Il sacramento del perdono
Zoltan Alsezeghy
Premessa
Il Concilio Vaticano II parla di tre modi coi quali la tradizione apostolica, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, progredisce nella Chiesa. «La comprensione infatti, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro della verità» (Dei Verbum, n.8).
Questo testo traccia un programma per penetrare maggiormente nel senso di alcuni aspetti della dottrina della Chiesa: lo seguiremo anche noi, nell’intento di chiarire meglio la natura e il significato del sacramento del perdono.
Non si tratta di tre modi adeguati, dei quali ciascuno può scegliere quello che crede per comprendere il fenomeno del progresso dogmatico. Coloro che studiano che vivono un’esperienza, che insegnano come maestri della Chiesa, non sono pensati come tre gruppi distinti di persone. E’ vero che uno studioso può fare ricerche utili senza essere un contemplativo; e un contemplativo può penetrare nel senso dei miseri anche se non ha compiuto studi speciali; e nessuno dei due ha bisogno, per soddisfare il suo anelito di comprendere, della autorizzazione o della missione del Vescovo. Aggiungiamo che il Vescovo può esercitare il suo compito di maestro della sua chiesa anche se non é uno studioso o se, per sua sventura, avesse perduto la grazia santificante. Tuttavia, benché questi casi limiti siano possibili, la soluzione ideale si ha quando una stessa persona procede per tutte e tre le vie: i santi Padri della Chiesa antica cercavano l’intelligenza della fede allo stesso tempo come studiosi, come contemplativi e come maestri mandati ad annunciare il messaggio della salvezza.
La divisione delle tre vie dell’intelligenza della fede non implica neppure la divisione di tre gruppi di verità, accessibili per l’una o per l’altra via. Il Magistero della Chiesa, infatti, spesso conferma e difende verità elaborate per mezzo di una riflessione scientifica o rivelate per mezzo del «senso della fede» del popolo credente; lo studio scientifico non raramente legittima, sul suo livello, affermazioni già pronunciate dal Magistero, o recepite dall’intuizione dei fedeli; e il «sensus fidei» per lo più riassume, gusta e approfondisce ciò che il Magistero ecclesiastico ha già proclamato e la ricerca teologica ha scoperto.
La distinzione delle tre vie diventa più chiara, se teniamo conto della triplice funzione di ogni discorso umano. Chi parla constata qualche aspetto della realtà, esprime qualche aspetto della sua interiorità e appella al comportamento adeguato di chi lo ascolta. L’indole specifica del discorso dipende dalla prevalenza di qualche aspetto e della posizione subordinata di altre funzioni. Nel discorso scientifico prevale la funzione constatativa e quasi spariscono le altre funzioni; in un comando appare quasi esclusivamente l’appello alla presa di posizione di colui che lo riceve; nel discorso poetico l’elemento decisivo é la comunicazione della propria intimità.
Applicando questo schema alle altre vie del progresso nell’intelligenza della fede, possiamo dire che il discorso magisteriale appella sopra tutto alla fede e alla conversione: il kerygma e la didascalia primordiale annunciano le verità in quanto sono postulati della conversione, poiché se non fossero vere l’appello alla conversione non sarebbe ragionevole. Il parlare del teologo é di sua natura constatativo, perché lo studioso analiticamente mette in evidenza che le fonti implicano una affermazione riguardo alla realtà (oppure, che determinate fonti non hanno alcun rapporto con qualche aspetto della realtà). Il discorso teologico nutrito dal «sensus fidei» espone la «sacra dottrina» sotto il profilo del suo rapporto alle esigenze delle esperienze interiori del credente: se il credente non afferma certe proposizioni come vere, il suo atteggiamento, riguardo ai misteri, percepiti sopra tutto come valori, non sarà autentico.
E’ utile distinguere le tre funzioni discorsive e le tre corrispondenti vie del progresso dell’intelligenza della fede, poiché la loro struttura ci aiuta a comprendere il rapporto delle varie enunciazioni intorno a qualche aspetto del mistero della salvezza.
La predicazione magisteriale
Il primo aspetto della penetrazione ecclesiale nel senso del messaggio della salvezza é la predicazione dei successori degli apostoli: Apparentemente quest’affermazione é contraddetta dall’esperienza, poiché la presa di posizione del magistero spesso é il coronamento di un lungo processo di chiarimenti progressivi, promossi dallo studio e dall’esperienza religiosa. In verità, la forma più importante dell’esercizio del magistero ecclesiastico non si trova negli atti straordinari, con cui certi aspetti asserti sono respinti come falsi e certi altri proclamati come veri. L’annuncio primordiale, che é fondamento di ogni ulteriore ragionamento e contemplazione, schiude la realtà salutare nel suo insieme come rivelata da Dio: la difesa, lo sviluppo, l’applicazione di qualche aspetto particolare di questo annuncio primordiale, del «kerygma», formano fasi posteriori dell’insegnamento magisteriale.
L’annuncio fondamentale, riguardo al sacramento del perdono, proclama una doppia verità di fede. La prima si riferisce alla possibilità di riacquistare la partecipazione alla vita divina, concessa nella prima giustificazione e perduta per un peccato commesso dopo il battesimo; la seconda riguarda l’aspetto ecclesiale di questa seconda giustificazione.
Il credente che ha commesso un peccato mortale dopo la prima giustificazione non resta membro vivo della santa Chiesa, la cui anima é lo Spirito Santo ; ma non ne é neppure definitivamente espulso! Egli può convertirsi per opera dello Spirito Santo, che non abita più in lui, ma che lo attira quasi dal di fuori, perché consentendo liberamente alla grazia di Dio, di nuovo torni ad essere membro vivo, animato dallo Spirito del Corpo di Cristo. L’annuncio di questa lieta novella é contento nell’intimazione a convertirsi, rivolta indistintamente a tutte le persone viventi sulla terra, le quali sono invitate a percorrere le varie tappe della fede dogmatica, del timore, della speranza fiduciosa, del buon proponimento, fino all’amore di Dio, fonte di ogni giustificazione.
All’inizio del secolo, durante la crisi modernista, era una dottrina quasi comune di tutti gli studiosi non illuminati dal Magistero ecclesiastico, quella di ritenere che le fonti della fede conoscono una sola possibilità di giustificazione e che il battezzato peccatore non ha più la speranza di riconciliarsi con Dio sulla terra. Oggi il pendolo va verso l’estremità opposta: tra coloro che non stanno sulla base dell’annuncio acclesiastico si diffonde la persuasione che la giustificazione una volta ricevuta non va più perduta, neppure per un peccato grave e deliberato, se non forse per l’apostasia. L’invito ecclesiastico di convertirsi afferma implicitamente che il peccatore ha bisogno di essere giustificato ed ha tale possibilità, e questo annuncio é fondamentale per tutta la teologia del sacramento del perdono.
Dall’altra parte ogni grazia é un dono ecclesiale, poiché Dio comunica la vita soprannaturale in virtù della mediazione della Chiesa la quale coopera alla conversione dei peccatori con la sua testimonianza, con la preghiera, con i suoi meriti, con il suo sacrificio. In modo particolare, la giustizia stessa é un dono ecclesiale, perché lo Spirito Santo é l’anima della Chiesa e la partecipazione alla vita divina, effettuata nella giustificazione, significa essere partecipi della vita della Chiesa. Ora la Chiesa non subisce passivamente che qualcuno cominci ad essere animato dalla sua anima: é il capo della comunità ecclesiale che introduce di nuovo il penitente nell’intimità viva della comunità dei credenti. All’inizio di questo secolo, anche questa dottrina é stata vigorosamente contestata da coloro che non vivono nella luce del Magistero ecclesiastico, perché si é pensato che, secondo le fonti della fede la seconda giustificazione, se avveniva per il comportamento individuale, non per la mediazione della Chiesa; e se la Chiesa aveva qualche parte nel processo del secondo perdono, sarebbero stati i profeti carismatici o i martiri a promuovere la riconciliazione con Dio, non i vescovi, nella loro qualità di capi della comunità ecclesiale. La dottrina sull’efficacia e sulla necessità della mediazione ecclesiale per il perdono dei peccati commessi dopo il battesimo, é contenuta di nuovo implicitamente nell’invito ecclesiale di rivolgersi alla Chiesa per ottenere la pace con Dio.
Specialmente nel Concilio di Trento, la Chiesa insegna molte verità sull’esistenza, sulla natura, sull’efficacia, sulle esigenze, sull’indole sacramentale del perdono. Queste verità non sono altro che postulati dell’annuncio fondamentale sulla necessità e sull’efficacia della conversione celebrata con l’aiuto della Chiesa e nella Chiesa, postulati messi in evidenza dalla riflessione teologica e dal senso della fede. L’autorità magisteriale della Chiesa riafferma la validità di questi postulati, perché nel contesto culturale posteriore, in vista degli errori propagati in questa materia, la conoscenza anche esplicita di questi postulati é diventata necessaria, perché i credenti fossero confermati nella fede e gli erranti fossero richiamati all’integrità della dottrina evangelica.
La riflessione teologica
La descrizione della funzione della predicazione magisteriale fa comprendere come dobbiamo concepire la parte che lo studio teologico ha nel progresso dogmatico, per cui la Chiesa progressivamente schiude il pieno significato della Tradizione apostolica. Questo studio teologico non é un lavoro puramente razionale, posto accanto all’annuncio ecclesiale del vangelo. Il kerygma primordiale é il terreni, su cui lo studio costruisce il suo edificio intellettuale; é l’orizzonte in cui la riflessione si sviluppa, in modo tale che la riflessione né ripete semplicemente ciò che é ascoltato nella fede, né vi aggiunge nuovi elementi indipendenti da esso, ma sviluppa ciò che é stato presente fin dall’inizio, non esplicitamente, ma quasi in germe.
Il Concilio Vaticano I indicò tre modelli, per cui questa «esplicitazione» si svolge. Lo studio di chi riflette sull’annuncio sviluppa il dato esplicito, in prima linea, in quanto lo confronta con l’ordine naturale dell’universo, conosciuto dall’esperienza; in secondo luogo, lo confronta con altri aspetti del mistero soprannaturale, anch’essi esplicitamente esposti nella Scrittura fonte della fede; in terzo luogo lo paragona con Dio, salvezza della creatura razionale, nella cui conoscenza sboccano tutti gli aspetti della rivelazione. Proprio perciò il Magistero ecclesiastico, che spiega e difende l’annuncio primordiale, può riepilogare le varie affermazioni elaborate dalla riflessione teologica analitica nella sua sintesi, riconoscendo in essi il frutto di uno sviluppo legittimo del suo oggetto proprio.
1) Il contributo della riflessione teologica all’intelligenza del perdono del peccato connesso dopo il battesimo, consiste sopra tutto nell’introduzione della categoria del sacramento, cioè di una realtà creaturale, adoperata da Dio, per donare la salvezza soprannaturale.
Dio costituisce il suo mondo servendosi delle sue creature, alle quali Egli dona l’essere e l’agire, e ch’egli inoltre eleva, trasforma, involve con la sua azione, in modo tale che esse producano che provengano dalle creature, ma che le creature, lasciate sole, non potrebbero produrre, perché superano la possibilità delle capacità creaturali.
Un tal uso trascendentale della realtà immanente si ha già nella creazione evolutiva dell’universo materiale. Le realtà primordiali producono esseri sempre più perfetti, sempre più differenziati e strutturati. L’evoluzione della materia dal campo energetico primitivo, l’origine della vita, l’apparizione di specie viventi sempre nuove, si svolgono secondo le leggi della fisica, della chimica, della biologia; ma, sotto l’aspetto metafisico tutto ciò é comprensibile solamente se Dio coopera continuamente con gli esseri inferiori, perché questi «diano ciò che essi stessi non hanno» e superino se stessi. Dio, con la sua casualità «principale», muove e anima la casualità «strumentale» delle creature, per produrre il mondo, quale noi lo conosciamo.
Secondo il piano divino il mondo dell’uomo in modo particolare dovuto essere prodotto, con la collaborazione divinamente potenziata dell’uomo stesso. Il dogma del peccato originale, che spiega perché l’uomo non corrisponde all’intenzione del creatore, rivela, attraverso il fallimento di una mediazione creaturale, il progetto divino che intendeva costruire la figura definitiva dell’uomo per la mediazione strumentale dell’uomo stesso. Ciò che «Adamo» ha distrutto per il suo peccato ci fa comprendere ciò che egli avrebbe dovuto costruire in fedele ubbidienza.
Ma Dio non cambia il suo progetto per la colpa dell’uomo. L’artefice che restaura la sua opera («formam reformans artefix»), santifica l’uomo peccatore, servendosi della stessa realtà. La fedeltà dei Padri diventa strumento nelle mani di Dio per benedire i figli. In Abramo, «amico di Dio», furono benedette «tutte le generazioni». I fedeli servitori di Dio (profeti, re, sacerdoti) ottennero la speranza di salvezza perché Dio, fedele alle sue promesse, suscita per opera loro un «resto» del popolo eletto che cammina per la via della giustizia.
La stessa umanità del Salvatore, causa della nostra salvezza, non é stata creata immediatamente e interamente da Dio, ma nasce come «figlio di donna»: la maternità divina della Madonna é un esempio finora mai raggiunto della casualità strumentale umana, di cui Dio si serve per infondere senza l’intervento trascendentale di Dio.
La realtà «teandrica», divina e umana di Cristo, a sua volta é il «sacramento primordiale», una realtà visibile che manifesta l’opera dell’onnipotenza misericordiosa, e per cui l’onnipotenza misericordiosa salva l’uomo. Coloro che seguono Gesù per una vita di carità per questa vita visibile testimoniano la presenza della giustizia invisibile, e la sequela é un mezzo efficace per raggiungere la salvezza. Proprio la «mediazione» di Cristo rivela infatti l’indole particolare per cui la creatura diventa «mezzo» della salvezza divina. Non si tratta di un intermediario che separa, che sostituisce la presenza divina, ma di un mezzo che congiunge e fa presente, poiché proprio nella creatura «mediatrice», Dio vuole diventare immediatamente presente e efficacemente operante in coloro che accolgono la mediazione da Lui scelta.
Ora, l’economia della salvezza operata da Dio per la mediazione creaturale, si continua, nel Nuovo Testamento, nel mistero della Chiesa.
Dio vuole salvare i suoi eletti, non nell’isolamento individuale, ma in una comunità soprannaturale. Essi sono pecorelle di un gregge, tralci di una vite, pietre di una costruzione viva, membra di un corpo. L’appartenenza alla comunità visibile dei discepoli di Cristo è un segno efficace della grazia, manifesta la presenza germinale della salvezza, ma é anche un mezzo per cui Dio fa crescere e costruire l’interiorità soprannaturale dei singoli. la Chiesa è dunque un «sacramento primordiale», un segno manifestativo e un mezzo efficace della salvezza. Perciò accogliamo rispettosamente la frase tradizionale secondo cui: «fuori della Chiesa non vi é salvezza», non nel senso come se non ci si possa salvare fuori dell’unione visibile della Chiesa, ma in quanto ogni realtà e ogni evento salutare dipende dalla mediazione della Chiesa visibile. Infatti anche coloro i quali non hanno mai sentito parlare della Chiesa e anche coloro i quali, pur conoscendo la Chiesa, senza loro colpa non riescono a riconoscere in essa la comunità dei discepoli di Cristo, ricevono la grazia che li salva, in virtù della preghiera, del sacrificio, dei meriti della Chiesa.
La mediazione sacramentale della Chiesa culmina nei sette riti che in senso proprio chiamiamo «sacramentali». Essi, per il linguaggio simbolico dei riti religiosi, manifestano un determinato aspetto della salvezza operata da Dio, ma sono anche gli strumenti per cui Dio opera la salvezza. Ciò succede anche nel sacramento del perdono. La Chiesa, per la persona di colui che presiede la comunità, riceve il peccatore di nuovo come suo membro vivo; ciò implica in qualche modo l’ammissione alla comunità eucaristica; ma il segno della riammissione ecclesiastica é portatore, strumento, organo dell’opera di Dio, il quale fa sì che il peccatore diventi veramente membro vivo della Chiesa, in quanto tempio dello Spirito Santo, «luogo» spirituale, in cui la SS Trinità abita.
2) Il secondo contributo della ricerca teologica per l’intelligenza del perdono della colpa commessa dopo il battesimo, si riferisce al rapporto tra volontà salvifica di Dio e la volontà di chi si converte a Dio, cioè alla «synergeia», alla cooperazione tra la volontà divina e la volontà umana.
Neppure Dio può perdonare una colpa, finché il peccatore non si converte. Infatti Dio, che sa tutto, non può chiudere l’occhio dinanzi alla colpa che resta nel cuore umano, e il Santo non può abbracciare a sé come suo amico una persona che non vuole essere amico di Dio. Dall’altra parte, l’amore di Dio può essere infuso nel cuore umano senza la libera accoglienza di questi solamente come una possibilità, una capacità, non come una vita vissuta. Dio trasforma il peccatore in giusto in quanto, cambiando la sua libera volontà, gli fa amare Dio, come suo sommo bene. Il processo per cui l’amore di Dio s’impadronisce di una creatura, può essere pensato soltanto nella categoria della casualità strumentale. Dio suscita nel cuore umano un certo amore iniziale di sé; questo amore ancora impuro e imperfetto é una «disposizione», una qualità per cui il soggetto diventa capace di ricevere ulteriori dono, forme più pure e più perfette dell’amore. All’inizio l’uomo ama ciò che Dio ama, ma non lo ama per la ragione per cui Dio lo ama: egli vuole Dio per sé, come un suo bene, in virtù di un certo amore proprio che é giusto, ma non é ancora perfetto. Ma chi ama Dio così, può passare ad un grado superiore dell’amore, in cui vuole Dio non solamente perché é un valore per l’uomo, ma anche perché é un valore in se stesso.
Dio in un primo tempo dona dunque al peccatore la volontà di evitare la condanna eterna, di ottenere la salvezza, di vivere in quell’armonia che si basa sulla fiducia e ubbidienza incondizionata al Padre. Questa conversione, che la terminologia tradizionale chiama «attrizione», da sola non implica ancora la partecipazione alla vita divina: il penitente, a questo punto, desidera accogliere lo Spirito di Gesù che grida nei cuori dei giusti «Abba, Padre», ma non lo coglie ancora. Ma questo amore, relativamente meno perfetto, diventa uno strumento nella mano di Dio. Dio, nel sacramento, fa sì che colui che in una fase anteriore della conversione é ancora «attrito», diventi «contrito», cioè ami Dio non solamente come un espediente per lo sviluppo totale della persona, ma perché egli merita di essere amato, servito, accettato per se stesso, perché é la pienezza dell’essere e del valore. Perciò il fattore esterno dell’assoluzione ecclesiastica fa sviluppare il fattore interno dell’attrizione in una conversione perfetta, in cui il penitente accoglie la grazia come principio vitale, vivificante della propria esistenza. S.Tommaso spiega questa cooperazione della libera volontà e della grazia con un paragone. Il vento spalanca una finestra e la finestra spalancata fa entrare l’aria fresca nella stanza. Una tale casualità reciproca esiste anche tra la volontà di Dio che perdona e la libera volontà creaturale che consente con la grazia. La grazia operando cambia la volontà; la volontà cambiandosi fa sì che la grazia non resti solamente una forza efficiente che opera, ma diventi un principio vitale che anima, vivifica, interiormente trasforma l’anima del penitente.
Elemento comune di queste considerazioni teologiche é che esse concepiscono il processo del perdono sacramentale del peccato commesso dopo il battesimo come una via della salvezza, cioè un arricchimento, uno sviluppo della persona umana. Tutto ciò potrebbe essere ripensato infatti anche come una riparazione del peccato, per cui il peccatore rinuncia a qualche suo bene per restituire a Dio l’onore tolto per il peccato. Anche una tale descrizione della penitenza mortificante presenterebbe un aspetto vero e tradizionale della realtà. Istruiti dalle grandi esortazioni apostoliche di Giovanni Paolo II, preferiamo invece un altro aspetto complementare positivo, antropocentrico della realtà soprannaturale. Dio, ricco di misericordia, per opera di Gesù Cristo, redentore degli uomini, continua la sua opera di creazione sul livello soprannaturale, vincendo il peccato nel bene. Così, come il lavoro e il dolore, anche la penitenza viene presentata come un dono salvifico. La penitenza evidentemente é anche una mortificazione di certe tendenze parziali e superficiali dell’uomo, ma i suoi elementi esterni ed interni sono adoperati da Dio per operare il vero bene dell’uomo, la salvezza, che comincia già nella giustificazione realizzantesi nel tempo, per apparire in tutta la sua bellezza attraente e definitiva nella salvezza escatologica. Così, lo studio teologico fa meglio comprendere perché l’intimazione della penitenza sia una lieta novella, che accoglie il regno del Padre accessibile agli uomini per Cristo nello Spirito.
Il senso della fede
La comprensione della tradizione apostolica cresce anche per l’esperienza della realtà soprannaturale concessa ai credenti nella misura della generosità con cui accolgono la testimonianza e le parole degli apostoli, nelle tribolazioni, con la gioia dello Spirito Santo.
Quest’esperienza, naturalmente, non consiste in nuove rivelazioni paragonabili con quelle che i dodici apostoli hanno ricevute. Essa non implica nemmeno una conoscenza sperimentale della realtà soprannaturale,. del Cristo vivo, che sta con noi e abita nei nostri cuori per la fede. Si tratta piuttosto di un aiuto per comprendere meglio il vero significato delle parole metaforiche o almeno analogiche, per cui la rivelazione ci schiude il mondo soprannaturale, e in una capacità di coordinare le rivelazioni complementari e convergenti per cui Dio ci fa conoscere i vari aspetti di quella realtà. Una persona che trova la gioia della sua vita nel lieto simposio degli amici, é meglio disposta a comprendere i ditirambi anacreontici, che non un filologo molto erudito, ma individualista e astemio. Colui che ha vissuto la perdita di una persona cara, capisce meglio il pianto di un orfano o di una vedova, che non una persona che conosce il lutto soltanto in quanto lo ha letto nei libri. Così, quanto più uno vive la vita intima di Cristo, tanto meglio intravede il significato di un discorso fatto nello Spirito di Gesù, sull’interiorità del Salvatore.
Il senso della fede, dato nella connaturalità con l’oggetto generalmente non darà molto più aiuto per trovare o giudicare opinioni sottili e analitiche; il suo oggetto proprio é la conoscenza sintetica di misteri, considerati sopra tutto sotto l’aspetto del valore per cui essi appellano all’affettività umana.
Anche lo stesso magistero ecclesiastico contiene una verità infallibile solamente nel caso-limite relativamente raro, quando i capi della comunità impegnano definitivamente la loro autorità, proclamando un asserto come dogma di fede. Il ragionamento teologico come ogni discorso scientifico, di sua natura é aperto ad essere revisionato. La validità del «senso della fede» é ancora più provvisoria. Il suo significato è che una dottrina, com’é attualmente intesa, nel contesto di una situazione culturale, é inseparabile dall’esperienza cristiana, o é inconciliabile con essa. Perciò é possibile che una migliore spiegazione della teoria, o la scoperta di un nuovo contesto, cambi il giudizio anteriore. Per esempio, cent’anni fa, la dottrina del trasformismo, intesa in un modo ateo e materialistico, giustamente é stata giudicata dal senso dei fedeli inconciliabile con la dottrina della creazione, spiegata come racconto storico dell’opera dei sette giorni. Attualmente, il trasformismo biologico, purificato da ogni sottinteso metafisico, é agevolmente conciliabile con il racconto della creazione, letta in chiave prevalentemente sapienziale. La voce del «sensus fidei» diventa più affidabile, se da una parte si inserisce nell’«antologia della fede», cioè almeno non sta in tensione con il resto del messaggio cristiano, e se dall’altra parte il suo dettame suscita per un tempo considerevole, su una scala abbastanza ampia di una comunità, una fioritura carismatica sopra tutto della carità, cioè se matura frutti di vita evangelica.
Ora ci sorprende il poco che dice il «senso dei credenti» riguardo al sacramento del perdono. Il concilio di Trento insegna ancora che coloro che si accostano a questo sacramento con intensa preparazione, «talvolta sogliono ottenere» la pace della coscienza, un animo sereno e una intensa consolazione spirituale (Sess. XVI, cap.3; DS. 1675). Ma questa frase resta isolata anche nell’insegnamento magistrale, trova pochissima risonanza nelle inchieste pastorali e quasi nessuna nello studio teologico. Qual’é la causa di questo silenzio, doppiamente sorprendente in un tempo in cui altre dottrine, per esempio i dogmi mariani o la teologia della liberazione, progrediscono sopra tutto sotto l’impulso del «sensus fidei»?
La prima causa é che il perdono di sua natura é un evento che possa essere fissato in un determinato attimo del tempo. Infatti, non vi é alcuna ragione per supporre che la giustificazione, che avviene in virtù del potere delle chiavi, avvenga nel momento dell’assoluzione sacerdotale: per lo più la otteniamo già nella preparazione alla confessione.
In secondo luogo, la giustificazione é poco soggetta all’esperienza interiore. L’uomo spesso si rende conto quando l’oggetto della sua volontà si cambia (per esempio quando si decide di osservare la legge morale), ma per lo più non si rende conto quando il motivo della sua volontà si cambia (per esempio quando vuole vivere una vita cristiana per l’amore di Dio e non solamente per amor proprio legittimo ma non ancora purificato). Basti pensare quante volte cambia inconsapevolmente la motivazione della nostra azione, durante una conversazione banale! Forse all’inizio cominciamo a parlare con qualcheduno per pura convenienza sociale, poi scopriamo che il nostro interlocutore é simpatico e continuiamo a conversare per puro piacere e finalmente, rendendoci conto che il nostro discorso é utile per quella persona, finiamo di parlare per fargli del bene. Non c’é dunque da meravigliarci se non sperimentiamo il cambiamento per cui l’amore di Dio si impadronisce della nostra anima in modo tale che cominciamo a servire Dio perché é il sommo bene che merita di essere amato sopra tutte le cose.
Ma se la giustificazione anche per se stessa è poco accessibile all’esperienza, diventa ancora più difficile osservare gli effetti del sacramento del perdono, a cui il Concilio di Trento allude, per causa del modo in cui oggi questo sacramento é amministrato.
Nella Chiesa antica il procedimento penitenziale si prolungava per alcune settimane, in modo tale che le preghiere personali e comunitarie, il digiuno, le elemosine e le esortazioni del vescovo o del suo sostituto costituivano un quadro anche psicologicamente efficace per la conversione; potevano essere paragonate con un corso di esercizi spirituali prolungato ed esigente. Scopo di questo procedimento era quello di produrre nel penitente un cambiamento interiore, non solo decisionale ma anche affettivo e emotivo, una disposizione di animo con alta probabilità la perseveranza del penitente. Cominciando dall’alto medioevo tutto ciò è stato cambiato. la meta della trasformazione era quella di costruire un procedimento penitenziale che per tutti e senza indugio assicurasse la vita eterna. Per non tormentare coscienze angosciose si rinunciava a molti elementi in se stessi utili, che però talvolta avrebbero imposto sacrifici estremamente duri ai penitenti. Si invert^ l’ordine della soddisfazione e dell’assoluzione, cioè subito dopo la confessione si concedeva la riconciliazione ecclesiastica; si diminuiva la durata e la consistenza degli esercizi soddisfattori; per assicurare la massima segretezza si eliminarono quasi tutti i rapporti tra la comunità e il peccatore; per poter ammettere spesso e molti al sacramento si accorciò la conversazione pastorale tra il ministro e il penitente.
Beninteso, questo sviluppo nella sua sostanza é irreversibile. L’estremo rigore della tarda antichità aveva come conseguenza che la grande maggioranza dei peccatori doveva rimandare alla fine della vita la riconciliazione ecclesiastica, perché le esigenze dello stato di penitente era inconciliabile con i doveri di stato di molti. Perciò, criticando le tendenze rigoristiche dei gansenisti, la S. Sede dichiarò «empia» l’intenzione di voler ripristinare il sistema patristico della penitenza; e infatti oggi nessuno vorrebbe costringere i penitenti di aspettare per lunghi periodi senza poter accostarsi all’eucarestia. Ciò nonostante, dove la costruzione di un quadro liturgico-pastorale che giovi all’esperienza spirituale della conversazione sarebbe possibile, é auspicata da molti ed é uno degli scopi della recente riforma della penitenza, che purtroppo soltanto superficialmente é stata applicata alla prassi. Si può domandare infatti se la prassi degli ultimi cent’anni non abbia esageratamente semplificato l’amministrazione della penitenza.
Per accostarsi al sacramento del perdono la volontà di non peccare più (e quindi di adoperare i mezzi normali per poter evitare il peccato) é almeno così importante, come l’integrità dell’accusa di tutti i peccati. Ora, la grande maggioranza di questi peccatori, i quali per lungo tempo non praticano i sacramenti e che vivono in un ambiente cristianizzato, trova una notevole difficoltà nel convertirsi seriamente a Dio, in modo tale da accettare la volontà di Dio come la norma suprema della propria vita. Una conversione vera, così intesa, é paragonabile con la decisione di cambiare mestiere, o di emigrare dal proprio paese. sarebbe irragionevole aspettare che tutti i penitenti possano fare una tale decisione in occasione di qualche grande festa o del loro matrimonio, ecc., se non ricevono un aiuto anche psicologico dalla Chiesa per compiere questo passo.
Dalla prassi odierna della Chiesa, dopo una lunga sperimentazione, emergono già alcune forme di un tale aiuto. Indichiamo solamente due esempi.
Il primo é la preparazione comunitaria, ispirata dalla seconda formula del nuovo rito penitenziale. Essa non si limita esclusivamente all’esame di coscienza, ma promuove una autentica esperienza religiosa e riconduce il peccatore nella sfera della fede, gli fa comprendere che vivere in pace con Dio é il principale valore dell’esistenza umana e che il peccato é un male più temibile che la perdita della salute e dei beni materiali. Infatti i fedeli restano spesso insoddisfatti dall’amministrazione esclusivamente individuale e frettolosa a cui sono abituati, perché oscuramente percepiscono che il loro vero peccato non é la trasgressione dell’uno o l’altro precetto del decalogo, ma consiste nel libero orientamento della vita, per cui non si curano affatto di osservare la legge di Cristo e non vedono nella riconciliazione ecclesiastica altro che un atto marginale della vita, voluto dalla convenienza sociale, o caso mai una amnistia incondizionata del castigo dovuto ai peccati. L’annuncio dell’invito fondamentale di Gesù: «Il regno dei cieli é vicino, convertitevi e credete al vangelo», fa scoprire il valore trascendente della riconciliazione di Dio e la serietà delle esigenze del vero perdono, cioè il vero significato del rito sacramentale.
Il secondo aiuto consiste nell’approfondimento del dialogo pastorale tra il penitente e il confessore. Una prassi, purtroppo assai diffusa negli ultimo cent’anni, insiste quasi esclusivamente sull’accusa di tutti e singoli gli atti peccaminosi, secondo il loro numero e specie. Ciò é naturalmente necessario, ma é ancora più importante aiutare il penitente perché egli senta l’appello di qualche motivo alla conversione, che per lui é accessibile. Ciascuno vive il mondo dei valori in un modo proprio, ciascuno é più sensibile a certi valori e resta quasi indifferente di fronte ad altri. Bisogna aiutare il penitente perché scopra che la vita del peccato é contraria proprio a quella categoria di valori ch’egli maggiormente apprezza. Una conversazione personale di dieci minuti, fatta magari fuori dell’isolamento del confessionale, spesso serve più che un discorso astratto e generale anche prolungato. Questa assistenza personale e dialogale é talmente importante, che vale più confessare cinque o sette «lontani» in un’ora, che assolvere una trentina di fedeli che accusano solamente delle fragilità quotidiane, inevitabili anche in cristiani fervorosi.
Raccogliamo i risultati della nostra riflessione.
Oggi si parla di una crisi della penitenza cristiana. Il responsabile per questa crisi non é l’annuncio magisteriale, che oggi come sempre proclama, spiega e difende l’invito di celebrare la conversione per il ministero della Chiesa. La responsabilità per la crisi non é da cercare nemmeno esclusivamente nello studio teologico, poiché esso, nonostante tristi cedimenti, ha fatto molto per approfondire la lieta novella, secondo cui anche il peccato commesso dopo il battesimo può essere perdonato nella riconciliazione con la Chiesa. La vera difficoltà sta nel fatto che questa dottrina non é assimilata, illuminata, applicata dal «senso della fede», poiché il sacramento del perdono é ricevuto e amministrato in modo che si disinteressa dell’esperienza soggettiva del perdono. Compito di tutta la Chiesa (dei penitenti e dei confessori) é celebrare questo sacramento in modo che susciti l’esperienza religiosa di tutti i fedeli, specialmente di coloro che ne hanno più bisogno, perché sono più immersi nel peccato.