Testimonianza di Silvio Mesiti
(Cappellano Capo del supercarcere di Palmi)
Sono diventato un super-cappellano. Il merito, per modo di dire, é di Renato Curcio; perché, arrivato lui, il mio istituto é diventato supercarcere; quindi mi ha fatto fare carriera!
Penso però che qualunque discorso relativo al carcere sia un po' difficile, come penso sia difficile entrare in quel contesto: In questo momento io vedo l’immagine delle celle nelle quali vi vorrei far entrare: l’immagine delle celle e di gente che vi sta chiusa, di gente che grida, che impreca, che ha ammazzato due, tre, cinque volte; gente che si arrabbia, che non trova speranza, che é sfiduciata, che tenta di evadere, che tenta di fare del male agli altri. Nello stesso tempo vedo anche l’immagine di una chiesa, quindi di un sacerdote, di un prete che non è né un eroe né un sacerdote qualunque; é stato assegnato lì a poi ha imparato tante cose. Penso che é assurdo, a mio avviso, che un sacerdote o un qualunque operatore pastorale possa entrare in questo contesto carcerario da solo senza il sostegno e senza la comunione con l’esterno.
Ripenso in questo momento alle mie celebrazioni eucaristiche in carcere durante gli anni di piombo 1979-80 con i detenuti che avevo davanti. Durante la consacrazione li guardavo in faccia, mi interrogavo, mi fermavo e poi dicevo: «Questo é il mio corpo, questo é il mio sangue versato per voi», e li guardavo di nuovo in faccia e mi domandavo «ma é vero, per voi e per tutti, in remissione dei peccati; fate questo in memoria di me».
Io credo che sia fondamentale questo discorso. Allora come dobbiamo andare in carcere? Come ci devo andare io? Visitare i carcerati é un’opera di misericordia corporale e fa parte di quelle opere discriminanti tra il Regno di Dio e il fuoco eterno.
«Venite, benedetti, nel Regno preparato per voi»;«Andate maledetti...; così il Vangelo.
Con queste riflessioni cerco di capire che cos’é la misericordia per poter entrare in un carcere. Mi pare che il termine misericordia significhi sostanzialmente compassione, perdono, tenerezza, fedeltà a se stesso, clemenza. E quando dico che misericordia é fedeltà a se stesso e quindi affermo che Dio é misericordioso, mi pare di capire che Dio é amore. E se Dio é amore ed é misericordioso, é fedele a se stesso, ama a tutti i costi; il suo amore non si ferma mai, raggiunge chiunque. Da questa realtà dell’infinito amore di Dio, nasce per noi la constatazione dolorosa del suo contrario. Questo sentimento di misericordia, che parte integrante dell’essenza di Dio, che è naturale nell’uomo; cioè l’uomo non fa generalmente il misericordioso...tutt’altro. Direi che Dio ha educato l’uomo alla misericordia, così come ha prodotto una salvezza, lentamente; nella pienezza dei tempi si é rivelato, si é manifestato in Cristo, che é la rivelazione dell’amore di Dio. E questo piano piano, lentamente, rispettando il livello di crescita di questo uomo. Credo che sia anche difficile per l’umanità, comprendere in termini teologici, in termini esperienzali, reali, il fatto che Dio é misericordioso e quindi che l’uomo deve essere misericordioso. Quindi Dio educa il suo popolo anche a questo sentimento. Dio vuole che questo comandamento sia osservato e lo vuole a tutti i costi, dice il profeta Osea. Questo discorso della misericordia, che é valido non solo per il carcere, ma per qualunque altra situazione sarebbe interessante che noi lo vedessimo sotto l’ottica carceraria. E’ uno degli aspetti per cui Dio é misericordioso, vuole misericordia e non olocausti, per tutte le branchie, per tutte le attività, con tutto l’uomo. Tutti gli atti di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato nella storia, rivelano la misericordia di Dio. I prediletti di Gesù nella sua vita, sono proprio i derelitti; e questi derelitti, quando proprio non trovano nessun altro, in Lui trovano un amico; in Cristo trovano speranza tutti gli uomini; per tutti c’é fiducia.
A questo punto mi verrebbe di introdurre un discorso: il discorso che il carcere é Chiesa, quindi il carcerato fa parte della comunità in modo integrante. Diciamo che in carcere il detenuto, il delinquente (per adesso chiamiamolo come vogliamo) é parte integrante del regno di Dio; perché il regno di Dio é simile ad una rete gettata in mare, che tira ogni genere di pesci. Però tutti entrano nella rete. Il regno di Dio é anche simile ad un campo seminato a grano, e di notte il nemico vi ha seminato la zizzania. Gesù dice che nessuno ha il diritto di estirparla. «Lasciatela crescere, poi alla fine...». Noi non sappiamo qual’é il grano e la zizzania. Dobbiamo parlare sì degli uomini che hanno sbagliato e possiamo parlare anche di uomini innocenti. Ce ne sono tanti. A me é capitato di vederne parecchi innocenti dal punto di vista umano, nel senso che non hanno fatto proprio niente dal punto di vista giuridico. Inoltre vi é la tragedia, per esempio della carcerazione preventiva, che prevede, certe volte, dieci, undici anni di carcere. Ma dopo tanti anni, uno subisce il processo e si sente dire: «tu sei innocente, puoi uscire».
Grazie tante...dopo dieci anni di carcere!
Quindi quando entriamo nella realtà del carcere, dobbiamo entrare nella realtà di tutto l’uomo, di tutte le categorie. Il fatto che Dio sia misericordioso, implica che anche il cristiano sia misericordioso. La misericordia é la perfezione che Cristo esige dai suoi discepoli: «Siate perfetti come é perfetto il padre vostro che é nei cieli»...«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Dice Matteo al capitolo 25: «Ecco ero carcerato e siete venuti a trovarmi». S. Giovanni dice nella prima lettera che l’amore di Dio, non rimane se non in coloro che esercitano misericordia. Quindi essere misericordiosi, (e ritorno al concetto di misericordia, compassione, perdono, tenerezza, fedeltà a se stesso e clemenza), diventa condizione essenziale per essere autenticamente cristiani. Con questa ottica, secondo me, si può entrare in carcere. C’é il ristiano, il prete, il cappellano come volete (io non farei distinzione tra prete e cappellano, o la Chiesa , e quindi la comunità); il cristiano deve guardare al carcere sia come struttura, ma in maniera più specifica, come é stato detto; deve guardare all’uomo che si trova dentro. Quando ad esempio, stringiamo la mano a qualcuno, entrato dieci minuti fa, accusato di tre omicidi, dobbiamo reprimere il sentimento di aberrazione di entrare in contatto con quell’uomo chiuso in cella, che grida, si dispera, piange preoccupato per infinite future conseguenze. Se é vero che Gesù Cristo dice «ero carcerato». Non devo andare a domandare responsabilità o apparenti giustificazioni.
Aggiungo un altro elemento: il perdono. Deve perdonare anche chi ha subito un’offesa. E’ difficile, ma c’é anche una comunità, una società che deve perdonare; siamo noi che dobbiamo perdonare.
Ma quali sono le cause che conducono l’uomo a delinquere? Cioè c’é una società, c’é una comunità che ha anche delle responsabilità, una Chiesa. Nel suo ambito, per esempio nella parrocchia, nel comune, dove volete, ci sono atti di delinquenza e di violenza. Ebbene, io ho conosciuto dei detenuti che mi hanno detto di non aver mai visto un prete. Se effettivamente questo annuncio di salvezza bisogna darlo a tutti, come si spiega che esistono le parrocchie, questi organismi, queste famiglie, queste comunità che non sanno che il tizio é nelle condizioni di sbagliare; cioè che tipo di annuncio é il nostro? Stiamo con i bravi, con i migliori, chiusi sempre nelle sacristie; poi di peso ce li portano dentro. Ma una comunità é responsabile di quello che avviene; e c’é una prassi consolidata, secondo cui un individuo che delinque, venga portato dentro di peso in una altra realtà, e poi é finito. Ma il delitto é maturato nella comunità, e la comunità deve farsi carico di quelle realtà.
D’altra parte se quell’individuo, che é in carcere, scontata la pena anche dal punto di vista giuridico, torna nella comunità, quale situazione trova, se questa comunità non é capace di accoglierlo? Che senso ha il carcere, o per lo meno che senso ha liberarlo? Lasciatelo dentro per sempre! - direbbero alcuni. Quindi ci sono delle responsabilità anche della comunità; parliamo qui della comunità ecclesiale. Non sto a fare analisi in particolare sul terrorismo. Sono delle analisi che abbiamo fatto insieme con alcuni di questi terroristi; noi ci scandalizziamo tanto e facciamo i nostri giudizi spesso severi. Può essere anche giusto nei confronti di certi errori, di certe persone che hanno sbagliato, ai quali non bisogna perdonare, secondo alcuni, ecc. Ma noi, come cristiani, facciamo le stesse valutazioni su quelli che in carcere non ci vanno mai, perché sono persone importanti, potenti, magari politici affermati, causa di tante ingiustizie nella storia della società? O sono veramente colpevoli solo quelli che sono in carcere? Le cronache molto spesso mettono in evidenza delle cose che fanno pesantemente pensare. per esempio ogni tanto si parla che negli ospedali si devono comprare i letti. Ci sono tipi di delitti e di reati, che non sono identificati, e per i quali non si va a finire dentro. Ricordo di un giovane terrorista arrabbiatissimo contro la società; mi raccontava: «Ero in collegio dove fui messo da bambino. In esso i figli dei poveri (e io ero tra questi), mangiavano bucce di piselli; invece i figli di chi poteva pagare in un certo modo, mangiavano bene, mentre noi li guardavamo a distanza». Mi disse poi: «Mio padre é morto in una pressa; é caduto dentro ed é stato schiacciato, e chi si é preoccupato di me?» Non é che io voglia giustificare il terrorismo; voglio solamente dire che, parlando di perdono, c’é anche un perdono che altre persone devono dare a noi, perché una comunità deve effettivamente, a mio avviso, farsi carico di questi problemi di prevenzione. Non dobbiamo aspettare che la gente sbagli; non dobbiamo aspettare semplicemente che la gente vada in carcere, per poi avere la possibilità di far opera di misericordia, assistendo i carcerati. Ci deve essere questo impegno, da parte della Chiesa e della Comunità, ad accogliere. Dicevo che molti non hanno mai conosciuto il prete; hanno vissuto in una situazione in cui la Chiesa non ha dato una testimonianza di capacità di collocare l’uomo nella sua globalità, nella sua interezza. Le nostre comunità infatti, fino a che punto sono accoglienti? Vi é poi la carenza dei valori umani e cristiani, che molto spesso é la causa della violenza. Ecco perché bisogna muoverci, bisogna tentare, bisogna fare attenzione ai detenuti.
IO potrei raccontare mille episodi. Nel mio carcere sono stati trovati tre chili di esplosivo; delle pistole; si rischia ogni giorno di saltare in aria; ho avuto l’esperienza del sequestro di agenti di custodia; ho sentito suonare l’allarme molto spesso, come durante la guerra; ai carabinieri dentro e fuori; perquisizioni; trasferimenti a catena e in massa. Sono cose che riguardano lo Stato, é vero. Però io dico che se il modo di gestire un carcere é fondato sulla violenza (ma lasciamo stare la violenza; può darsi che ci sia, anzi c’é in alcuni carceri: pestaggi ecc. sui quali non vorrei soffermarmi), é chiaro che si risponda allo stesso modo. E non é a caso che io abbia detto che, nonostante tutte le forze, e nonostante tutte le garanzie di sicurezza, in un carcere di massima sicurezza come quello di Palmi, tre chili di esplosivo sono la negazione della massima sicurezza.
Ecco allora, io penso, ed é questa la mia esperienza, che il modo migliore per dialogare con la gente é quella dell’amore a tutti i costi.
Ricordo che all’inizio, quando sono arrivati questi terroristi, per il fatto di essere prete e facente parte dell’istituzione, sono andato a trovarli cella per cella, ho parlato a lungo per sei mesi, e alla fine si é instaurato un dialogo collettivo e individuale. Ma poi, nei colloqui privati nelle loro singole celle, tra l’altro mi dicevano: «Guarda che il tuo gesto, non é passato inosservato».
Riporto un episodio relativo ad un detenuto che era duro, anzi durissimo. Gli é morto un figlio, un bambino che fu fulminato su un traliccio ed era stato ricoverato all’ospedale di Milano. L’atmosfera, con il terrorismo e la violenza dilagante, era molto tesa. Fecero chiamare nell’ufficio matricolare il detenuto, che vi arrivò tutto baldanzoso e gridando, senza salutare nessuno. Ad un certo punto lo avvicinai, e con la delicatezza richiesta dalla circostanza, gli comunicai che suo figlio era stato colpito da una disgrazia; che era ricoverato in ospedale; e più tardi che era morto.
Il detenuto a quell’annuncio cadde letteralmente a terra svenuto. Appena rimessosi, gli ho comunicato che io mi ero già interessato, per fagli ottenere il permesso di andare a casa a visitare la salma del figlio.
E’ uno dei tanti gesti, motivati dalla convinzione di rendere presente la misericordia di Dio e che producono, o prima o dopo, i loro effetti prodigiosi.
E infatti, in una circostanza successiva, ho celebrato la Messa nella sua cella, sul suo letto. Non si é sentito disposto per allora di fare la Santa Comunione, ma alla fine, presente un altro terrorista, si é messo a piangere, e si é buttato in ginocchio, dicendo di aver capito finalmente cosa vuol dire amore, misericordia, perdono.
Mi confidò poi la sua titubanza di ritornare, al momento opportuno, libero in questa società, nella quale aveva paura di continuare a sbagliare.
Un’ultima confidenza. Sul quotidiano «Repubblica» fu addirittura scritto che io avevo trasformato il carcere Palmi nel convento di S. Francesco di Paola, il santuario dove si celebravano tanti matrimoni.,
Io vi confesso che quei pochi matrimoni celebrati là dentro, per almeno una delle due parti (ma molto spesso per tutte e due) erano migliori dei matrimoni celebrati come parroco.
Termino ricordando un matrimonio celebrato tra una prostituta drogata e un terrorista. Alla donna, prima del matrimonio, per regalo di nozze, portai un orologio. Il giorno del matrimonio mi disse di aver capito finalmente cosa era l’amore cristiano e la misericordia di Dio.
Vi confesso che queste sono le esperienze più belle per un sacerdote; non in quanto persona, ma in quanto inviato da una comunità che a questi valori deve assolutamente credere.