soprattutto per far sì che l’uomo ne colga l’aspetto più profondo e più vero.

2. Ma il peccato deve anche essere riscoperto ai nostri giorni - è questo il secondo passo da attuare - nella sua valenza sociale e cosmica. Nel racconto del primo peccato tale valenza è ampiamente presente. La rottura da parte dell’uomo del proprio rapporto con Dio porta con sé uno stato di profonda conflittualità negli stessi rapporti coi fratelli e con la natura. Essa coincide con la perdita della solidarietà originaria - Adamo ed Eva si accusano reciprocamente - e della spontaneità (erano nudi e sentono il bisogno di coprirsi). I successivi capitoli del libro della Genesi non sono che la descrizione dello stato di tensione e di lotta, che attraversa la storia dell’umanità: dell’omicidio perpetrato da Caino nei confronti del fratello Abele, alla costrizione della torre di Babele, che è il simbolo dell’incomunicabilità umana, conseguenza della sfida lanciata verso Dio. Anche la natura sembra essere coinvolta in questo processo di immani proporzioni. La ribellione degli animali, la fatica del lavoro e la sofferenza che accompagna il parto sono altrettanti «segni» di una situazione di squilibrio prodotta dal peccato, che ha la sua radice nella lacerazione interiore dell’io umano.

Il dilagare dell’ingiustizia nel mondo, che porta a calpestare il diritto dei poveri, è stigmatizzato dai profeti come diretta conseguenza dell’idolatria. L’uomo, che non riconosce il primato di Dio, alimenta dentro di sé la tendenza egoistica, che lo conduce a forme di continua prevaricazione sugli altri. Nel mondo vengono così ad instaurassi situazioni sempre più allargate di oppressione, che si esprimono anche attraverso dati strutturali. La storia appare segnata dalla presenza del mistero del male, continuamente alimentato dai peccati dei singoli e dei gruppi sociali.

S. Paolo descriverà, proprio per questo, l’umanità come assoggettata alla pressione di forze oscure, che trascendono la pura e semplice volontà del singolo. Lo stato di morte - intesa come morte fisica e spirituale in cui il mondo vive - si ripercuote sull’esistenza di ogni uomo. Un dramma cosmico, di immani proporzioni, segna la condizione umana. L’uomo è incapace, da solo, di liberarsene: ha bisogno di una liberazione dall’alto, dell’intervento di Dio, che ne rinnovi radicalmente l’essere e l’esistenza. La redenzione, portata da Cristo, assume i connotati di un’immensa opera di restaurazione, che coinvolge la stessa natura, la quale attende, come sotto le doglie del parto, la piena liberazione dei figli di Dio.

L’attenzione alla dimensione sociale del peccato si è fatta, ai giorni nostri, più intensa. E’ tuttavia importante precisare i diversi livelli, che la devono caratterizzare. Si deve, anzitutto, rilevare come essa è una dimensione costituiva del peccato, che, in quanto tale, attraversa indiscriminatamente tutti i peccati dell’uomo. Anche l’azione apparentemente più «privata» - compresa quella che si consuma nell’intimo della coscienza (si pensi ai peccati di intenzione o di desiderio) - contiene un inevitabile risvolto sociale. La solidarietà, che unisce la famiglia umana e che per il credente si esprime nella verità della comunione dei santi o nel mistero del corpo mistico, determina l’esistenza di un flusso, positivo o negativo, di ogni atto umano nei confronti degli altri. L’agire umano non è mai il prodotto di un individuo isolato, ma di una persona che è, por definizione, soggetto di relazioni. Ciò significa che la dimensione sociale del peccato va, in primo luogo, identificata con l’aspetto trascendentale dell’agire umano negativo, e, come tale, va addebitata a tutto l’agire umano.

Non si può dimenticare che esistono dei peccati che hanno un contenuto più specificatamente sociale e che meritano, per questo, una riflessione particolare. Si pensi ai peccati contro la giustizia, così largamente presenti nel mondo contemporaneo. L’attenzione privilegiata, che veniva in passato riservata ai peccati riguardanti la sfera della vita privata, deve essere corretta introducendo una maggiore considerazione relativamente ai problemi concernenti la vita pubblica dell’uomo. Un capitolo che merita, al riguardo, particolare attenzione è quello dei cosiddetti peccati di «omissione», quali l’assenza di impegno e di partecipazione alla vita politica, la mancanza di solidarietà e di assunzione di responsabilità nei confronti delle istituzioni, all’interno delle quali si sviluppa la convivenza umana.

A queste forme di peccato è possibile riconnettere anche un altro aspetto del peccato sociale, che viene giustamente definito peccato «strutturale». Si tratta delle oggettive situazioni di ingiustizia, provocate dal cristallizzarsi di strutture, che generano forti condizionamenti negativi, soprattutto per i più poveri e i più deboli. E’ evidente, in tal caso, la difficoltà di risalire immediatamente alle responsabilità individuali, tanto in ordine alla loro insorgenza quanto in ordine al loro mantenimento. Come d’altronde, evidente la differenzazione dei livelli di responsabilità: differenziazione dovuta al diverso grado di potere dei singoli. Rimane, in ogni caso, il peso oggettivamente determinante di tali situazioni e la necessità di tenere conto tanto nella valutazione dl comportamento di chi ne subisce le conseguenze quanto nell’analisi del coinvolgimento di responsabilità di ogni cittadino, chiamato a collaborare, a partire dalle proprie possibilità, alla costruzione di un ordine giusto.

3. La riflessione sulle responsabilità individuali - sempre esigita perché si possa parlare di peccato - ci pone infine di fronte ad un altro passo da fare nel recupero del senso del peccato: l’acquisizione cioè della sua dimensione personale. La ricerca etica ha notevolmente approfondito, in questi ultimi decenni, la valenza formale-personale dell’agire umano. Reagendo nei confronti di un’impostazione oggettivo-materiale del fatto etico, che finiva per cosificare ed atomizzare l’agire dell’uomo - era questo il modello soggiacente alla cosiddetta «morale degli atti», per la quale contava soprattutto e persino esclusivamente la conformità dell’atto, singolarmente assunto, alla norma etica - l’etica ha notevolmente concorso a mettere a fuoco il rapporto dell’agire con la persona e con il suo mondo interiore, perciò con le intenzioni soggettive e con il progetto complessivo di esistenza. E’ emerso in tal modo come l’agire umano deve essere considerato come luogo dell’autorealizzazione personale, che si dispiega nel tempo sulla base di scelte fondamentali fatte dalla persona. La teoria dell’opzione fondamentale, spesso proposta dai moralisti, aveva come obiettivo essenziale quello di mettere in luce questo aspetto profondo dell’agire che radicalmente lo qualifica.

Il peccato appare, d’altronde, nel quadro della proposta biblica, come espressione della libera decisione umana. E’ per così dire una possibilità data all’uomo nell’atto stesso in cui viene creato da Dio come essere libero. Il primo peccato è l’esercizio negativo della libertà. Ma l’insistenza sulla dimensione personale è soprattutto sviluppata dal profetismo mediante una sempre più accentuata sottolineatura dell’esigenza di interiorizzazione della vita, che troverà in Cristo il suo acme. L’osservanza materiale della legge può diventare inconsistente, e persino dannosa, se non si accompagna al dono del cuore, se non è attenzione allo spirito che la deve animare. Rifiutando la mentalità legalistica dei farisei, il loro formalismo esteriore, Gesù mette in luce la preminenza dell’intenzione, di ciò che esce dall’uomo; e riassumendo tutto il contenuto della morale veterotestamentaria nell’unico grande comandamento dell’amore, egli evidenzia come ciò che conta non è tanto l’adesione ai singoli valori e l’osservanza delle singole norme, ma è il dono di sé. Dare se stessi è molto più che dare qualcosa; le due cose sono qualitativamente diverse, e perciò non comparabili. Certo il dono di sé ha bisogno di estrinsecarsi negli atti della legge; ma questi ultimi, da soli, non sono in grado di determinare a bontà dell’agire umano.

E’ evidente che un analogo discorso vale anche per l’agire negativo, cioè per il peccato, la cui ultima e decisiva chiave di interpretazione rimane l’intenzionalità negativa del soggetto, l’atteggiamento di egoismo che lo connota e il grado più o meno consistente di tale atteggiamento. Di qui la necessità di un forte recupero della libertà contro le tentazioni ricorrenti di una sua negazione o, quanto meno, di una sua profonda attenuazione. ma di qui anche l’esigenza di tener presente che il recupero della libertà deve avvenire nel contesto di una visione globale dell’uomo come persona, perciò come essere storico che costruisce progressivamente e in modo sempre incompleto, la propria esistenza. Il che rende ovvia la necessità di considerare seriamente il condizionamento che sempre si esercita sull’agire umano. Il giudizio etico deve allora privilegiare il comportamento complessivo rispetto ai singoli atti, ma soprattutto deve tendere a risalire all’atteggiamento di fondo per cogliere la consistenza vera del peccato e fornire all’uomo la possibilità do avviare il processo opposto della conversione.

Abbiamo così tentato di illustrare alcuni aspetti della crisi del peccato nel nostro tempo e messo in luce alcune dimensioni, che devono essere recuperate, se si vuole uscire dal tunnel dell’attuale «cultura dell’innocenza». Ci preme, in conclusione sottolineare quanto già in partenza abbiamo ricordato: l’esperienza del peccato e del suo superamento sono, in ultima analisi, legate all’esperienza dell’amore di Dio, e dunque alla certezza, che l’uomo acquisisce nella fede, della sua infinita misericordia e del suo assoluto perdono.