Testimonianza di Cesare Curioni

(Ispettore dei Cappellani degli Istituti di Prevenzione e Pena)

 

Penso che dovremmo dire esperienze di Chiesa, più che esperienze personali, perché in carcere, al di là delle nostre propensioni, siamo stati mandati dai nostri Vescovo, e quindi lì abbiamo lavorato o lavoriamo in nome e per conto della Chiesa.

La nostra esperienza ci fa dire: «La Chiesa, una sfida alla criminalità». Perché là dentro, la Chiesa é l’unico motivo vero di speranza.

Al di là anche delle nostre persone e del nostro impegno personale, per quanto anche questo conti, conta molto infatti la nostra assiduità, la nostra attenzione a loro, là é soprattutto la Chiesa che attraverso le nostre persone porta quell’unica scintilla di luce in un mondo nel quale il buio é spesso completo.

Ho circa trent’anni di esperienza nel carcere di S. Vittore, prima di approdare, e ormai sono già oltre nove anni, a Roma all’Ispettorato, e nel mio arco carcerario, che va dall’immediato dopoguerra, al primo terrorismo, ho visto mutare radicalmente uomini, situazioni, tempi.

Negli anni 50/60 portavo in carcere studenti dell’Università Cattolica con il solo scopo di «conversare» con i detenuti. Non venivano affrontati problemi assistenziali o altro: era la conversazione di giovani della medesima età e possibilmente della medesima regione perché ci fosse un fluido scambio di esperienze: esperienze dei giovani «liberi» con quella dei giovani «detenuti». Perché, allora molto più di oggi, la situazione carceraria risentiva tremendamente del distacco dalla società esterna, spesso indifferente e altrettanto spesso nemica.

E allora la prima riflessione é questa: perché la Chiesa é lì? Vorrei solo dare una indicazione da un angolo di visuale esclusivamente evangelico. La Chiesa é lì perché ci sono degli uomini di fronte a Dio perfettamente uguali, redenti dal medesimo sangue di Cristo. Questo é un dato assoluto che non può essere diminuito da nessuna considerazione sociologica e giuridica.

E’ vero, certo, che coloro che sono detenuti sono in una situazione diversa dagli uomini liberi perché la privazione della libertà crea certamente una situazione di inferiorità. Questa inferiorità, potremmo dire, esistenziale, non può certo permetterci di considerarli inferiori per il fatto che essi sono entrati nelle maglie della giustizia. E non parlo solo di coloro che potrebbero essere innocenti; intendo anche quanti hanno certamente creato profonde ferite nella società. D’altra parte basta pensare alla stampa che spesso, ancor prima delle prove sbatte il «mostro» in prima pagina.

Per noi Cappellani, ma anche per tutti i credenti, non vi sono e non vi possono essere «mostri», ma solo uomini, che hanno sbagliato, sì, che hanno compiuto talvolta crimini efferati; uomini, in sostanza, che non hanno saputo o voluto accettare le norme consuete del vivere corretto e civile.

Detto questo però, e presupponendo con questo tutto l’impianto della giustizia umana che persegue e naturalmente punisce questa realtà (talvolta in modo equo, talvolta in modo ingiusto o assurdo, ma purtroppo anche questo é il prezzo fatale della imperfezione degli uomini), penso di poter porre di fronte alle nostre coscienze un episodio evangelico per me molto significativo. E’ un episodio che purtroppo il modo corrente di esprimersi ha un po' caramellato e ridotto a qualche cosa di emotivo: quell’episodio che chiamiamo «buon ladrone». Cerchiamo di leggerlo invece nella sua integrità senza falsi orpelli. C’é Gesù, e vicino a Lui ci sono due personaggi condannati al supplizio secondo le leggi di quella società. Il Vangelo non dà nessun suggerimento perché si possa dire che la condanna sia stata ingiusta e crudele; il Vangelo dice solo che erano due ladroni, due mascalzoni che nel contesto sociale in cui vivevano non avevano accettato le comuni norme del vivere. La differenza tra l’uno e l’altro, tra quello che chiamiamo buono e quello che chiamiamo cattivo, secondo il Vangelo, non sta’ nel fatto che é stato condannato giustamente e l’altro ingiustamente, e nemmeno - anche qui prendiamo alla lettera il passo scritturistico senza aggiungerci nulla di nostro - tra uno che si pente del male fatto e di uno che invece impreca. Ci troviamo di fronte a uno che, nonostante tutto il male fatto, dichiara di voler bene a Cristo e a Lui chiede salvezza. E’ il primo dei redenti. Senza considerazioni melense o pietistiche: la realtà é questa.

Una realtà che due anni fa, in un convegno di cappellani che ha avuto molto rilievo sulla stampa, il Cardinale Carlo Maria Martini ha con molta chiarezza svolto in una stupenda relazione incentrata sul tema: «La dignità della persona umana».

Tutti i riferimenti biblici presentati dal Cardinale dimostravano che l’uomo, qualsiasi uomo, é creato a immagine e somiglianza di Dio.

Da queste premesse consegue che il Cappellano, e non solo lui ma tutti quelli che si dicono cristiani, devono vedere in questi uomini, così come sono, feroci o deboli, disgraziati o lucidi criminali, vittime dell’ambiente o artefici diretti dei loro mali, semplicemente dei «fratelli».

La parola non deve avere equivoci. Siamo fratelli nella redenzione di Cristo e non in senso puramente emotivo o utopistico: lo siamo realmente. Quindi una deduzione precisa: un aspetto che non possiamo accettare é quello del pietismo. Già la frase consueta «poveri detenuti» senza volerlo crea una differenza: noi, i buoni, gli onesti, i cittadini per bene, e loro, un gradino più sotto verso i quali dobbiamo avere compassione. Certamente, non facciamoci illusioni, lo stato di detenzione, e magari anche il loro passato burrascoso, li pone in una situazione di inferiorità verso gli uomini liberi, però se il cristiano vuole essere conseguente li deve prendere, così come Cristo sul Calvario, nella loro realtà concreta, spesso assurda e orrenda, ma non per questo privi della figliolanza di Dio e della fraternità in Cristo con noi.

Si tratta perciò di un atteggiamento tanto concreto quanto realistico che poi porta il cristiano a inserirsi in questa realtà senza essere solo uno spettatore compassionevole anziché crudele.

Da questa premessa sorge un interrogativo: il carcere é giusto?

Spesso si trova una risposta molto superficiale: é ingiusto, é cattivo, aboliamolo. Se non vogliamo entrare nel regno dell’utopia ma restare nella concretezza, dobbiamo realisticamente ammettere che il carcere, come punizione, é uno dei mali necessari della società. Che le punizioni purtroppo debbano esistere; é fatale in relazione alla natura umana. Il problema, che poi si sposta sul piano sociale e giuridico, é un altro: é giusto che il carcere, come di fatto oggi avviene, sia «l’unica punizione»? E qui é il punto sul quale desidererei si riflettesse un momento.

Le statistiche purtroppo ci dicono che, non solo in Italia l’incidenza della recidività supera il 60%. Questo vuol dire che il carcere non rieduca. Programmazioni teoriche previste nelle leggi, sforzi di Stati o di singole persone per creare un carcere che aiuti al recupero, di fatto, se vogliamo essere onesti e realisti nel leggere le cifre, non esistono. Esiste invece, purtroppo, questa tremenda realtà per cui il carcere anziché fattore di recupero é di fatto fattore criminogeno. Quindi senza volerci dilungare in considerazioni giuridiche o sociali, dobbiamo, per prima cosa, crearci una mentalità diversa: bisogna che la società mantenga il carcere (che, per quanto perfezionato e migliorato, l’esperienza di qualche secolo ci insegna che é prevalentemente punitivo e negativo e ben poco adatto al recupero), ma lo mantenga per quei casi estremi in cui, o per la qualità del reato, o per la pericolosità del soggetto, non sia possibile trovare altra soluzione. Oggi, così com’é la situazione, potrei forse un po' banalmente paragonarla a un ospedale ove si ricoverano tutti: da chi sta per morire a chi ha bisogno solo di una aspirina. In carcere per poco o lungo tempo, purtroppo ci vanno tutti: dall’omicida efferato al ragazzotto che ruba la motoretta. Si dirà, e per certi aspetti lo dicono anche le leggi, che all’interno si dovrebbe tenere una distinzione: giovani e adulti, primari e recidivi incalliti. Non facciamoci illusioni, la situazione é quella che é, e non solo per l’attuale sovraffollamento, ma perché é fatale la legge del convoglio: marcia alla velocità della nave più lenta. E allora un primo aspetto di un cambio di mentalità corrente, é proprio questo: non identificare la punizione sempre e solo con il carcere. Si dirà che questo problema che riguarda legislatori e giuristi. E’ vero, ma solo in parte. Se essi non hanno il sostegno della opinione pubblica non riescono certamente a varare le leggi.

Un esempio molto semplice: la riforma penitenziaria nella quale vi erano timide aperture verso quelle che chiamiamo pene alternative (timide perché in qualche paese estero sono da tempo favorevolmente applicate), ha dovuto aspettare quasi vent’anni e tre legislature per andare in porto. I deputati, e non certo solo per colpa loro, portano avanti più facilmente la costruzione di una autostrada, perché sorretti da una opinione pubblica, che non la riforma penale per la quale l’opinione pubblica, se non é contraria, é almeno assente.

Quando un momento fa accennavo alle cosiddette pene alternative parlavo di quelle nuove realtà che stanno sorgendo: semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale, liberazione condizionale, possibilità di lavorare all’esterno, regime dei permessi che, se ricordate bene, negli ultimi anni, specialmente sulla stampa, non hanno certo trovato opinione favorevole. Ci si é spesso stracciati le vesti accusando lo Stato di lassismo solo perché era stato concesso qualche permesso in modo provvido, o perché qualche detenuto, ammesso a uno di questi benefici, aveva tradito la fiducia. Perché non si é voluto ricordare, con altrettanto realismo i danni prodotti dal carcere su tante persone che con leggi più moderne non avrebbero dovuto esserci, o almeno non restarci per cosi tanto tempo? Facciamo un esempio, che non é certo indicativo di tutta la realtà, ma può dare la misura di quanti danni il carcere può procurare, e non solo al condannato, anche una condanna breve di soli tre o quattro mesi. Risultato: comunque la perdita del lavoro, e talvolta, anche lo sfascio di una famiglia. Non si sarebbe potuto trovare una punizione meno traumatica? Uscire dal carcere anche solo dopo pochi mesi senza possibilità di lavoro, non é un dramma che si riflette, oltre che sul condannato, anche sulla famiglia innocente, e per certi versi, sulla società?

Ecco quindi che arriviamo all’ultima nostra riflessione, quella cioè che riguarda il cosiddetto «volontariato» che la legge di riforma penitenziaria giustamente definisce la partecipazione della società esterna alla opera di recupero propria dell’Amministrazione penitenziaria.

Abitualmente il volontariato viene pensato esclusivamente in forma assistenziale. E’ certo un vanto della Chiesa di aver creato da secoli questa forma di aiuto che ha trovato concretezza nelle «misericordie» o associazioni di patronato. E’ un fatto necessario e importante, da non sottovalutare o banalizzare. E non é giusto quindi disprezzare questa forma di intervento spesso immediata, anche se episodica, che non risolve certo tutti i problemi, ma che tampona qualche necessità emergente.

Ma il volontariato, oltre a questa, ha un’ottica più vasta, così come d’altronde la prevede la legge: può inserirsi ad esempio come aiuto al servizio sociale statale che non sempre può fare tutto quello che la legge gli assegna, può collaborare con gli educatori all’interno del carcere per programmi culturali, ricreativi, sportivi, di sostegno morale. Dò solo alcune indicazioni molto sommarie ma voglio dire che il volontariato può coprire un arco di interventi molto vasto. E mi pare che il cristiano non debba tirarsi indietro, continuando e sviluppando in chiave moderna le antiche opere assistenziali, realizzando cioè, in modo concreto e adeguato alla realtà dei tempi, il dato evangelico «ero in carcere e mi avete visitato». D’altra parte non dimentichiamo che il giudizio finale lo avremo su queste opere di misericordie.

Per il volontariato però vorrei aggiungere un’ultima annotazione: da tempo vado dicendo che oltre al volontariato attivo nelle realtà che sopra, sia pur sommariamente, ho descritto, vi dovrebbe essere a mio parere quello che io chiamo il «volontariato d’opinione».

Rifacendomi all’esperienza citata all’inizio degli studenti dell’Università Cattolica che venivano a «S. Vettore», penso, e non mi pare una utopia, che ci debbano essere persone che si impegnino, in chiave cristiana, ad aiutare il prossimo a cambiare questa mentalità, e ad essere meno distratto o assente.

Pensiamo ad esempio ad alcuni fenomeni psicologici molto gravi: l’isolamento, magari nel suo stesso caseggiato, in cui viene a trovarsi la famiglia di un detenuti. L’isolamento, al di là delle belle parole, in cui persino famigliari e parenti di vittime del crimine spesso si trovano, e che la società, la nostra società, quella delle persone per bene, rimuove dal proprio interno come qualcosa di fastidioso.

Perché non ci deve essere chi, alla luce del Vangelo, aiuti ad allargare questo spirito di fraternità che, se vuol essere veramente evangelico, deve essere senza confini?